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Storia dei samurai e del bujutsu

di Roberto Beretta - 10/09/2008

I samurai come fenomeno storico e protagonisti della società e della politica giapponese dall’VIII fino al XIX secolo sono analizzati da Roberto Beretta alla luce del libro Storia dei samurai e del Bujutsu di Roberto Granati.
I samurai vennero istituiti da un decreto imperiale del 792 che aboliva la leva militare e affidava la difesa dei confini a milizie armate dai proprietari terrieri e quindi da loro dipendenti. Granata traccia quindi un’analogia con l’affermazione della cavalleria medievale e con il sistema vassallatico-beneficiario diffuso negli stessi secoli in Occidente. Ma a differenza di quanto avvenne in Europa, i samurai a partire dal XII secolo assunsero il potere centrale governando per diversi secoli il Giappone. Nel libro, sottolinea Beretta, si ridimensiona il fenomeno dei samurai cattolici, diffusi nel XVI e XVII secolo, mettendo in evidenza l’opportunismo alla base delle conversioni al cristianesimo.


Cominciamo a sfatare una leggenda: che il samurai dovesse necessariamente fare harakiri, ovvero sbudellarsi seduta stante con l’inseparabile katana (la caratteristica spada ricurva) per salvare l’onore allorché fosse stato sconfitto. Non è vero, o almeno non è detto: infatti era ammessa anche la ritirata strategica, in vista di una possibile rivincita. E, già che ci siamo, abbattiamo pure un altro dogma pseudo-nipponico: ovvero che la leggendaria lealtà e purezza dei guerrieri del Sol Levante si spingesse fino ad escludere in battaglia ogni tipo di astuzia. Falso, anzi i più famosi dei samurai sono tuttora celebri per i trucchetti e addirittura le furbate messe in atto per ottenere la vittoria: dalle finte palizzate di bambù che crollavano sugli avversari all’arrivare sistematicamente in ritardo ai duelli, in modo da spazientire la controparte; dai travestimenti alle dissimulazioni. [...] E una fedeltà assoluta al signore, fino a morire per lui, non impediva – prima di scegliere da che parte schierarsi – il calcolo politico più spregiudicato. I mitici guerrieri giapponesi escono forse un poco ridimensionati dalla dettagliatissima storia tracciata dal giovane esperto veronese Roberto Granati; però alla fine ne capiamo senz’altro di più sulle vicende di una categoria spesso sfuocata dalle nebbie della sua stessa aura eroica – e più in generale sulla cultura giapponese. Granati d’altronde ci tiene a rettificare alcuni dei luoghi comuni correnti sul bujutsu, le arti del guerriero che costituiscono il codice (non sempre scritto) del samurai. È vero che i signori della guerra giapponesi combattevano con due spade, una più corta e una più lunga? Sì, ma non solo; usavano anche speciali lance (soprattutto i monaci-guerrieri) e gli archi (anzi, questa sarebbe la loro arma più antica). Corrisponde a verità che onorassero i nemici sconfitti? Certo, però non esitavano un minuto a decapitarli perché non potessero più nuocere [...] ovvero – in caso di particolare clemenza – permettevano che si dessero la morte da soli con il seppuku o harakiri.
È vero che difendevano i deboli? Naturalmente, tuttavia non pochi di loro avevano precedenti da razziatori o bravi di strada... Insomma, un ritratto in bianco e nero – anzi bianco e rosso, che in Giappone sono i colori antagonisti per eccellenza, ripresi appunto dagli stendardi di due celebri casate samurai nemiche. Nati dal decreto imperiale che nel 792 aboliva la leva per affidare la difesa dei confini alle milizie dei proprietari locali, abbastanza ricchi per provvedersi dell’equipaggiamento da guerra e per armare come fanti i loro contadini, obiettivamente questi signori della guerra mostrano impressionanti analogie con i contemporanei colleghi occidentali: i cavalieri medievali. Ambedue infatti avevano un forte legame con la terra (il feudo) oltre che col loro signore (il vassallaggio: samurai deriva dal verbo che significa servire); ambedue coltivavano la disciplina secondo un codice appunto cavalleresco [...]; ambedue conoscevano la figura del cavaliere errante senza padrone (tra i samurai prendeva il nome di ronin); e così via. Cavalieri e samurai – così Granati spiega la somiglianza – furono semplicemente il risultato naturale dell’evoluzione di una figura, quella del guerriero altamente specializzato, inserite in un contesto socio-culturale simile, anche se non identico. I secondi però, intorno al XII secolo, finirono per soppiantare nel potere la debole nobiltà di corte e dare origine a 6 secoli di governo dei samurai. Nei quali ci fu spazio anche per la parentesi dei samurai cattolici tra Cinque e Seicento. Anche qui, però, Granati ridimensiona il fenomeno: a suo parere, molte conversioni di feudatari e samurai furono dovute a opportunismo, almeno all’inizio, in quanto facilitavano i commerci con l’Occidente e – suo tramite – con la Cina. Ciò nonostante, un’ambasceria di 4 ronin cattolici raggiunse davvero il Papa nel 1582 e – per qualche decennio dopo l’espulsione dei missionari nel 1614 – numerosi samurai subirono il martirio per aver rifiutato di camminare sopra le immagini di Gesù e della Madonna, mentre altri 20 o 30 mila furono massacrati durante la celebre rivolta nel 1637 (ma anche qui le motivazioni religiose si mescolavano a quelle economico- sociali). [...] I samurai durarono ancora un quarto di millennio, finché una legge vietò di portare la spada a chiunque non appartenesse all’esercito ufficiale. Saigo Takamori, l’ultimo samurai che aveva rimesso sul trono l’imperatore e spostato la capitale da Kyoto a Tokyo, commise sappuku nel 1877: aveva rifiutato la smobilitazione della sua categoria, ma era stato sconfitto dai suoi medesimi antichi compagni.

Roberto Granati, Storia dei samurai e del bujutsu, Robin Edizioni 2008, pp. 310, € 15.