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« Corre una barbara usanza per tutta l'India fra gl'Idolatri: d'abbruciarsi vive le mogli…»

di Francesco Lamendola - 08/09/2008

 

 

Non molte sono le persone di media cultura, oggi, alle quali il nome di Daniello Bartoli (scrittore, gesuita e missionario mancato, nato a Ferrara nel 1608 e morto a Roma nel 1685) dice ancora qualcosa.

A scuola, nei licei, i professori tirano dritto quando le antologie lo menzionano (quelle, almeno, che gli dedicano un sia pur piccolo spazio), in base al pregiudizio desanctisiano che il XVII secolo non ha prodotto alcuna opera in prosa che meriti di essere ricordata, ad eccezione di quelle dell'ormai  «canonico» Galilei («il più grande scrittore del Seicento», secondo il Pazzaglia) e, tutt'al più - ma a titolo di semplice curiosità - qualche paginetta di Traiano Boccalini o di Francesco Redi (ma, di quest'ultimo, più spesso l'arcinoto ditirambo Bacco in Toscana, che non è la sua cosa migliore, anche se la più briosa).

Pietro Giordani e Giacomo Leopardi, al contrario, tennero la prosa del Bartoli nella massima considerazione, al punto da considerarla - con un po' di esagerazione - esempio eccelso di scrittura in lingua italiana, e modello quasi insuperabile.

Non vogliamo soffermarci, tuttavia, sui meriti (o i demeriti) letterari di questo figlio del «gran secolo», autore di svariate opere erudite, letterarie, edificanti, ma soprattutto di una monumentale e coloritissima Istoria della compagnia di Gesù (1650-73), la fatica suprema della sua vita di scrittore e di storico della Compagnia fondata da Ignazio di Loyola; quanto soffermarci su un'operetta secondaria, nella quale - fra le altre cose - tratta di una usanza della cultura indiana, quella del sacrificio sul rogo delle vedove, che già allora, non appena conosciuta in Europa, fece molto discutere; e che non cessa di alimentare vivaci polemiche ancora oggi, alle soglie del terzo millennio.

Padre Bartoli non traccia un quadretto esotico di maniera (per quanto tendente al lugubre), bensì descrive una usanza circa la quale poteva disporre di fonti di primissima mano, essendo l'India, ai suoi tempi, terra di missione dei suoi confratelli dell'ordine gesuita, già da diverso tempo. Egli, quindi, poté attingere non solo alle relazioni scritte, ma, molto probabilmente, anche ai racconti fatti a viva voce da testimoni diretti dei fatti narrati. E ciò conferisce non poca autorevolezza al quadro che traccia di quella usanza, sia pure nel contesto di un'opera scritta con finalità apertamente apologetiche.

È vero che si tratta di una pratica ormai in gran parte abbandonata e ufficialmente scomparsa, secondo le norme del codice penale; ma è altrettanto vero che essa è sopravvissuta in forma strisciante, sostituendo alle fastose cerimonie di qualche secolo fa strategie più insidiose e sfuggenti, come quella di far passare per incidenti domestici degli incendi dolosi nei quali le vedove vengono di fatto sacrificate, come un tempo, alla memoria dello sposo defunto.

Gli antropologi «politicamente corretti» e, in genere, gli occidentali innamorati della cultura e della civiltà dell'India (tra i quali ci mettiamo volentieri noi stessi) tendono, in genere, a sorvolare sul perpetuarsi mascherato di questa usanza, così come non amano parlare delle caste (anch'esse abolite per legge, ma anch'esse di fatto ancora esistenti), perché sembra loro che, diversamente, un'ombra verrebbe gettata su una realtà che vorrebbero immaginare, e presentare ad altri, come totalmente positiva e degna d'esser presa incondizionatamente a modello, sia dagli Europei che dai Nordamericani, quanto meno dal  punto di vista spirituale.

Per la stessa ragione, molte di queste persone vorrebbero far passare sotto silenzio i fatti di sangue verificatisi nello stato dell'Orissa proprio in questi giorni (primi di settembre del 2008), con i massacri di cristiani e le violenze d'ogni genere scatenate da orde di fanatici indù; come se amare qualcuno o qualcosa  - e questo vale anche per i popoli e per le culture - significasse violentare la storia per costruirne una immagine di comodo, manichea e unidimensionale.

Coloro che la pensano così, non sanno amare veramente né rendono un buon servizio all'oggetto della loro sconfinata ammirazione; non più di quanto farebbe una persona che mancasse di segnalare all'amico, con benevolenza ma anche con franchezza, errori e difetti dai quali potrebbe correggersi, se qualcuno lo aiutasse a prenderne coscienza.

Certo, si tratta di una questione particolarmente delicata, perché troppo a lungo la cultura occidentale ha preteso di impancarsi a giudice unico e assoluto di tutte le altre, partendo dal presupposto - neanche tanto dissimulato - che essa, ed essa sola, era già perfetta e poteva evidenziare le carenze delle altre, proprio perché queste, prima o poi, avrebbero dovuto prenderla a modello e uniformarsi alle sue credenze, ai suoi valori e alle sue mitologie.

Tuttavia, se un occidentale sa spogliarsi della presunzione etnocentrica ed è disposto a riconoscere lealmente sia i difetti della propria cultura, sia i pregi delle altre, non si vede perché dovrebbe auto-censurarsi quando l'argomento del giorno riguarda aspetti criticabili dei costumi di popoli lontani e, per tanti altri versi, degni di ammirazione.

È ben vero che una forma esasperata di malinteso strutturalismo vorrebbe che non si parlasse affatto degli aspetti discutibili, violenti o crudeli delle tradizioni altrui; complice anche, crediamo, un mal dissimulato senso di colpa per le violenze perpetrate dalla civiltà occidentale a danno delle altre. Secondo un tale punto di vista, dal momento che tutte le tradizioni svolgono una funzione sociale ben precisa, sono tutte ugualmente necessarie e degne di rispetto; senza contare che non si vede in base a quale criterio di giudizio i membri di un data cultura possano criticare le usanze di un'altra, in cui vigono differenti valori e differenti norme etiche.

Alla prima argomentazione è facile rispondere che, se è vero che tutte le tradizioni svolgono una funzione sociale (altrimenti verrebbero abbandonate, sia pure gradualmente), da ciò non segue affatto che esse siamo tutte ugualmente necessarie e degne di rispetto; a meno che si voglia cadere nell'assurdo di sostenere che erano tali le ecatombi dei gladiatori nel Circo Massimo, a Roma, o la pratica dei sacerdoti aztechi di offrire alla divinità solare migliaia e migliaia di cuori umani, estratti dal corpo ancor vivo delle vittime per mezzo di un affilato pugnale di ossidiana. Oppure si vorrà  sostenere che la prima era una tradizione ignobile, perché i Romani erano uomini dell'Occidente, mentre era nobile o, comunque, rispettabilissima la seconda, perché gli Aztechi erano i rappresentanti di una civiltà che dall'Occidente è stata distrutta?

Un tempo si diceva, e a ragione, che bisogna diffidare di quello che racconta la storia, perché è scritta (tendenziosamente) dai vincitori; ma, quando si ha a che fare con gli storici e con gli antropologi occidentali e «progressisti», pare che sia necessario diffidare altrettanto, e per la ragione contraria. Infatti, secondo costoro, la storia dell'Occidente ha sempre «torto», perché parla dei vincitori i quali, si sa, sono gente cui non bisogna mai prestare fede; mentre quella dei popoli non occidentali ha sempre «ragione» perché, in quanto vittime dell'aggressione, questi ultimi sono sempre degni di una fiducia e di una approvazione incondizionate.

Un tipico esempio di tutto ciò è il modo in cui gli antropologi occidentali trattano - o, per dir meglio, evitano di trattare - la pratica delle mutilazioni genitali femminili nelle società islamiche del Nord Africa e del Vicino Oriente. Quei pochi che si confrontano con questo tema scottante, in genere sostengono che il concetto occidentale di «mutilazione» è improprio, perché si tratta di pratiche di iniziazione (dall'infanzia all'età adulta) basate sulla «circoncisione» e rivolte ad entrambi i sessi. Certo, bisognerebbe far capire a quei volonterosi antropologi «politicamente corretti» che la fisiologia dei genitali femminili è un po' diversa da quella dei maschili; e che la circoncisione maschile si riduce all'ablazione di una striscia di pelle priva di alcuna conseguenza, mentre quella femminile (clitoridectomia) consiste nell'amputazione di un organo, la quale avrà conseguenze drastiche e definitive sulla vita sessuale della donna.

Ma come spiegare l'evidenza a chi è in preda a un preconcetto? Egli non vuol vedere la realtà delle cose, ma soltanto quell'aspetto della realtà che dà ragione ai suoi pregiudizi. Quanto al resto, è ben deciso a voltare la testa dall'altra parte.

 

Ma torniamo all'immolazione rituale delle vedove in India.

Scrive dunque Daniello Bartoli nella sua monografia Missione al Gran Mogor del p. Ridolfo Aquaviva della Compagnia di Gesù. Sua morte  e d'altri quattro compagni uccisi in odio della fede in Salsete di Goa descritta dal p. Daniello Bartoli della medesima Compagnia, edita a Roma nel 1653 (noi, qui,  facciamo riferimento al testo pubblicato a cura delle Edizioni Paoline, Bari, 1963, pp. 72-75):

 

Corre una barbara usanza per tutta l'India fra gl'Idolatri: d'abbruciarsi vive le mogli, in testimonianza di fedeltà e segno d'amore, co' cadaveri de' mariti.

Ella è solennità che si celebra più o meno pomposa, secondo la qualità delle mogli nobili e ricche, o povere e del volgo. Ché, s'ella è donna di qualche affare, e non si gitta in quel medesimo fuoco dove è il marito, ma mentre egli arde, ella quivi innanzi, tutta scapigluata e dolente, strilla a gran voci, si straccia i capegli e i panni, e si dibatte e schiamazza, e piange alla disperata. Ridotto in cenere il marito, quella tutta in un subito si rasserena:; e, preso sembiante e parole e atti della più sconsolata donna del mondo,  tutta si rabbellisce, e in guisa di novella sposa si addobba de' più dei panni e delle care gioie che abbia; e per tutto dove ha parenti, o va ella stessa tutta imbiutata di sandalo odoroso e con nell'una mano lo specchio, nell'altra un bel frutto aurino, e danzando in mezzo a un coro di sonatori: o se tanto non vuole, manda chi che altro sia, invitandoli, per lo tal giorno prefisso, a convenir seco nel medesimo campo colà dove arse il cadavere del marito. In tanto ella ed essi ogni dì, sono in banchetti e in bali e in ogni altra maniera di barbara allegrezza, come ogni dì fossero a nozze.

Giunto il termine già prescritto, ella compare il più che mai abbigliata, e in ricchi panni, e con indosso quanto ha di gioielli e perle e ogni altra simil cosa di pregio, carica più che ornata: e messa sopra un caval bianco per così meglio apparire, a suon di nacchere e di trombe, accompagnata di tutto il parentado, che anch'egli come a gran solennità è pomposamente vestito, dà una lunga volta per le più frequentate vie della città: indi n'esce al campo, colà dove le ceneri del marito, non ancor sotterrate, l'aspettano.

Quivi è apparecchiata una fossa profonda poco più di quanta è l'altezza di un uomo, e larga quanto alta, piena fino al sommo di preziosi legni per lo soave odore che gittano, sandalo, aquila, aloé, sì come ad ognuna il comportano le sue ricchezze. A un lato d'essa e su l'orlo v'ha un palco, sopra cui ella sale per mettersi in veduta dell'infinito popolo che vi s'aduna: e così alta, in prima tre volte tutto intorno si gira, e mostrasi agli spettatori; poi ferma incontro all'Ordine, lieva in su verso il cielo le braccia, e tre volte s'inchina.

Ciò fatto, comincia a torsi di dosso tutti que' suoi adornamenti di gioie e d'ori, e fra' figliuoli e parenti suoi li riparte: e fallo, non che senza il volto sembiante o coloro di smarrita, molto meno l'addolorata o piangente, ma con un'aria tanto giuliva e serena, che sembra doversi gittare a vlo verso il paradiso.

Vero è che le più d'esse beono innanzi una gran tazza di non so qual fumoso licore che le inebbria, e toglie più che mezze di senno, tanto che ve ne ha di quelle che ballano per intorno alla fossa, e fan mille tripudi da pazze.

Così rimasa in un guarnello sottile, che la cuopre sol dalla cintola alle ginocchia, mentre il sacerdote d'alcun de' loro idoli mette fuoco nella stipa, ella si volta a gli uomini, e in vice alta e franca, dice loro: mirino quanto il dover vuole che pregino e che riamino le loro mogli, alle quali è più caro il morir con essi che il viver senza essi. Indi alle donne: imparino come debbono esser fedeli a' loro mariti.

Così detto, si lieva in capo una bell'urna piena d'olio, o di balsamo se ne ha, e con essa di lancio si gitta in mezzo alle fiamme; e nel medesimo istante i figliuoli e i parenti, che quivi son d'attorno, le versan sopra ciascuno un vaso d'alcun simil licore; onde in brevissimo spazio arde e si fa cenere.

Non è già che tutte le mogli che sopravvivono a' mariti abbian cuore da tanto: ma a qual d'esse non l'abbia (e sono veramente le più), il non averlo costa l'infamia. I parenti radono loro il capo, e con solennità di maledizione le si gittan di casa, ed elle vanno raminghe, perché non v'ha chi degni riceverle ad albergo, né riman loro altro rifugio, o scampo, che farsi pubbliche meretrici, dedicate all'onor d'alcun idolo e al piacer de' divoti: e v'ha tempio che di così degne sacerdotesse conta oltre un centinaio, che il dì suonano e cantano in onore dell'idolo, poi de' loro propri corpi fanno il sozzo guadagno onde campano.

 

Anche in questo caso, la difficoltà più grande, per lo storico così come per l'antropologo, nel porsi di fronte a una pagina di questo genere, non deriva tanto - a nostro parere - dalla mancanza di un criterio oggettivo che permetta di distinguere le pratiche e le tradizioni «accettabili» da quelle «inaccettabili», nonché di individuare una istanza super partes a ciò deputata.

È chiaro, infatti, che sia per lo storico che l'antropologo lo scopo della ricerca non è quello di esprimere giudizi, bensì di cercar di comprendere i fatti; ma è pure altrettanto chiaro che l'uno e l'altro, in quanto esseri umani, non possono evitare di porsi anche in maniera etica di fronte all'oggetto della propria ricerca, che non sono entità astratte come per il matematico, o minerali come per il geologo, bensì altri membri della comunità umana, passata o presente.

Lo storico della seconda guerra mondiale, ad esempio, non può non nutrire una opinione etica, oltre che politica e militare, su un fatto come il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki; così come l'antropologo che, appena qualche decennio fa, si addentrava nelle foreste della Nuova Guinea per studiare gli usi e i costumi delle tribù papua più isolate sulle montagne, non poteva non nutrire una opinione etica, oltre che scientifica, circa il fatto del diffuso cannibalismo e di alcune cerimonie orgiastiche basate sull'omicidio rituale dei fanciulli (cfr. F. Lamendola, Sesso, omicidio e antropofagia nei culti della fertilità presso i Marind-anim, consultabile anch'esso sul sito di Arianna Editrice).

No: la difficoltà più grande non è questa; bensì quella di superare il retaggio di un neopositivismo che vorrebbe le tradizioni tutte ugualmente fondate e necessarie; di un materialismo che nega la liceità di ogni giudizio di valore; e, nel caso degli studiosi occidentali e «progressisti», la lunghissima coda di paglia che impedisce loro di criticare qualunque aspetto delle tradizioni altrui, anche il più truculento, nel tempo stesso che sottopongono a una critica spietata e demolitrice praticamente tutto quello che la civiltà occidentale ha espresso nel corso della sua lunga vicenda storica.

E allora?

E allora bisognerebbe avere l'onestà di riconoscere che, anche se quella dell'India è stata, ed è tuttora, una grandissima civiltà, pure nemmeno essa è esente da aspetti riprovevoli, e tanto più nel passato (basti pensare alla numerosa e spietata setta dei thugs, gli strangolatori rituali che uccisero migliaia e migliaia d'innocenti in onore della dea Kalì).

In tutte le civiltà umane, da quelle più vicine allo stato di natura a quella tecnologicamente più avanzate, convivono aspetti di crudeltà e di generosità, di apertura e d'intolleranza; influenzati, a loro volta, da una complessa trama di vicende storiche e d'influssi climatici e geografici; gli Inuit o Eschimesi, ad esempio, non avrebbero praticato l'abbandono degli anziani al sopraggiungere del rigidissimo inverno,  se le condizioni di vita nell'estremo Nord non fossero così inclementi da rendere impossibile il mantenimento di individui non produttivi.

Pure, a dispetto dei condizionamenti dovuti all'ambiente, ovunque l'essere umano si mostra suscettibile di evoluzione spirituale; si mostra, cioè, perfettibile.

Missionari che hanno vissuto per anni in mezzo alle tribù di feroci cannibali - genti, per intenderci, capaci di banchettare con il cervello caldo dei bambini sfracellati con le loro stesse mani  (cfr. André Dupeyrat, Nel paese degli uccelli paradiso) - hanno riferito pure di commoventi gesti di delicatezza e di slanci di generosità da parte di quegli stessi individui.

Che cosa concludere?

Forse, che il mistero presente nell'animo umano è davvero troppo grande perché lo si possa  imbrigliare nelle strette categorie di una cultura razionalistica che pretende di poter capire tutto, spiegare tutto e tranciare dei giudizi su tutto (senza, però, esagerare; in ogni caso, senza mettere in imbarazzo la propria ideologia di appartenenza…).

E che l'unica maniera giusta di porsi di fronte a tale mistero - o, almeno, quella meno sbagliata - consiste nello sforzarsi di comprendere la realtà a trecentosessanta gradi, rifiutando le formulette preconfezionate, senza stancarsi mai e senza fare sconti a nessuno. Neanche - e, vorremmo dire, soprattutto - nei confronti di se stessi.