La sofferenza è una parte essenziale della vita o qualcosa che bisogna puntare a eliminare?
di Francesco Lamendola - 10/09/2008
Fine agosto 1914, fronte orientale in Polonia: Russi ed Austro-Ungheresi si affrontano nella battaglia di Krasnik, il primo fatto d'armi, in Europa, dopo quasi mezzo secolo di pace; e la verde campagna collinosa, ombreggiata dalle larghe chiome dei tigli, si tinge copiosamente del sangue di tanti giovani, che erano partiti per la guerra pieni di speranze (cfr. il nostro saggio Le battaglie di Leopoli nell'agosto-settembre 1914, sul sito di Arianna Editrice).
Treni carichi di morti, di feriti e mutilati tornano indietro, fermandosi mestamente alle stazioni che già presentano un aspetto assai diverso da quello di poche settimane prima: non più ragazze che sorridono ai partenti e gettano mazzi di fiori verso le carrozze, né bande musicali e folle festose, ma gruppi sgomenti, ammutoliti di parenti, che si muovono quasi con terrore fra le barelle deposte lungo i binari dagli infermieri, in attesa del fatale riconoscimento. E, intanto, centinaia, migliaia di telegrammi informano altrettante famiglie che il loro congiunto è caduto sul campo, servendo eroicamente la patria.
Cracovia, capoluogo della provincia austriaca della Galizia Occidentale, è nelle retrovie del fronte, e cominciano ad arrivarvi i convogli che portano i resti fracassati delle divisioni imperialregie gettate incessantemente nella fornace della battaglia (che sarà una vittoria austriaca, ma una vittoria di Pirro; perché, aggirate sull'ala destra, le armate di Conrad von Hötzendorf avrebbero dovuto, di lì a poco, gettare la spugna e ritirarsi in tutta fretta sino alle pendici dei Carpazi, lasciando qualcosa come 300.000 caduti e prigionieri nelle mani del nemico).
A Cracovia, in quei giorni di fine agosto, ci sono anche due personaggi d'eccezione, testimoni di quel terribile spettacolo; uno spettacolo simile a quello che indurrà, tra pochi giorni, un grande poeta costretto a indossare l'uniforme, Georg Trakl, a togliersi la vita, per non dover più assistere a simili orrori (cfr. F. Lamendola, All'ombra del frassino autunnale sospirano, con quella di Georg Trakl, le anime degli uccisi, sempre sul sito di Arianna). Sono due oscuri esuli russi - tecnicamente, quindi, dei nemici - che tra poco andranno a seppellirsi nella neutrale Svizzera, e lì rimarranno fino all'aprile del 1917, quando otterranno di rientrare in patria per mezzo del famoso «vagone piombato» offerto dall'alto comando germanico: Vladimir Ilic Ulianov, detto Lenin, e sua moglie, Nadia Krupskaja.
Ma che cosa ne pensava, i due coniugi rivoluzionari, di quel tremendo spettacolo di una umanità ridotta a brandelli dalla furia selvaggia della guerra più distruttiva che il mondo avesse, fino ad allora, conosciuto?
Ha scritto il saggista e critico americano Edmund Wilson nel suo libro Stazione Finlandia (titolo originale: To the Finland Station, prima edizione 1940; traduzione italiana di Alberto Tedeschi, Rizzoli Editore, 1974, p. 302):
Lui [cioè Lenin] e la Krupskaja erano stati a Cracovia nell'agosto del 1914 e avevano assistito dalla loro finestra al trasporto dei caduti e dei feriti nella battaglia di Krasnik. Avevano visto le moglie e i parenti dei caduti e dei moribondi rincorrere le barelle, timorosi di riconoscere coloro che cercavano. Troverete ben pochi sentimenti umanitari espressi negli scritti di Lenin. Uno dei più strani e dei più caratteristici episodi di tutta la sua straordinaria carriera si verificò al tempo del suo funerale, quando la Krupskaja cominciò un breve discorso come segue: «Compagni, nel corso di queste giornate durante le quali sono rimasta accanto alla bara di Vladimir Ilic, sono riandata col pensiero a tutta la sua esistenza, ed ecco ciò che voglio dirvi: egli amava profondamente tutti i lavoratori, tutti gli oppressi. Non l'ha mai detto esplicitamente, come non l'ho mai detto io. Forse non mi sarei mai decisa a parlarne in un momento meno solenne». Lenin non aveva mai espresso i propri sentimenti in proposito, eppure soltanto ora siamo colpiti da questo particolare. Nei suoi discorsi e nei suoi scritti non ha fatto che levare grida di sdegno e insistere sulla necessità di un'azione: è partito dal concetto che le crudeltà del regime zarista, i malanni del sistema industriale, i massacri della grande guerra non richiedessero sforzi di eloquenza per convincere il popolo che non si doveva continuare su quella strada. Egli è il più virile di tutti i riformatori, poiché non piange mai. «In Russia, nel paese dove si predica l'inevitabilità della sofferenza come la strada verso la salvezza, non è mai accaduto di incontrare un uomo che più profondamente e fortemente di Lenin detestasse, disprezzasse ogni infelicità, ogni dolore, ogni sofferenza… Egli era particolarmente grande, ai miei occhi, proprio per questa sua ardente persuasione che il soffrire fosse una parte non essenziale e inevitabile dell'esistenza, bensì una calamità dalla quale il popolo poteva e doveva liberarsi».
Proprio questa sua concezione lo inaspriva ora e doveva condurlo più tardi, in piena guerra civle, ad accettare la rigorosità della nuova macchina che doveva governare la Russia. Trotskij ci dice come Lenin fosse titubante, nei primi giorni della Rivoluzione, di fronte a un ordine militare secondo cui i saccheggiatori dovevano essere passati per le armi sul posto.; era la prima applicazione della pena di morte da parte dei bolscevichi., Ma più tardi, quando qualche emissario dell'Ovest chiedeva ragguagli riguardo alle esecuzioni politiche, Lenin ribatteva: «Chi lo vuole sapere? Forse gli uomini di Stato che hanno mandato a morte sedici milioni di uomini?». Un giorno lui e Gorkij si trovavano in campagna e, dopo aver parlato con alcuni bambini sovietici, Lenin disse: «Questi bambini avranno una vita più felice della nostra. Molte cose che abbiamo dovuto sopportare, essi non le conosceranno mai. Non vi sarà tanta crudeltà nella loro esistenza».
Sarebbe fin troppo facile, con il senno del poi, osservare sarcasticamente che proprio quei bambini, grazie al sistema politico avviato da Lenin e consolidato da Stalin, hanno sperimentato, nella loro vita di adulti, un grado di crudeltà quale nemmeno nelle fasi più crudeli del dispotismo zarista qualcuno, in Russia, avrebbe osato immaginare.
Ma lasciamo perdere questo tipo di obiezioni, che hanno il difetto di richiamarsi alla realtà storica a posteriori e di non fondarsi, pertanto, su delle verità di principio, ma su delle semplici verità di fatto, mutevoli e imprevedibili.
No: la grande obiezione che si può - e, secondo noi, si deve muovere - a una concezione come quella di Lenin, il quale disprezzava e detestava «ogni infelicità, ogni dolore, ogni sofferenza» ed era ardentemente persuaso «che il soffrire fosse una parte non essenziale e inevitabile dell'esistenza, bensì una calamità dalla quale il popolo poteva e doveva liberarsi», non può che essere di principio, e non di fatto: filosofica, e non storica.
La sofferenza è ineliminabile dalla condizione umana, perché la condizione umana è imperfetta; e non è imperfetta soltanto per ragioni storiche, alle quali - almeno teoricamente - si potrebbe ovviare; ma lo è per il suo statuto ontologico. Gli esseri umani, creature limitate e fallibili, sono soggette sia alla sofferenza che deriva loro dalla propria condizione fisica (malattie, offese degli agenti naturali, morte), sia a quella derivante dalla loro incapacità di individuare la strada del vero bene, e di attenervisi coerentemente.
La tecnica e la politica, nell'epoca della modernità e nell'ambito della cultura occidentale (non prima e non altrove), hanno preteso, rispettivamente, di distruggere entrambi questi generi di sofferenza: quella causata dalla natura, mediante la medicina, le costruzioni antisismiche, le previsioni meteorologiche, e così via; e quella causata dalla storia, mediante l'abbattimento dei sistemi politico-sociali considerati regressivi e malvagi, e l'instaurazione, al loro posto, di nuovi sistemi, ispirati al bene e al progresso.
Illusioni funeste, l'una e l'altra; benché non vi sia nulla di sbagliato nel cercare di porre dei limiti alla sofferenza e nel lottare per ridurre e circoscriverne l'ambito quanto più possibile. Ma è assurdo e pericoloso pretendere di rimuoverla interamente, perché significa misconoscere la reale natura della condizione umana.
L'uomo non è un puro spirito, ma possiede anche un corpo (per quanto illusorio, a nostro credere), soggetto alle offese, alle malattie e all'invecchiamento; e non è neppure un angelo, portato istintivamente a realizzare il bene, ma un essere dotato di libero arbitrio e capace di scegliere, deliberatamente, anche il male. Se la storia umana ha qualcosa da insegnarci, questo è ciò che essa ci mostra, dagli albori dell'umanità fino ad oggi.
Lottare contro la sofferenza, perciò, indossando il camice del medico oppure i panni dell'ardente rivoluzionario, non è affatto cosa sbagliata (benché abbiamo assistito a molti danni provocati da una medicina senza coscienza e ad autentici orrori prodotti da una politica che pretendeva di rifare la società tutta daccapo); quello che è sbagliato, è farlo con la fanatica convinzione di potere e di dovere sradicare dal mondo fin l'ultima traccia di sofferenza.
Ed è sbagliato perché chi pensa così, finisce per credersi Dio e per assumere una linea di condotta che, pur essendo alimentata - almeno in origine - da nobili ideali, scivola poi gradualmente nel delirio di onnipotenza, e agisce verso gli esseri umani come se fossero delle entità trascurabili. E, quando si vede negli esseri umani delle entità trascurabili, presto o tardi si è anche disposti a sacrificarli in nome di quel bene astratto che si vorrebbe donare loro, instaurandolo ai quattro angoli del globo.
Ironia della storia, coloro che hanno prodotto i mali più grandi all'umanità sono stati, spesso, proprio quelli che si erano gettatiti a lancia in resta, come nobili guerrieri medievali, nella crociata contro il Male, decisi a inaugurare - abbattendo qualunque ostacolo sul loro cammino - l'era felice del Bene perenne, la nuova Età dell'Oro.
Non solo i rivoluzionari sono caduti in questo tranello - e sia Lenin che Trotskij ne sono degli ottimi esempi, se non altro per il disinteresse che li ha caratterizzati (né l'uno né l'altro, a differenza di Stalin, amavano il potere in quanto tale, anche se certo amavano avere un pubblico). Anche i conservatori possono incapparvi, e un esempio eloquente è quello dei neoconservatori statunitensi, di cui la dinastia Bush è una tipica espressione. (cfr., a questo proposito, il nostro articolo da Hitler a Bush, ovvero come si passa dal Terzo al Quarto Reich, consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Così come uno dei loro teorici, Francis Fukuyama, ha teorizzato che, con la conclusione della guerra fredda, è sopraggiunta la «fine della storia», essi sono convinti che tutto il mondo debba inchinarsi alla democrazia e al libero mercato; e che, per riuscirvi, sia lecito esportare questi beni preziosi anche scatenando la guerra contro chiunque osi opporvisi. Anch'essi, pur usando un diverso linguaggio, vogliono fondare, evidentemente, «l'uomo nuovo», così come i bolscevichi nell'Ottobre del 1917; anch'essi nutrono un progetto totalitario di salvezza del genere umano e di rigenerazione del mondo, quasi un nuovo tipo di religiosità immanente.
Anche la democrazia, infatti, può essere totalitaria: ma, di questo, solo gli osservatori in mala fede possono meravigliarsi.
Non ce lo aveva già insegnato, ad abuntaniam, la storia dell'antica Grecia, con l'Atene di Pericle e la guerra del Peloponneso? Ce lo ha narrato Tucidide (e, in parte, Senofonte) ventiquattro secoli prima delle teorie di Fukuyama; e Tucidide - questo, almeno, ci sia concesso dirlo - era una mente un poco più fina di Fukuyama.
Da tutto quanto abbiamo detto fino a qui, consegue che il fatto religioso dovrebbe essere guardato in una luce diversa da quella cui la modernità - il liberalismo non meno del marxismo - ci ha abituati a fare.
Le religioni, non che avere «inventato» la teoria della ineliminabilità della sofferenza dalla vita umana, al sordido fine di instaurare lo sfruttamento del clero su una massa ignorante e suggestionabile, sono nate dal sentimento originario di tale ineliminabilità, cui gli uomini hanno cercato una risposta nell'aspirazione alla trascendenza.
Che, poi, in determinate circostanze storiche, i vari cleri abbiano finito per svolgere anche la funzione parassitaria di cui sopra, non dovrebbe far velo a una verità più profonda; e cioè che gli esseri umani - lo testimoniano le sepolture dei nostri progenitori di molte migliaia d'anni fa, nonché tutto quel che sappiamo delle religioni dei popoli nativi - hanno sempre cercato nella trascendenza una risposta ai loro angosciosi interrogativi circa la propria finitezza e imperfezione, e circa la presenza inestirpabile del dolore dalla vita, tanto de singoli individui, quanto della società nel suo insieme.
C'è, poi, un ulteriore livello di ragionamento, al quale non vogliamo sottrarci, anche se ci limiteremo - per ora - ad accennarvi solamente, dato che richiederebbe, esso solo, una trattazione tale da occupare volumi e volumi.
Ci riferiamo a questo: la sofferenza non è costitutiva della condizione umana solamente in senso ontologico; essa lo è anche in senso etico.
Una simile affermazione - che, non ne dubitiamo, avrebbe indignato Lenin, così come indignerà certamente tutti coloro che sentono e pensano come lui - non nasce da pavido fatalismo o, peggio, da un patologico impulso di tipo masochista. Nasce, al contrario, dalla constatazione che la sofferenza, ed essa soltanto, è lo stimolo che spinge gli esseri umani a perfezionarsi, a trascendersi, a cercare il bene per sé stessi e per i propri simili.
Se non vi fosse il male, se non vi fosse la sofferenza, verrebbe a mancare il fattore principale dell'evoluzione spirituale e il più forte elemento del progresso morale. Possiamo, forse, deprecare che l'essere umano abbia «bisogno» di coltivare una così gravosa forma di sollecitazione per mettersi, con tutte le sue forze, verso la strade del buono, del vero e del bello. Ma è così, perché infiniti fatti della storia stanno a indicarlo; e coi fatti non si discute.
Del resto, prima di lamentarci di questa nostra condizione, dovremmo riflettere che solo grazie alla notte noi siamo in grado di apprezzare il giorno; solo grazie al freddo, il calore; e, ugualmente, solo grazie alla sofferenza, le cose buone che la vita ci offre, insieme all'occasione di divenire un po' migliori.
Solo chi ha vissuto, da bambino, il terrore dei bombardamenti aerei ha potuto, poi, apprezzare pienamente la gioia di mettersi a letto a letto col pigiama, senza il pensiero angoscioso che le sirene si sarebbero messe a suonare nel cuore della notte, costringendo tutti a precipitarsi - insonnoliti e infreddoliti - verso i rifugi antiaerei; e senza sapere se, cessato l'allarme, avrebbero trovato ancora in piedi la propria casa.
Solo chi ha sperimentato una lunga e dolorosa malattia, che lo abbia ridotto all'immobilità per giorni, settimane o mesi, ha imparato poi a godere, una volta guarito, del semplice piacere di potersi reggere in piedi, di camminare, di uscire e di fare una passeggiata, o magari di recarsi dal fornaio ad acquistare il pane fresco.
Ovunque volgiamo lo sguardo, sempre osserviamo lo stesso spettacolo: che il dolore è maestro di vita, più di qualunque altra cosa al mondo.
Anche un solo giorno di sofferenza autentica, non cercata e tuttavia affrontata virilmente, può insegnarci più cose di quante non potrebbe farlo una intera biblioteca.
Onestamente, c'è qualcuno che pensa di poterlo negare?