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C'è bisogno di qualcosa in cui credere, di qualcuno di cui potersi fidare veramente

di Francesco Lamendola - 08/09/2008

 

 

 

Una delle illusioni più grandi e più pericolose della cosiddetta civiltà del benessere è stata quella che, per vivere, basti assicurarsi i mezzi materiali a ciò necessari; e, poi, lanciarsi all'inseguimento di ogni desiderio, di ogni capriccio, di ogni fantasia.

In altre parole, si è dato per scontato - partendo da una concezione banalmente materialistica dell'uomo - che la persona non abbia alcun bisogno di scopi, né di un progetto esistenziale, e nemmeno di una intenzionalità del proprio agire. Che ad ogni essere umano possa bastare ciò che si crede (a torto) esser sufficiente a uno scimpanzé rinchiuso nella gabbia di uno zoo: banane e noccioline a disposizione, quante ne può desiderare; un tetto sopra la testa, per ripararsi dal freddo e dalla pioggia; e un pubblico benevolo, davanti al quale sfogare, ininterrottamente, il proprio narcisismo e il proprio esibizionismo più sfrenato.

Però, davanti al fatto incontestabile che mole persone, pur disponendo di cibo, un tetto e qualche lusso, non hanno trovato affatto la serenità, ma sono in preda a nevrosi d'ogni genere, fino a giungere al suicidio, è sorto un esercito di volonterosi persuasori professionisti, psichiatri e psicanalisti, al fine specifico di rimuovere l'origine «irrazionale» del vuoto esistenziale e di persuadere i figli della società del benessere che tutto va bene, che non hanno alcuna ragione di lagnarsi, e che devono solo pensare a godersi la propria vita.

Eppure, non basta.

Molte persone, e spesso le più intelligenti e le più sensibili, continuano a manifestare una fastidiosa e inesplicabile insoddisfazione nei confronti della vita che conducono, a dispetto del fatto che in essa, apparentemente, non manca proprio nulla di ciò che dovrebbe renderle felici: una bella moglie (o un bel marito), dei bei bambini, una bella casa, un bel lavoro, dei bei vestiti, una bella automobile (o due, o tre…): insomma, tutta una serie di cose belle.

Incredibile dictu, costoro non rispettano il copione prestabilito e soffrono di un inspiegabile senso di vuoto che, secondo la scienza e la filosofia materialiste oggi imperanti, non avrebbe alcuna ragione di sussistere.

La risposta di psichiatri e psicanalisti è stata quella di alzare il tiro: e così si sono messi a scavare, come talpe, negli scantinati e nelle fogne della coscienza, alla ricerca di  immaginari traumi infantili, di pulsioni incestuose e omicide, di ogni sorta di segreti vergognosi, per convincere i propri pazienti che loro, e solo loro, sono la causa del malessere che li affligge; o, per dir meglio, non loro, ma quell'altro che ha preso domicilio in loro, abusivamente, usurpando - come il signor Hyde nei confronti di mister Jekill - la loro carta d'identità…

E invece no.

Le ragioni del malessere, del senso di vuoto, della «nausea» di cui parlava Jean-Paul Sartre, non hanno a che fare - con buona pace di Freud e dei suoi accoliti - né con il complesso di Edipo, né con l'invidia del pene o cose del genere, ma dall'aver tradito le esigenze più autentiche e profonde della persona umana, disconoscendone la vera natura, la ragione di essere al mondo e la sua ultima destinazione.

Siccome hanno trovato e messo insieme un certo numero di antiche ossa, i nostri scienziati -  indossando goffamente i panni del filosofo - pensano di aver capito tutto sull'origine dell'uomo, nonché sul posto che egli occupa nella natura e sul significato della sua esistenza; e sentenziano che, avendo trovato il modo di alimentare sempre il fuoco, tenere lontane le bestie feroci e soddisfare ogni altra esigenza materiale, egli non può aver niente altro da desiderare; a meno che, si capisce, sia malato e bisognoso di cure psichiatriche.

Ogni altra ipotesi suonerebbe per loro come un'eresia inaccettabile e, implicitamente, come una censura al loro modus operandi; mentre essi sono talmente certi e sicuri di avere la verità in tasca, da essere sinceramente persuasi che solo un individuo disturbato può pensarla diversamente; ma disturbato per ragioni e per problemi tutti suoi, che non hanno niente a che fare con le magnifiche sorti e progressive della specie homo sapiens

Ecco, dunque, delinearsi gli anelli di una catena perversa, che impedisce all'uomo di trovare una risposta alle sue legittime esigenze e un conforto nella sua angoscia, perfettamente logica e comprensibile: una scienza che vuol sostituirsi alla filosofia; una filosofia che si riduce a psicologia; una psicologia che si riduce a puro edonismo: ricerca compulsiva del mero benessere individuale, considerato come il bene più alto e come il fondamento della vita morale.

Questa catena è il prodotto di uno scientismo che giudica l'uomo null'altro che un animale un po' evoluto e che, ritenendo (sempre a torto) di sapere cosa sia un animale e quali siano i suoi bisogni, ritiene di aver detto la parola definitiva sulle necessità della vita umana, liquidando una volta per tutte la sua nostalgia verso la trascendenza come una forma di nevrosi (Freud), di alienazione sociale (Marx), di repressione religiosa (Nietzsche).

 

Invece, se c'interroghiamo onestamente nel profondo del nostro essere, noi sentiamo chiaramente che non è affatto così; anche se il pensiero logico-matematico, che noi (sempre a torto) abbiamo assolutizzato, non è in grado di rendere ragione della nostra inquietudine.

Inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te, Domine, diceva sant'Agostino: «inquieto è il nostro cuore, finché non trova pace e riposo in Te, o Signore».

Considerare l'inquietudine come una specie di malattia, di deviazione dalla retta via: ecco il grande peccato di orgoglio della modernità, che non ha saputo vedere in essa il contrassegno della natura trascendente dell'uomo, la sua aspirazione al ritorno nell'Essere, dal quale proviene e al quale aspira,  con tutte le sue forze, a ricongiungersi (cfr. il nostro articolo Elogio dell'inquietudine, sul sito di Arianna Editrice).

Il nostro cuore è inquieto, perché non potrà mai appagarsi soltanto di tutte le belle cose di quaggiù; e non potrà mai mettere a tacere interamente l'istinto profondissimo che lo spinge a cercare qualche cosa d'altro, levando lo sguardo verso le altezze.

 

Il problema fondamentale, e l'ostacolo più scoraggiante, che la maggior parte delle persone incontrano nel loro anelito verso l'Assoluto, è l'impossibilità di trovare qualcosa in cui credere, qualcuno di cui potersi fidare veramente.

Ci si guarda intorno, ma non si vedono che oggetti limitati, persone imperfette; nulla che possa appagare per davvero la sete bruciante d'infinito, per la quale ci si vorrebbe gettare a capofitto in una causa, in un amore, e profondervi tutte le energie possibili, senza risparmio. In altre parole: ci si vorrebbe donare, totalmente e incondizionatamente; ma non si scorge nulla o nessuno, all'orizzonte, che meritino una scelta così radicale, un passo così estremo.

Di tanto in tanto, è vero, sembra di aver trovato quello che si cercava. È il momento in cui ci s'innamora di un ideale o, anche, di un altro essere umano; in cui ci s'inebria della felicità di aver finalmente incontrato quello che il proprio cuore invocava da sempre; e in cui si potrà, finalmente, profondere i tesori di una capacità di donarsi, senza riserva alcuna.

Ma poi, presto o tardi, arriva la delusione; tanto più dura e amara, quanto più grande era stato il proprio coinvolgimento. Le ideologie crollano, gli amori tradiscono: arriva il tempo in cui ci si rende conto, con raccapriccio, di aver proiettato in maniera illusoria i propri ideali più elevarti su qualcosa o su qualcuno che non lo meritavano, che non erano all'altezza. E il bilancio di mesi o anni di rapito coinvolgimento risulta, a dir poco, fallimentare.

Dopo di che, si ricomincia a vivere; ma un poco più delusi, un poco più amareggiati e scoraggiati; fino al momento della prossima illusione, e - ovviamente - della prossima delusione. E così, avanti, da un'illusione all'altra, da una delusione all'altra: reiterando sempre le stesse dinamiche, gli stessi sbagli; e - quel che è peggio - il più delle volte, senza nulla imparare…

E allora?

E allora bisogna avere l'umiltà di riconoscere che questo bisogno profondo di gettarci a corpo morto in qualcosa in cui credere o in qualcuno di cui poterci fidare veramente, ci è stato dato non per una beffa dei nostri cromosomi o per un disturbo della nostra psiche, ma per richiamarci al senso della nostra autentica natura, del nostro essere nel mondo e della nostra ultima destinazione.

Fortunati, dunque, coloro che avvertono in sé questo malessere, questa perenne insoddisfazione cui non sanno dare un nome, né una causa apparente: è il segno che le loro forze più intime sono ancora vive, e lottano per venire alla luce. Disgraziati, invece, coloro - se pure ve ne sono - che non avvertono nulla di tutto questo, magari stordendosi con l'aiuto di mezzi artificiali: vuol dire che, di umano, è rimasto loro solo l'involucro…

 

Il bisogno di credere in qualcosa e il bisogno di fidarsi veramente di qualcuno non sono affatto qualche cosa di estrinseco e, magari, di patologico, come vorrebbe una scienza presuntuosa, che non sopporta di non saper spiegare tutto e di dover ammettere i propri limiti.

Sono, al contrario, bisogni costituitivi dell'essere umano, legati al suo statuto ontologico: deforme, e mostruoso, sarebbe un individuo che ne fosse totalmente privo. Si tratta, perciò, di bisogni primari nel pieno senso della parola: non certo meno primari del bisogno di mangiare e di bere, anche se - evidentemente - appartengono a un altro ordine di priorità.

È proprio l'aver voluto vedere nell'essere umano soltanto un mammifero evoluto a casaccio (come, del resto, a casaccio sarebbe evoluta ogni altra forma vivente, secondo il darwinismo), che ci ha indotti a ritenere, erroneamente, che di solo pane possa - e, magari, debba - vivere l'uomo. E, a causa di un tale equivoco - così banale, in fondo, se osservato con mente sgombra da pregiudizi razionalistici -, si è finito per considerare come un'anomalia ciò che di più autenticamente umano alberga nella coscienza: l'inquietudine, la nostalgia dell'Altrove.

Abbandonato a se stesso da una cultura che ha fatto tabula rasa di ogni legittimo riferimento esistenziale, consegnandolo in balia dell'effimero e della contingenza, l'uomo moderno ha finito per considerare la ricerca di senso come una questione del tutto privata, affrontandola nell'ottica di una ricerca del finito e nell'ambito del finito; per poi dare, ogni volta, a se stesso o all'altro, la colpa di ogni inevitabile disillusione e di ogni amarezza.

Qualcuno avrebbe dovuto dirgli che amarezza e disillusione non sono affatto un destino, né un errore congenito, ma il risultato di aver cercato nella direzione sbagliata; di aver perseguito, cioè, il desiderio dell'infinito in ciò che è finito, il desiderio dell'assoluto in ciò che è limitato e imperfetto…

Eppure, se la direzione di marcia era sbagliata, non è sbagliato per niente l'obiettivo.

Se vi sono, in noi, dei tesori così grandi di desiderio d'amore, di fiducia e di pienezza, ciò significa che ci sono stati dati per qualcosa, per una ragione e per uno scopo ben precisi: come una lunga scala mediante la quale possiamo salire in alto, sempre più in alto.

Platone sosteneva che la bellezza sensibile è un mezzo per elevarsi alla bellezza spirituale. La stessa cosa si può dire per tutto ciò che attiene al mondo dei sensi: non sono dei traguardi in se stessi, ma gli strumenti per innalzarci verso la pienezza cui tutti aspiriamo, perché tutti - nel fondo dell'anima - sentiamo di essere profondamente indigenti.

Meravigliosa è la bellezza del mondo, e sarebbe una grave forma di ingratitudine non rendergliene merito; eppure, non è ancora tale da poterci appagare interamente.

Noi abbiamo bisogno di andare, attraverso di essa, oltre di essa: questa è la giusta direzione da seguire.

 

Come afferma Francesco nel Cantico delle creature, noi dobbiamo essere infinitamente grati allo splendore di tutto ciò che ci circonda, ma senza scordarci che esso è un invito ad andare avanti, a varcare la soglia oltre la quale vi sono una bellezza che non appassisce e una luce che non dilegua mai.