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Latouche. La decrescita…

di Mario Grossi - 08/09/2008

 

…serena

Immaginate questa scena. Siete saliti su un treno diretto da Roma a Milano. A Firenze un signore si siede nello stesso vostro scompartimento di fronte a voi e per cercare di attaccare bottone vi dice: “Fra due ore saremo a Roma. Anche lei va là per lavoro?”. Allora gli fate rilevare che il treno sta andando a Milano, nella direzione opposta e gli consigliate di scendere a Orte e prenderne un altro che si dirige a Sud. A questo punto il vostro compagno di viaggio vi risponde: “E perché? Chiederò al macchinista di rallentare!”

Immaginatevi ora quest’altra scena. Andate dal dottore per una visita di controllo. Siete ingrassati, la pappagorgia vi ha inghiottito il mento, il giro vita è raddoppiato. Il medico sta leggendo le vostre analisi: “Il suo peso è cresciuto di 15 chili, ora ha raggiunto il quintale. I trigliceridi sono triplicati, il colesterolo è esploso”. A questo punto ipotizzate che il medico vi imporrà drastiche diete e duri allenamenti per farvi tornare ad una condizione di forma e salute decenti, ma il medico esclama: “Bene! Tutto cresce è il momento di una dieta ipercalorica. I 120 kg di peso sono un traguardo raggiungibile!”

Queste che possono sembrarvi due storielle nonsense in realtà fotografano assai bene la discussione in atto da molti decenni circa i destini dello sviluppo.

Da considerazioni analoghe prende il via il “Breve trattato sulla decrescita serena” di Serge Latouche che Bollati Boringhieri ha pubblicato nel 2008 e che per la sua snellezza e compattezza fa da breviario al più corposo “La scommessa della decrescita” che Feltrinelli aveva pubblicato un anno prima. Entrambi vanno letti, ma il “Breve trattato” è più denso e significativo nella sua stringatezza, dell’altro.

Ma torniamo alle nostre storielle. Se ci capitassero fatti simili realmente daremmo dei folli all’occasionale compagno di viaggio della prima storiella ed al medico della seconda. Ma la realtà della discussione intorno allo sviluppo sembra proprio un dialogo tra folli. Capito che, per lo sfruttamento dissennato delle risorse, per l’incredibile aumento della popolazione, per i vertiginosi iperconsumi e sprechi che un modello economico ormai alla frutta vorrebbe pompare ancora solo in funzione di un’autoreferenziale sopravvivenza, non possiamo più crescere come tutti gli idolatri del progresso promettevano, appare grottesco riproporre la trita formula dello sviluppo sostenibile, che ancora tanti sostenitori raccoglie. Infatti, sembra perlomeno ragionevole, se ci siamo resi conto di aver sbagliato treno non tentare di rallentarlo, ma cambiarlo, come apparirebbe ragionevole, di fronte ad un medico che attenta alla nostra salute denunciarlo per tentato omicidio.

Tale vilipendio al buon senso permea il significato di sviluppo, inteso come un crescente benessere che non deve diminuire mai; come se crescere all’infinito fosse una benedizione.

Questo è quello che fino ad oggi ci hanno insegnato, ma una volta che abbiamo scoperto che non può esistere uno sviluppo illimitato non serve proporre un modello di “sviluppo sostenibile” (ovvero rallentare), occorre imboccare la strada della decrescita serena (invertire la direzione di marcia).

Che cosa sia la decrescita lo dice, tra gli altri, Serge Latouche, accusato da una parte della sua sponda “la Rive Gauche” di essere un reazionario passatista, che con il suo pensiero tradisce le aspettative che le menti sinistre hanno coltivato, sperando in una possibilità futuribile che invece risulta una chimera. La decrescita, ci dice l’autore, non va temuta e soprattutto non va confusa con la crescita negativa. La crescita negativa è lo spauracchio terribile che viene (anche oggi) sventolato davanti alle nostre facce, è l’arrancare della locomotiva turboproduttiva che fa arenare i consumi di noi poveri intestini metabolizzatori di tutte le scorie industriali spacciate per oggetti del desiderio, inceppando il sistema. La decrescita è un percorso lungo, una dolce planata verso uno stato stazionario sereno, in cui riducendo i nostri appetiti eterodiretti possiamo acquistare una qualità della vita superiore rispetto a quella che ci viene offerta nella nostra condizione di tubi digerenti del corpo industriale.

Come si realizza è chiarito in modo trasparente da Latouche, però sempre troppo preoccupato di puntualizzare che la decrescita non è un ritorno al comunitarismo (e se lo fosse che male ci sarebbe?), né una semplice declinazione localistica (e se lo fosse che male ci sarebbe?), né tantomeno un ritorno ad una frugalità premoderna (e se lo fosse che male ci sarebbe?). Il punto di partenza è quello di “decolonizzare” la nostra mente da un modello mortifero. Cominciare quindi da noi stessi un processo che, se non intrapreso volontariamente e con serenità, saremo costretti “ob torto collo” ad iniziare comunque. Preferite spegnere, rabbiosi, il vostro SUV nuovo perché il gasolio è schizzato alle stelle (esempio di crescita negativa), oppure avviarvi a piedi, sereni e beati in solitaria, silenziosa, oziosa meditazione (esempio di decrescita serena)? Mi direte che questo agreste ritorno alla lentezza ha un sapore rancido. Vi potrei rispondere che il mito della velocità è stato ormai fagocitato dal suo stesso demiurgo tecnologico che dopo aver prodotto auto sempre più veloci, ci ha costretto ad una sostanziale immobilità, inchiodandoci con una super produzione che, intasando tutto di automobili, ci costringe a delle file che stanno ferme. Ironia dell’eterogenesi dei fini! Che fare quindi? Continuare a immolare agnelli clonati al Dio della Tecnica?

Allora, meglio tentare la via della decrescita, unica vera possibilità tra una crescita senza limiti, in cui ormai nessuno crede più, ed una crescita negativa che tutti comunque paventano. Meglio tornare a cavalcare le correnti ascensionali con un aliante piuttosto che sostenere in volo carrozzoni alati di metallo pronti allo stallo ed allo schianto alla prima decelerazione.

Per realizzare questa “decolonizzazione” del nostro immaginario Latouche indica un percorso che è una vera rivoluzione culturale che dovrebbe portare ad una rifondazione politica.

Questo percorso ha delle tappe. Sono le “8R” che costituiscono le stazioni di questa particolare Via Crucis laica e si chiamano: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi otto obiettivi possono innescare un processo di decrescita serena e conviviale.

Rivalutare valori oggi abbandonati «l’altruismo dovrebbe prevalere sull’egoismo, la collaborazione sulla competizione sfrenata, il piacere del tempo libero e l’ethos del gioco sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il locale sul globale, l’autonomia sull’eteronomia, il gusto della bella opera sull’efficienza produttivistica, il ragionevole sul razionale, il relazionale sul materiale ecc.»

Riconcettualizzare, ovvero «ridefinire/ridimensionare i concetti di ricchezza e di povertà o il binomio rarità/abbondanza»

Ristrutturare, che «significa adeguare l’apparato produttivo e i rapporti sociali al cambiamento dei valori…»

Ridistribuire «direttamente, ridimensionando il potere e i mezzi di consumo della “classe consumatrice mondiale” e indirettamente, diminuendo lo stimolo al consumo vistoso. L’impronta ecologica (che è possibile calcolare anche per tipo di attività o di consumo) è un ottimo strumento per determinare i “diritti di prelievo” di ciascuno…»

Rilocalizzare, ovvero «produrre in massima parte a livello locale i prodotti necessari a soddisfare i bisogni della popolazione, in imprese locali finanziate dal risparmio collettivo raccolto localmente.(…) In un’ottica di costruzione di una società di decrescita serena, la rilocalizzazione non è soltanto economica. Sono anche la politica, la cultura, il senso della vita che devono ritrovare un ancoraggio territoriale…»

Ridurre, cioè «diminuire l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e di consumare. Si tratta innanzitutto di limitare il sovraconsumo e l’incredibile spreco generato dalle nostre abitudini. (…) Sono poi auspicabili altre riduzioni, da quella dei rischi sanitari a quella degli orari di lavoro.(…) Altra riduzione necessaria: quella del turismo di massa. (…) Bisogna reimparare la saggezza del passato: gustare la lentezza, apprezzare il nostro territorio. (…) Infine, ridurre il tempo di lavoro è un elemento essenziale…»

Riutilizzare/Riciclare perché «nessuna persona di buon senso contesta la necessità di ridurre lo spreco sfrenato, di combattere l’obsolescenza programmata delle attrezzature e di riciclare i rifiuti non direttamente riutilizzabili…»

Latouche quindi con lucidità ci indica obiettivo, percorso e tappe e non si può non condividere con lui tutto questo.

L’unica perplessità che mi rimane è nell’oziosa domanda: «La decrescita è di destra o di sinistra?’” a cui Latouche (nella foto sotto a destra) tenta di rispondere in un breve (per fortuna) paragrafo: Il movimento della decrescita è rivoluzionario e anticapitalistico (e anche antiutilitaristico), e il suo programma è fondamentalmente politico. Ma è di destra o di sinistra? Molti ecologisti, come Thierry Paquot, pensano che oggi la vera contrapposizione politica non è più tra destra e sinistra ma tra partigiani della preoccupazione ecologica e predatori. Indubbiamente si può sostenere che il programma che noi proponiamo, che è in primo luogo un programma di buon senso, è altrettanto poco condiviso sia a sinistra che a destra. (…) E’ vero che esiste una critica di destra della modernità, come esistono un antiutilitarismo e un anticapitalismo di destra. Dunque non c’è da meravigliarsi che un antilavorismo o un antiproduttivismo di destra avanzino i nostri stessi argomenti. Bisogna anche riconoscere che la critica radicale della modernità si è spinta più avanti a destra che a sinistra. Della critica di sinistra ci sono gli esempi egregi di Hannah Arendt e di Cornelius Castoriadis (nei quali c’è però una contaminazione con argomentazioni di pensatori controrivoluzionari come Edmund Burke, Louis de Bonald o Joseph de Maistre), ma questa tendenza è rimasta politicamente marginale. I maoismi, i trotzkismi e gli altri “ismi” di sinistra sono produttivisti quanto i comunismi ortodossi. Non bisogna comunque confondere l’antiproduttivismo di destra e l’antiproduttivismo di sinistra. E neppure l’anticapitalismo o l’antiutilitarismo delle due parti…»

Lascio la risposta alle parole di Alain De Benoist (foto sotto a sinistra), autore, nella sua sterminata produzione intellettuale, anche di “Comunità e decrescita”: «La decrescita è un’idea che oggi è sostenuta soprattutto a sinistra, ma certo non all’unanimità. (…) Il punto è che la decrescita critica il fondamento principale della modernità, ossia l’ideologia del progresso e l’ideologia del progresso è storicamente alla base del progetto politico della sinistra. Insomma la sinistra che reclama la decrescita è già qualcosa di totalmente differente dalla sua matrice politica d’origine ed è un sintomo evidente della rimessa in discussione delle vecchie etichette destra-sinistra…»

Per concludere e visto che l’autore non individua nemici in carne ed ossa, oppositori decisi di ogni modifica dell’attuale sfrenato modello consumista, ne indico uno io, tanto per farvi capire che la strada verso la decrescita è davvero tutta in salita: George W. Bush che arrogantemente ha dichiarato «Il livello di benessere degli Americani non può essere oggetto di trattativa…»

A noi non resta da vecchi e decadenti figli d’Europa ritrovare la gioia dei gesti inutili ma belli.

Per riscoprire non il “Quanto costa! ” ma il “Quanto vale! ” delle cose, tenendo nella mente come stella polare ciò che ebbe a dire Oscar Wilde «l’arte è inutile e dunque essenziale!»

Mario “vox clamans in deserto” Grossi