Cinque europei su cento non mangiano quasi nulla, oppure troppo. Sono sempre più numerose le persone che non riescono ad alimentare correttamente il proprio corpo, fino a mettere in pericolo prima la salute, poi la stessa sopravvivenza.
All’origine di queste difficoltà non ci sono più problemi economici (come ancora all’inizio del secolo scorso) ma psichici. Le persone possono comprarsi anche molto cibo, ma poi preferiscono buttarlo via che mangiarlo, vomitarlo, piuttosto che digerirlo.
Come se uscire dalla minaccia della fame, possibilità sempre incombente fino a poco più di cinquant’anni fa, avesse portato con sé la perdita della spinta a nutrirsi. Che invece di essere un fatto naturale, istintivo, come nel bambino appena nato, diventa (assieme a tanti altri comportamenti una volta «automatici»), una possibilità tra altre, come quella di non alimentarsi affatto. Una scelta che per essere compiuta richiede elementi che apparentemente non c’entrano affatto con il cibo, come assenza di traumi infantili e famiglie ben funzionanti.

La presenza di problemi affettivi in chi ha disturbi alimentari fa concludere che questi dipendono da quelli. Davvero la pancia non manda la fame, o ne manda una abnorme, accompagnata da schifo, perché il cuore (e la mente) soffre? Nei nostri malati è certamente (anche) così. Come spiegare però il fatto che i ragazzini cresciuti in mezzo a traumi affettivi ben più drammatici, nei ghetti del mondo intero, si lanciano con fame feroce su qualsiasi oggetto vagamente commestibile capiti loro sotto i denti? È sufficiente la galassia tuttora indefinita chiamata psiche a spiegare un disagio, quello che si esprime con i disturbi alimentari, che si presenta anche, innanzitutto, come «malattia della ricchezza»? Nella quale forse, oltre alle sofferenze affettive, come la madre possessiva o il padre autoritario (che certo c’entrano), conta di più il sospetto che gli altri (a cominciare dai genitori), abbiano dimenticato il perché lavorano, faticano, guadagnano e accumulano denaro. Come se gli anoressici rivolgessero a sé e agli altri questo silenzioso rimprovero: «Perché lavorare tanto se il “sudore della fronte” (come nel racconto biblico) deve servire a procurarsi il pane? Una volta che quello c’è, perché angustiarsi ancora?».
Smettere di alimentarsi è un modo - certo, in gran parte inconscio - di interrogarsi su questa questione. Non perché gli anoressici siano pigri: anzi, sono per solito lavoratori infaticabili. Ma appunto, lavorando, e non cibandosi, rendono evidente, a sé e agli altri, che dunque non può essere solo per mangiare che si lavora, si smania dietro alle carriere, ci si logora la vita. E allora perché lo si fa? La risposta delle culture tradizionali (per molti certamente un po’ ipocrita, ma non del tutto falsa) era: perché è nostro dovere, verso noi stessi, verso gli altri esseri umani, e verso Dio. Oggi, non solo per i non credenti, rispondere in questo modo è diventato impossibile. Solo delle minoranze (anche se significative) credono che l’affermazione di sé sia un dovere sociale, come credettero gli stoici, gli uomini del Rinascimento, i grandi riformatori.
Allora però, visto che la fame non c’è più, perché darsi tutto questo daffare? Perché, addirittura, continuare a cibarsi? La protesta degli anoressici è dadaista, paradossale, profonda. Se la vita è davvero solo immagine, rendiamola sempre più trasparente, invisibile, inafferrabile, per non rimanerne prigionieri. Si alimenta un corpo pieno di passioni, obiettivi, certezze, non un’immagine vuota. Da quella, si preferisce fuggire.