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Nella cattedrale di faggi a cielo aperto la rivelazione ineffabile di un raggio di sole

di Francesco Lamendola - 03/09/2008

 

 

 

  

Una foresta di faggi, in montagna, in un chiaro mattino d'estate, è uno degli spettacoli più sontuosi e commoventi che la natura possa offrire ad un essere umano.

I tronchi poderosi, dritti come le colonne di una grandiosa cattedrale virente a cielo aperto, scandiscono lo spazio con ritmo misurato e solenne, suggerendo l'idea di un movimento possente, ma trattenuto; di una forza vasta e benevola, che si distende serenamente in un ritmo pacato e armonioso.

È bello sostare in una foresta di faggi, in montagna, e respirare la voce del silenzio.

Perché la foresta di faggi, a causa della compattezza delle chiome, non lascia filtrare che una luce indiretta e ciò impedisce la crescita del sottobosco: il terreno è soffice e pulito; e tranne lo stormire delle foglie nel vento, raramente si odono altre voci, come il canto degli uccelli o il ronzare degli insetti.

Persino il frusciare dei nostri passi è ridotto al minimo: non vi è quasi strato di foglie morte, perché gli organismi decompositori, su questo terreno sgombro, agiscono con estrema rapidità. I passi risuonano attutiti sull'humus elastico; e, se il suolo è sgombro da rocce, sembra davvero di camminare lungo le navate di una cattedrale arborea, sul liscio pavimento di marmo decorato a mosaico, nelle tinte brune e rossicce di un giorno d'autunno.

Se poi leviamo lo sguardo verso l'alto, la sensazione si fa ancora più netta. Le colonne si congiungono con la volta verdeggiante, a venti o trenta metri d'altezza, e gli squarci di azzurro fra una chioma e l'altra, generalmente rari e preziosi, simulano i rosoni e le vetrate decorate che permettono alla luce di irrompere nel tempio, ma raccogliendone l'impeto avvampante in un'onda uniforme e discreta, che piove misteriosamente in un arcano matrimonio con l'ombra delle navate laterali, delle cappelle e dei mille anfratti carichi di trepido raccoglimento.

Ed ecco, d'improvviso, nella grande voce del silenzio appena sfiorata dal soffio del vento tra le foglie innumerevoli, un raggio di sole balena fra due tronchi, e una lama di luce penetra con forza incontenibile, accendendosi di mille riflessi iridescenti.

Di colpo, non si vede più nulla; ogni cosa è scomparsa nella luce abbagliante; una miriade di fili splendenti, dei colori dell'arcobaleno, si diramano da un punto centrale che è pura luce, e si incurvano a formare una specie di croce brillante come il sole.

Per un momento siamo portati a credere che sia un gioco ingannevole, dovuto al riflesso sulle lenti degli occhiali: per cui ci affrettiamo a levarceli, convinti di veder scomparire quel prodigio fatto di raggi impalpabili, più eleganti di un fiocco di neve che si posa, in controluce, sul vetro della finestra. Ma no, il prodigio persiste: non è nelle lenti, ma nell'occhio; e solo quando una nuvola intercetta il disco del sole, anch'esso scompare subitamente e le cose riprendono il loro aspetto primitivo e la loro abituale consistenza.

Dura solo un attimo, però; perché, di colpo, la luce si sprigiona nuovamente nella fessura tra i due tronchi e, come prima, discioglie i corpi nella sua impalpabile essenza, nel suo splendore sovrano e vittorioso. L'occhio non è costretto a distogliere lo sguardo, ma tutto ciò che esso può vedere non è altro che luce; un unico, meraviglioso, indescrivibile bagno di luce, che tutto pervade e tutto trasfigura, annullando la pesantezza e l'opacità della materia.

Ecco, questo è il Paradiso: un regno di pura bellezza e d'immensa pace, dove le cose non si annullano, ma si trascendono e si spiritualizzano, trasformandosi in una miriade di fili luminosi dei colori dell'iride.

 

Il Paradiso è qui; ma, per rendersene conto, bisogna - come minimo - non avere l'inferno nel cuore; altrimenti, non sarebbe possibile vederlo in alcun modo.

È stato detto che la bellezza è, in primo luogo, nell'occhio che guarda e, solo in seconda istanza, nella cosa guardata; ed è vero, a patto di aggiungere subito che la bellezza può avere la sua dimora nell'occhio, solo a patto che l'anima sia in pace e in armonia. L'occhio, infatti, non è un organo autonomo; non sa produrre la bellezza da se stesso; la sa estrarre dal mondo, se - a sua volta - è illuminato da una luce interiore.

La ragione principale per la quale noi non riusciamo a vedere, ad apprezzare e a gioire dello spettacolo incredibilmente ricco e fastoso della bellezza del mondo, è che il nostro occhio è intorbidato da mille scorie e impurità che derivano da passioni disordinate, desideri e timori irrazionali, cieco attaccamento alle cose; e che tutto questo si traduce in un ritmo di vita assurdo e frenetico, dominato dalla fretta e dalla corsa, che non lascia alcun margine di spazio alla rivelazione dell'Essere in cui, pure, siamo immersi.

Perciò viviamo come dei gran signori che ignorano di essere tali; e, invece di godere delle mille raffinatezze che appartengono loro di diritto, si trascinano carponi nel fango e nella polvere, cercando avidamente qualche vetro di bottiglia che, in mezzo alla spazzatura, dà l'illusione di una pietra preziosa.

Questa è l'ironia delle nostre vite: che ci vestiamo di stracci, credendoli abiti raffinati; e ci nutriamo di rifiuti, convinti di ingerire cibi squisiti. Invece, gettiamo nel rigagnolo le cose realmente preziose, senza degnarle d'un pensiero; e sguazziamo, lerci, nel pantano, congratulandoci con noi stessi per il buon gusto che, infallibilmente, guida le nostre scelte.

E così facciamo anche con gli altri, con coloro che amiamo e dai quali vorremmo essere amati, apprezzati e ammirati: offriamo ad essi il nostro volto più sordido e teniamo gelosamente nascosto, come fosse un segreto vergognoso, il nostro lato migliore, la nostra autentica e luminosa essenza spirituale.

Dopo di che, passiamo gran parte del nostro tempo a lamentarci di non essere stati compresi, di non essere stati valorizzati, di non aver trovato qualcuno alla nostra stessa «altezza», dotato di sufficiente buon gusto per scorgere i nostri meriti evidenti…

 

Ma, di tutte le cattive abitudini che stravolgono la nostra capacità visiva e ci precludono lo spettacolo infinitamente rasserenante della bellezza, quella oggi più diffusa e, per certi aspetti, la più nociva, è senza dubbio la smania del fare.

È essa che ci qualifica, in primo luogo, come figli malati della modernità; ed è ancora essa che ci colloca, in quanto membri dell'Occidente evoluto e opulento, in un ambito di scarsa considerazione presso quasi tutte le altre culture del mondo.

Quando un occidentale viene apprezzato presso una società tradizionale, lo è a dispetto di quelli che noi, solitamente, consideriamo i nostri motivi di vanto, e in ragione di quelli che, invece, generalmente ci appaiono come difetti. Ma quello che, a un non occidentale, appare come il nostro peggiore difetto, è - molto probabilmente - l'iperattivismo; la convinzione tracotante che il fare sia sempre meglio del non fare; che una sorta di dovere, o di destino, o addirittura di vocazione, ci spinga ad agire, sempre e comunque, con la forza di un imperativo categorico.

Non importa il risultato; non importa se il danno che arrechiamo, a noi stessi e agli altri, supera di gran lunga il beneficio; e nemmeno ha grande importanza il fare bene quel che si deve fare, o che si è deciso di fare. No: quel che conta è l'azione per l'azione; nessuno deve poter dire, o anche solo pensare, che ci siamo tirati indietro.

La prima conseguenza di questa spinta compulsiva verso la praxis, che sconfina sovente in una autentica ossessione, è che la quantità è considerata più importante della qualità (come bene aveva visto, e denunciato, anche René Guénon).

La seconda conseguenza, non meno nefasta, è che la velocità si deve preferire alla lentezza, sempre e in ogni caso, indipendentemente dagli scopi che ci si prefigge e dalle circostanze nelle quali ci si trova.

La terza conseguenza è che, per correggere un eventuale errore, occorre agire con altrettanta precipitazione e con altrettanta invadenza, e non già prendersi una pausa di riflessione e sottoporre a critica l'eccesso di operatività.

Tutto questo è evidente non solo nei piccoli fatti della nostra vita quotidiana, ma anche nella politica, nell'economia, nella giurisprudenza, nella scienza, nella tecnica, nella medicina, nell'informazione, nell'istruzione, nello sport e perfino nell'impiego del tempo libero. Anzi, soprattutto nell'impiego del tempo libero.

La smania dell'azione ad ogni costo non è altro, in fin dei conti, che una tipica sindrome paranoide, e precisamente di un delirio di onnipotenza. Si tratta, cioè, della convinzione - più o meno consapevole - che dalla nostra azione, e da essa solamente, dipendono i destini d'infinite cose e, forse, del mondo intero.

 

Lo scopo del nostro ragionamento - si badi - non è quello di tessere l'elogio dell'accidia e dell'ignavia, del fatalismo e dello spirito di rinuncia.

Al contrario, si tratta di comprendere che il nostro agire non è sempre necessario, o utile, o desiderabile; che esso deve essere preceduto, accompagnato e concluso da una attenta ponderazione; che, in molti casi - e specialmente nell'ambito della natura -, le cose trovano da sé la giusta direzione, mentre, da parte nostra, l'atteggiamento giusto è quello di assecondarle, non già di sostituirci ad esse o, addirittura, di capovolgerle.

Wu Wei, suggerisce l'etica taoista: ossia, agisci cercando di ridurre al minimo l'azione; o, anche, agisci senza lasciarti trasportare dall'azione. In altri termini: agisci solo quando è veramente necessario, e avendo cura di far coincidere la tua azione con le leggi armoniose della realtà naturale, alle quali nessuna saggezza umana può dirsi superiore.

Un bagno di umiltà, ecco ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno; e la chiara consapevolezza che noi non siamo gli arbitri del destino di nessuna cosa, neanche di un misero filo d'erba, se ci poniamo al di fuori e al di sopra della divina armonia che regge il tutto.

 

Questo non significa che dobbiamo rinunciare ai nostri sogni o abdicare alla nostra qualità di soggetti di una coscienza intenzionale; al contrario.

Si tratta di capire che solo rientrando nella prospettiva di una armoniosa collocazione all'interno dell'Essere, noi possiamo attingere alla parte più profonda e più vera di noi stessi e realizzare pienamente la vocazione alla quale siamo stati chiamati.

E tutto questo avrà come risultato un enorme arricchimento del Sé, nel tempo stesso in cui porrà dei limiti ben precisi all'arroganza e all'invadenza di quel piccolo io che pretende, continuamente,  di egemonizzare la profondità e la varietà della nostra persona.

 

Henry David Thoreau, dopo due anni di eremitaggio trascorsi fra i boschi del Lago Walden, ha ricavato la seguente morale dalla sua esperienza (da Walden, ovvero la vita nei boschi; titolo originale: Walden, or the Life in the Woods; traduzione di Piero Sanavio, Rizzoli editore, Milano, 1964, pp.305-06):

 

Imparai questo, almeno, dal mio esperimento: che se uno avanza fiducioso nella direzione dei suoi sogni e cerca di vivere la vita che s'è immaginato, incontrerà un inatteso successo nelle ore comuni. Si lascerà qualcosa alle spalle, passerà un confine invisibile, leggi nuove, universali e più libere cominceranno a stabilirsi dentro e intorno a lui; oppure le leggi vecchie saranno estese e interpretate  in suo favore in senso più ampio. Così egli vivrà con la licenza di un più alto ordine d esseri. In proporzione a quanto egli semplifica la propria vita, le leggi dell'universo gli appariranno meno complesse, e la solitudine non sarà tale, né la povertà sarà povertà né la debolezza debolezza. Se avete costruito dei castelli in aria, il vostro lavoro nn deve andar perduto; è quello il luogo dove dovrebbe essere. Ora voi dovete costruirvi sotto le fondamenta.

 

E quanti di noi, infatti, per avere assecondato le brame del piccolo io ed essersi abbandonati all'ebbrezza di un agire fine a se stesso, hanno dimenticato di costruire le fondamenta del proprio lavoro o, addirittura, le fondamenta del proprio essere?