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La nostra è un'economia a-morale

di Paolo Cacciari - 09/09/2008

 
Considerazioni di un non-economista sull'economia


Siamo entrati in una nuova recessione economica. Per salvare profitti e rendite i manovratori della finanza stanno mettendo in atto tutte le sofisticate misure atte a tagliare e precarizzare l'occupazione, a indebolire i salari con l'inflazione, a eliminare i servizi pubblici. I lavoratori di tutto il pianeta vengono messi con le spalle al muro: o lavori di più per meno o ti sostituisco con qualcuno che sta peggio di te. Il ragionamento è molto stringente e si ripete ciclicamente: la speranza di mantenere il tuo livello di benessere (consumi) è legata alla possibilità di aumentare i margini di accumulazione dei capitali, cioè le produzioni industriali. Alla fine di ogni giro di giostra il potere contrattuale dei lavoratori salariati diminuisce e i ristretti margini di guadagno del sistema vano a pochi privilegiati ceti sociali. Aumentano i milionari e si allarga la base del lavoro mal retribuito, sporco, persino schiavo. Il sistema di mercato capitalistico è obbligato a crescere sempre, ad accumulare surplus e capitali, non contempla la stazionatrietà, per lui "più grande è sempre meglio" (bigger is better). Solo in questa traiettoria può promettere di ridistribuire qualcosa, di compensare qualche ingiustizia, di pagare qualche debito ecologico.

A me pare che continuare ad affidare la speranza di riscatto dei giovani e delle donne in cerca di occupazione, dei lavoratori impoveriti, dei migranti e di quanti altri voglio migliorare la propria condizione sociale alla ripresa dell'economia di mercato è come credere che un impiccato possa salvarsi arrampicandosi sulla corda. Non vedere che la "crescita infinita" è la causa dei nostri mali, non la via della salvezza. Tutto ci dice, infatti, che non sono le produzioni a difettare. Un quarto delle popolazioni del pianeta è letteralmente sommerso di merci (e di rifiuti) e il mercato offre (a pagamento) beni e servizi per tutte le nostre più sfiziose esigenze. Siamo più felici, più sicuri, più belli d'animo e di corpo?

Ho letto che, in media, più della metà dei costi sostenuti dalle imprese va al marketing. Ormai costa di più vendere (trovare compratori, inventare bisogni, creare sempre nuove dipendenze consumistiche), che non produrre merci. Con metà dei soldi che spendiamo per comprare le nostre cose paghiamo i nostri aguzzini: le televisioni, i pubblicitari, tutte le intermediazioni parassitarie che si frappongono tra consumatori e produttori. L'economia di mercato (market system) è indifferente all'utilità delle cose: un chilo di farina per un affamato o una confezione di stoviglie usa e getta hanno lo stesso valore. Quindi la nostra è un'economia a-morale. E' una storia vecchia e paradossale: il mercato non si rivolge a chi non ha il necessario per il proprio sostentamento (basic needs, avrebbe detto Keynes) ma a chi dispone di denaro da spendere. Una spirale perversa che aggrava squilibri, ingiustizie sociali e crisi ambientali. La "mano invisibile", il dogma della razionalità economica che regola automaticamente domanda e offerta secondo la convenienza di tutti e di ciascuno, non ha mai funzionato e ci sta conducendo a nuovi drammatici fallimenti. Valga un famoso aforisma di Kenneth Bouilging: "Chi crede che la crescita esponenziale possa continuare all'infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista [liberista ndr]". Basti pensare alle guerre in corso per l'accaparramento delle risorse naturali. Non solo petrolio e gas, ma minerali, fosfati, patrimonio genetico… sono oggetto di una nuova partita geopolitica coloniale per stabilire gerarchie e divisioni internazionali del lavoro e del potere.

Rompere questo sistema, uscire dagli automatismi della megamacchina termoindustriale (come la chiama Serge Latouche), sottrarsi alla logica del mercato diventa questione urgente e dirimente per le classi subalterne. Serve mettere in campo un'idea di altra economia, ecologica oltre che sociale. Con altri indicatori di benessere, fuori dal Pil, capaci di calcolare il "profilo metabolico" (flussi di materia e di energia ) impegnati nei processi produttivi e i "profili sociali" (indici di sviluppo umano individuale) dello sforzo produttivo. Un'economia che tenga presente i cicli di vita (life-cycle) non solo dei prodotti, ma anche delle persone. Un'economia - per dirla con Juan Martinez Alier - che superi l'idea di una produzione crematistica, dove tutto viene ridotto a numerario monetario: un prezzo ad ogni fattore produttivo, natura e individui della specie umana compresi. Ritrovare la radice ("oikos": casa come spazio vitale) comune ad economia ed ecologia. Reintrodurre un'"idea etica" nella politica economica, per cui il valore dei beni e dei servizi non è ridotto al loro valore di scambio, ma tiene conto anche delle condizioni in cui vengono prodotti e della loro effettiva utilità sociale. Ma, poiché ogni visione politica acquista un senso solo se si incarna nella vita delle persone, è necessario passare attraverso conflitti e sperimentazioni. Servono "scintille emotive" (Barcellona), "lampi di autodeterminazione" (John Holloway), "buone pratiche" (come quelle analizzate nei seminari di Sbilanciamoci!) sempre più numerose e significative che evocano narrazioni e modelli di società alternativi: "comunità scelte" dove desideri e bisogni, wants and needs, vengono padroneggiati e soddisfatti fuori dalle logiche dell'interesse dell'impresa capitalistica. Ma qui si apre un capitolo enorme e affascinante che riguarda il mutualismo e la cooperazione sociale fiduciaria, l'equità e la reciprocità, la condivisione e la fruizione dei beni comuni, l'autonomia e l'accettazione del senso del limite, e soprattutto una idea di liberazione del lavoro attraverso non solo il conflitto redistributivo, ma la contestazione e negoziazione del "come", del "cosa" e del "per chi" produrre.