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La bellezza è una scala: ma sale verso il Paradiso o porta giù, verso l'Inferno?

di Francesco Lamendola - 12/09/2008

Da Platone in poi, grazie alla ossessione greca per il kalos, per il bello, noi siamo abituati ad associare l'idea del bello a quella del buono, tanto è vero che abbiamo duplicato il concetto del bello in una bellezza sensibile e in un a bellezza morale; che è, poi, nient'altro che la bontà.

Di conseguenza, siamo propensi ad aspettarci che una persona fisicamente bella sia anche dotata di preclare virtù morali, mentre - d'istinto - siamo indotti a dubitare del contrario: che, cioè, una persona fisicamente brutta sia anche bella moralmente. Complice Omero e le reminiscenze scolastiche dell'episodio di Tersite (Iliade, canto II, v. 212 sgg.), non ci meravigliamo affatto di vedere associate la bruttezza fisica e quella morale; mentre ci piace immaginare che la bellezza morale e quella fisica vadano sempre, o quasi, di pari passo.

Tutto questo, naturalmente, è una sciocchezza; ma è una di quelle sciocchezze che si attaccano alla mente come fanno le ventose della piovra, ed è - poi - una bella fatica liberarsene; senza contare che da certi pregiudizi ci si può bensì emancipare con uno sforzo dell'intelligenza, ma qualcosa - una specie di fondo umido e appiccicoso - rimane comunque attaccato in qualche angolo del nostro essere più riposto. E il nostro occhio non resterà mai perfettamente limpido; qualche cosa continuerà a far velo allo sguardo, nostro malgrado.

Del resto, quando si parla della bellezza, il pensiero corre subito alla bellezza del corpo; il che complica notevolmente le cose, per quel sottinteso di sensualità ed erotismo che la bellezza corporea reca inseparabilmente con sé. La bellezza del paesaggio, la bellezza delle cose, la bellezza di un felino che scivola sinuoso nella fitta vegetazione o quella, algida e struggente, di un limpido  cielo stellato, sembrano quasi forme secondarie del fenomeno «bellezza»; così come l'amore di un padre per i figli o di un individuo per i suoi ideali, sembrano quasi forme secondarie del fenomeno «amore»; che è visto, fondamentalmente, come l'amore sessuale.

Francesca da Polenta, nell'immortale V canto dell'Inferno dantesco, continua a pensare con rimpianto al proprio bel corpo che le fu strappato con la morte, e che aveva fatto innamorare di lei il cognato Paolo Malatesta:

 

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende

prese costui de la bella persona

che mi fu tolta; e il modo ancor m'offende.

 

Persino dopo morta, persino all'Inferno, Francesca rimpiange la propria bellezza fisica, strumento di seduzione (sia pure involontaria) del giovane parente e causa indiretta della sua tragica morte e della stessa dannazione eterna.

Tale è la potenza di suggestione che esercita la bellezza, non solo su chi la ammira nell'altro, ma anche su chi la ammira in se stesso, se ne compiace e ne rimane, in certo qual modo, soggiogato: soggiogato dalle potenzialità che offre l'avvenenza del proprio corpo!

E che altro significa il pianto dirotto, liberatorio, di una neo eletta reginetta di bellezza, in uno degli innumerevoli concorsi femminili? Non è solo la gioia di aver vinto, superando tutte le agguerrite concorrenti; è anche il sentimento inebriante, sconvolgente, di vedersi riconosciuto il possesso di uno strumento di potere dalle potenzialità quasi illimitate: perché la bellezza conferisce un potere sugli altri; e, nel caso del corpo, di un potere tanto più imperioso, quanto più si ricollega all'istinto sessuale.

Eppure, siamo sicuri che la bellezza del corpo sia solo quella che invita alla seduzione erotica? Il corpo non possiede forse un'altra forma di bellezza, che è intrecciata indissolubilmente a quella dell'anima, e che forma con essa un tutto unico di straordinaria intensità?

Prendiamo il caso di un'opera d'arte come La Pietà di Giovanni Bellini, ora conservata presso la Piancoteca di Brera. Si osservi, in modo particolare, il dettaglio dei due volti, vicinissimi, della Madre e del divino Figlio: quel muto colloquio tra lei, viva, e Lui, morto; quelle labbra che sembrano voler soffiare un estremo alito di vita, da un corpo all'altro; lo sguardo straziato, gli occhi di lei che paiono cercare una estrema scintilla di luce in quelli, chiusi, di Lui. Una scena di una bellezza inesprimibile, sublime.

Bella, la morte? Eppure sì; a determinate condizioni, anche lo spettacolo della morte può essere bello (e non nel senso sadico e necrofilo che potrebbe piacere al «divino marchese»). Chi ne ha fatta l'esperienza, crediamo possa assentire: vi è una maestà nella morte, specialmente quando essa sopraggiunge senza sofferenza, che distende, trasfigura e nobilita i lineamenti della persona defunta. È come se il suo volto manifestasse il conseguimento di una pace perfetta, totale, che invano cercano i viventi nel loro affannoso peregrinare.

E la sofferenza, può essere bella anch'essa? Ancora una volta, sì: come è bello, infinitamente bello, il volto della Madonna nella Pietà del Bellini. Certo, si tratta di un altro tipo di bellezza rispetto a un volto felice e giovanile, che sorride alla vita con l'incanto di mille promesse; come lo è quello di Simonetta Vespucci, la misteriosa ispiratrice di capolavori assoluti quali La Primavera e La nascita di Venere di Sandro Botticelli. Pure, la nobiltà del dolore che si esprime attraverso il volto segnato della Madonna, china sul Figlio deposto esanime dalla croce, non la cede in nulla a quell'altra beltà, tutta grazia e serena armonia, che leggiamo sul sorriso enigmatico di Simonetta, o su quello della Gioconda di Leonardo da Vinci.

Ad ogni modo, non oseremmo dire che la differenza fra i due «generi» di bellezza dipenda dal soggetto: angosciato l'uno, sereno l'altro; e nemmeno, per quanto possa sembrare strano, dal fatto che la morte separi la bellezza del volto di Cristo dalla bellezza del volto di sua Madre, o di altro soggetto vivente.

Parafrasando una celebre frase del grande poeta africano Leopold Sédar-Senghor, potremmo dire che nel mondo della bellezza non esistono confini invalicabili e definitivi, nemmeno tra la vita e la morte.

Piuttosto, ci sembra che la vera differenza sia quella tra la bellezza da cui traspare la luce dell'anima (e, in questo senso, anche il Cristo morto della Pietà di Bellini sembra solo addormentato) e la bellezza senz'anima, fatta di soli corpi. Per quanto voluttuosa possa essere quella della seconda categoria, non riuscirà mai a commuoverci nel profondo; potrà turbare, tutt'al più, i nostri sensi. Anche nel caso dell'arte, come nella vita d'ogni giorno, la vera comunicazione è sempre da un'anima a un'altra anima; anzi, se vogliamo spingere il concetto ancora più a fondo, potremmo dire: dell'anima a se stessa. Perché in tutte le anime individuali si esprime la fervida vita dell'unica anima universale, che pervade e rischiara l'intera creazione.

Platone, dunque, aveva ragione quando affermava che la bellezza sensibile può essere una via d'accesso per elevarsi verso la bellezza spirituale; e quando affermava che gli occhi dell'anima cominciano a vedere veramente, solo quando sono rimasti al buio quelli del corpo.

Ma i moderni, specialisti della semplificazione che tutto banalizza e riduce ogni cosa al livello dell'uomo medio, all'individualista di massa rozzo e volgare, hanno travisato il concetto, allorché lo hanno ripreso in chiave deterministica: che la bellezza del corpo, cioè, sia (e non già: possa essere) una scala che conduce verso la bellezza spirituale.

Invero, una scala può condurre nei due sensi: verso l'alto, ma anche verso il basso. E la bellezza del corpo, quando è deliberatamente disgiunta da quella dell'anima, prima o poi finisce per condurre verso il basso: verso il regno delle passioni roventi e inestinguibili, ove si contorcono, nel calore insopportabile, quanti non riescono a trovar pace dai fantasmi di una sensualità disperatamente chiusa in se stessa, di un anelito alla bellezza che si sprofonda nella dimensione del finito.

La bellezza non trasfigura e non trascende proprio nulla, quando si compiace di celebrare il finito ripiegato su di sé; perché il finito è una parte della realtà, e ogni rappresentazione parziale di essa corrisponde a una deformazione del soggetto originale.

L'incapacità o il rifiuto di rappresentare la bellezza del mondo (compresa quella del corpo umano) nella sua interezza, nella sua armoniosa totalità, provoca la deformazione di essa, la sua distorsione e la sua subordinazione a un'ottica di potere.

Di potere? Sì, perché mutilare le cose esprime una volontà di dominarle e sottometterle: come nel gesto, semplicissimo e apparentemente innocente, di recidere un fiore di campo. La bellezza del fiore è inseparabile dal campo, dall'aria, dal cielo: messo in vaso, il fiore non è più quello. La sua bellezza ha subito una tremenda deformazione.

La stessa cosa vale per la bellezza del corpo umano. Un corpo senz'anima non esiste, è una contraddizione in termini; eppure è proprio quello che hanno cercato di rappresentare uno stuolo di artisti moderni: dei corpi seducenti, ma privi di anima. Ed è anche il modello cui si ispirano milioni e milioni di persone, uomini e donne, nella loro vita di tutti i giorni, trasformando i propri corpi in altrettanti  strumenti di guerra per la conquista dell'altro, mediante lo sfruttamento di una sensualità esasperata.

Da quei corpi, però, non traluce - sovente - nemmeno un barlume di anima: la loro è una bellezza che abbaglia, ma non riscalda; che confonde, ma non rasserena; che stimola, ma non appaga. Da essi, al contrario, traspare una cupa tristezza, un velo di pesantezza che ha quasi un sentore di dissoluzione, di morte.

Baudelaire lo ha descritto molto bene nella poesia Femmes damnées (la CXXXII dei Fleurs du mal), là dove narra lo sgomento della tenera  Ippolita, dopo che si è abbandonata all'amore per la forte Delfina; e, poi, come emergendo da un sogno cupo e angoscioso, sente un oscuro presentimento avvolgerla e riempirla d'angoscia:

 

Descenbdez, descendez, lamentables victimes,

Pau plus profond du gouffre, où tous les crimes,

Flagellés par un vent qui ne vient pas du ciel,

 

Boullonnent pêle-mêle avec un bruit d'orage.

Ombres folles, courez au but de vos désirs;

Jamais vous ne pourrez assouvir votre rage,

Et votre châtiment naîtra de vos plaisirs.

 

Jamais un rayon frais n'éclaira vos cavernes;

Par les fentes des murs des miasmes fiévreux

Filtrent en s'enflammant ainsi que des lanternes

Et pénètrent vos corps de leurs parfums affreux.

 

L'âpre stérilité de votre jouissance

Altère votre soif et rodit votre peau

Et le vent furibond de la concupiscence

Fait claquer votre chair ainsi qu'un vieux drapeau.

 

Loin des peuples vivants, errantes, condamnées,

a travers les déserts courez comme les loups;

Faites votre destin, âmes désordonnées,

et fuyez l'infini que vous pourtez en vous!

 

Traduzione di Bernard Delmay (Baudelaire, I fiori del male e altri versi, Sansoni Editore, Firenze, 1972, pp. 391-393):

 

Scendete pure, scendete, vittime derelitte,

giù per la strada del vostro inferno perenne!

Tuffatevi nel fondo d'abisso, ove i delitti,

flagellati da un vento che dal cielo non venne,

 

ribollono confusi in un rombante mare.

Folli ombre, andate al colmo dei vostri desideri:;

la vostra furia mai voi potrete colmare,

ed il vostro castigo voi verrà dai piaceri.

 

Mai fresco raggio accese quelle vostre caverne;

dagli spacchi dei muri i miasmi febbrili

filtrano, e prendono fuoco così come lanterne,

e vi impregnano i corpi dei lor profumi vili.

 

L'acre sterilità del vostro godimento

Punge la vostra sete, la vostra pelle assilla,

e la concupiscenza qual furibondo vento

vi fa schioccar la carne come un vecchio vessillo.

 

Via dai popoli vivi, erranti, condannate,

attraverso i deserti come i lupi correte;

compite il vostro fato, anime sregolate,

fuggendo l'infinito che sempre in voi avrete!

 

«Fuggendo l'infinito che sempre in voi avrete»: ecco come l'intuizione del poeta è capace di rendere, in un bagliore istantaneo, il lento processo di pensiero del filosofo.

Nella persona umana è impresso il sigillo dell'infinito.

Ignorare questa realtà, ridurre il corpo a strumento di bellezza chiuso in se stesso, privo della luce dell'infinito, è il tradimento della persona e, quindi, dell'autentica bellezza.

È la scala che non sale verso il Paradiso dell'armonia e del rasserenamento, ma che scende verso i bollori inestinguibili e le amare concupiscenze dell'Inferno dei sensi.

A noi la scelta in che senso percorrere quella scala.