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Superamento dell'attivismo. Il mondo moderno e la demonia dell'azione

di Julius Evola - 12/09/2008


E' un fatto difficilmente contestabile, che l'attivismo costituisca la
parola d'ordine dell'ultima civiltà. L'esaltazione e la pratica dell'azione,
quindi di tutto ciò che è sforzo, slancio, lotta, divenire, trasformazione,
perenne ricerca, inesausto movimento, si vede affiorare da ogni dove. E non
solo noi oggi abbiamo il trionfo dell'azione, ma abbiamo anche una filosofia
sui generis al servigio di essa, che con una critica sistematica e con un
forte apparecchio speculativo volge a crearsi alibi d'ogni genere e a
gittare a piene mani il disprezzo sui valori proprii a ogni diverso punto di
vista. Così, nelle cose l'occhio del moderno si abitua a trascurare sempre
più l'aspetto "essere" per affissarsi invece sull'aspetto "divenire",
"sviluppo", "storia": "storicismo" e "divenirismo" vanno a battere il ritmo
all'"attivismo" e noi vediamo che nelle stesse scienze i principii che ieri
si ritenevano immutabilmente validi e intrinsecamente evidenti oggi vengono
considerati come assunzioni ipotetiche da controllarsi in funzione del
divenire della conoscenza scientifica; noi vediamo che nelle stesse
religioni un'esegesi di tipo nuovo non tiene nessun conto delle pretese di
assolutezza e di trascendenza che i dogmi e le "rivelazioni" presentavano e
tende a non vedere in tutto ciò che dei momenti di un divenire, di una
storia immanente dell'aspirazione religiosa, non esitando, su questa base, a
procedere alle umanizzazioni più contaminatrici.

In filosofia la cosa è ancora più evidente. Pragmatismo, volontarismo,
attualismo, ecc., sono correnti che, sia pure in forma varia, convergono
tutte in un unico motivo il quale non fa che tradurre in sede speculativa il
motivo stesso della vita immediata d'oggi, il suo tumulto, la sua febbre di
velocità, la sua meccanizzazione volta a contrarre ogni intervallo di spazio
e di tempo, il suo ritmo congestivo e privo di respiro che nei popoli
anglosassoni e soprattutto americani giunge poi al suo limite. Qui il tema
attivistico perviene realmente a un acme parossistico e quasi diremmo
pandemico, assorbe la totalità della vita secondo un'accelerazione che
sembra non conoscere più freno, mentre gli orizzonti si riducono sempre più
sensibilmente a quello buio e impuro di realizzazioni affatto temporali e
contingenti, dove la demonìa del collettivo si fa onnipotente su esseri
privi di ogni sostegno tradizionale, tetanizzati da una irrequietudine che
oltrepassa tutti i limiti, dominati da forze scatenate sotto molti aspetti
subpersonali e prive di volto che li sospingono verso l'"ideale animale" di
una nuova civiltà arimànica.

Per tale via, le cose sono giunte a un punto tale, che per coloro, i quali
non sono ancora del tutto dimentichi di quelle antiche tradizioni, che
fecero la nostra vera nobiltà spirituale, l'arrestarsi e il rendersi un
conto preciso della situazione col riportarsi a un punto di vista più alto
si impone. E in realtà è possibile muovere una critica e una reazione contro
l'accennato orientamento del mondo moderno non in nome della stasi o dell'astrazione
intellettualistica o estetizzante, bensì proprio in nome della stessa
azione: mostrando che il mondo moderno, in fondo, di ciò che sia veramente
azione non sa quasi più nulla - quel che esso esalta, è soltanto una forma
inferiore d'azione - e che appunto in ciò stanno la deviazione e il
pericolo.

In realtà, vi è azione e azione; vi è un attivismo sano e un attivismo che è
semplicemente febbre, esaltazione, vertigine senza centro, tanto che, lungi
dal testimoniare una forza, come volgarmente si crede, esso indica soltanto
un'impotenza e un'incapacità. Oggi, sotto specie delle varie filosofie della
"vita", del "divenire" e dell'"irrazionale", è appunto di questa seconda
specie di attivismo che trattasi; e per questo occorre che il ritorno a una
più alta concezione dell'azione ristabilisca l'equilibrio e arresti un
processo, le cui deleterie conseguenze son già fin troppo visibili.

Noi abbiamo perduto il senso di ciò che nelle nostre tradizioni classiche
significava spiritualmente l'opposizione fra mondo "naturale" e mondo
"intelligibile". Il movimento - in tali dottrine - era considerato come il
principio delle cose di natura inferiore, però il movimento come la "perenne
fuga delle cose che sono e non sono" (Plotino), come impotenza a compiersi e
a possedersi in una legge e in un limite, a realizzarsi come atto perfetto.
L'altro mondo - il "mondo intelligibile" - non era il mondo della non
azione, ma era invece quello dell'azione perfetta, quello di un azione che
si differenziava dal modo proprio alla "natura" in quanto era priva di
desiderio e sufficiente a sè stessa: in quanto azione assoluta, avente in sè
stessa il proprio oggetto e il proprio principio. Un ideale sovrannaturale,
aristocratico dell'azione faceva dunque da anima a tale visione antimoderna:
né a essa soltanto. Chi prendesse contatto con alcuni insegnamenti
tradizionali dell'Oriente ariano si stupirebbe forse dinanzi all
affermazione, che tutto ciò che è movimento, attività, divenire,
cangiamento, è proprio a un principio passivo e feminile, mentre al
principio virile e "solare" vien riferita l'immobilità, l'immutabilità, la
fissità. E così non si renderebbe nemmeno troppo conto di che cosa possa
significare l'altra affermazione, che "il Saggio discerne la non-azione nell'azione
e l'azione nella non-azione".

In ciò non si esprime affatto un quietismo, ma appunto la stessa
consapevolezza di un ideale superiore, aristocratico dell'attività, rispetto
al quale l'azione comune diviene quasi un non-agire. E' l'idea che in
termini metafisico-teologici si ritrova poi nella stessa dottrina
aristotelica del motore immobile. Chi è causa e signore effettivo del moto,
non si muove egli stesso. Egli suscita e dirige il moto, desta l'azione ma,
egli, non agisce, nel senso che non è "trasportato", non è preso dall
azione, non è azione, bensì una superiorità calmissima, impassibile e
imperativa, da cui l'azione procede e dipende. Ecco perché, il suo comando
possente e invisibile si è potuto chiamare un "agire-senza-agire". Dinanzi a
questo ideale di azione dominata, chi agisce preso dallo slancio, dalla
passione, dall'immedesimazione, dal desiderio, dall'inquieto bisogno non
agisce veramente, ma è un agito. Per quanto paradossale possa sembrare
questa espressione, il suo è un agire passivo. Ecco perché, rispetto al
mondo trascendente, superiore, regalmente freddo, puramente determinativo,
"immobile" dei "Signori del moto" lo si assomiglia appunto a femina: egli si
muove, fa, crea, corre ma la ragione, la causa assoluta della sua azione
cade fuori di lui.

Orbene, una volta compreso questo ideale tradizionale dell'azione e della
non-azione, se si esamina il senso proprio alle dottrine attivistiche,
diveniristiche, bergsoniane, ecc. in voga al giorno d oggi, di massima ci
troviamo dinanzi precisamente a questa forma inferiore e passiva di azione:
ciò che oggi si esalta, è uno slancio cieco e istintivo, onde si va senza
sapere perché si vada, senza avere potere di essere diversamente da quel che
si è, di dominarsi, di crearsi in sè stessi un centro, un limite, una luce,
una ragione assoluta. E' l'agire per agire, come era spontaneità e "elan
vitae", come necessità immediata e mai risolvibile - quand'anche il tutto
non si riduca a una volontà più o meno consapevole di stordirsi e di
distrarsi, a un'agitazione e a un rumore che tradisce la paura per il
silenzio, per il distacco interno, per l'assoluto essere degli individui
superiori - mentre dall'altra parte essa sostiene e fomenta in ogni modo la
rivoluzione dell'uomo contro l'eterno.

Per quanto necessariamente tronche, queste considerazioni bastano per dare
il senso del punto centrale di riferimento. Al tumulto della vita moderna,
alla molteplicità scatenata delle forze e delle passioni che essa ha evocate
sia nell'ordine della società che in quello stesso della natura su cui,
attraverso la tecnica, l'uomo oggi fa sempre più profonda presa, dovrebbero
corrispondere forze di centralità: di ascesi, di comando, di assoluto
dominio spirituale, di assoluta individualità e di assoluta visione - forze
che oggi meno che in qualsiasi altro tempo ci è dato di constatare d'intorno.
E questo difetto è vano sperare che possa essere veramente rimosso, quando
si continui a ridurre l'azione all'unico tipo dell azione materiale e
"passiva", spinta dall'esterno e volta verso l'esterno; quando non si veda
altro che essa e si ritenga che l'azione interiore, l'azione segreta che non
crea più macchine, banche e società, ma uomini, asceti e guerrieri, esseri
superbi dominatori delle proprie anime, svincolati da ogni sete, liberati,
non sia azione ma rinuncia, astrazione, perditempo. Finché tale sia il
criterio non c'è da aspettarsi che una sempre più alta vertigine sempre più
lontana da qualsiasi centro e a qualsiasi controllo che non sia quello della
reciproca dipendenza di parti di un mostruoso ingranaggio lanciato a vuoto,
senza nessuno che possa più nulla.

Se nella sua febbre di correre, di andare sempre più in là come degli
assetati o degli inseguiti il mondo moderno non realizza che le estreme
conseguenze del romanticismo, ciò che di nuovo potrà stabilire un equilibrio
e non estinguere, ma integrare, centralizzare, rendere maschia, solare e
attiva l'azione, non può essere che una rievocazione di quel che, in senso
lato, si può chiamare l'esperienza classica: amore del cosmos contro il
caos; della forma contro l'informe, dell'ethos contro il pathos, della
chiarità contro la penombra, del distinto e del "dorico" contro il
promiscuo, l'inquieto e il senza limite.

L'ideale di un nuovo classicismo dell'azione e del dominio, animato da nuovi
contatti col supertemporale, preparato dai valori di un ascesi virile e di
una superiorità aristocratica al semplice "vivere", è ciò che oggi ci
occorre. Esso varrà a creare lentamente centri, qualità e individualità
nuove - nuove per essere "tradizionali" nel senso più profondo e vivo del
termine - dinanzi a cui, per una legge naturale irresistibile, non potranno
non piegarsi e non subordinarsi in un migliore futuro le forze senza centro,
senza persona e senza luce emerse attraverso il mito dell'azione nei tempi
ultimi.

 


* * *
Nota

Presentiamo su questo dodicesimo numero di Algiza un importante scritto di
Julius Evola che abbiamo recentemente scoperto: si tratta di Superamento
dell'attivismo, apparso il 18 gennaio 1933 nella terza pagina del quotidiano
cremonese Il regime fascista diretto da Roberto Farinacci. Questo scritto,
estremamente significativo, costituisce una novità per gli studii evoliani,
dal momento che non è neppure segnalato nella più completa bibliografia
evoliana sinora pubblicata - peraltro l'unica sinora che abbia tentato con
una qualche pretesa di completezza di indicare tutti gli articoli di Evola
apparsi su riviste italiane.

Si tratta, come si è accennato, di uno scritto di particolare interesse; la
quale cosa, se certo non stupirà chi già legga e conosca Evola, converrà
indicare a quanti ancora poco ne sappiano. L'articolo che proponiamo si
compone di una pars denstruens e di una pars construens, come spesso avviene
nella costruzione polemica evoliana: il moderno "demonismo" dell'azione
priva di un centro e di una direzione è analizzato con particolari efficacia
e incisività. Potrà forse stupire la estrema attualità delle considerazioni,
svolte quasi settanta anni orsono: quando Evola scrive dell'azione materiale
e passiva, spinta dall'esterno e volta verso l'esterno pare descrivere la
nostra società contemporanea, e ancora più attuale pare il suo riferimento a
quell azione segreta che non crea più macchine, banche e società, ma uomini,
asceti e guerrieri, esseri superbi dominatori delle proprie anime,
svincolati da ogni sete, liberati . Quel tipo di azione, cioè, svincolata e
liberata dal giogo delle passioni e del divenire, che si fa fine di sè
stessa, propria ormai di pochi rari individui. L'azione cui, nel mondo di
rovine che egli stigmatizza, vale unicamente dedicarsi, e in funzione della
quale davvero vale il vivere.

Come il suo pensiero sia stato d'avanguardia, è facile indicarlo. Analoghe
considerazioni, su un piano leggermente diverso, aveva svolto l'anno
precedente Ernst Juenger nel suo prezioso saggio Der Arbeiter. Herrschaft
und Gestalt, che non a caso interessò particolarmente Evola, per la
consonanza di vedute, e al quale nel secondo dopoguerra dedicò un saggio,
che di recente è stato riproposto al pubblico italiano.

Significativamente affini sono le visioni juengeriane sull Età della
Tecnica, sull'Arbeiter che mobilita il mondo tramite la tecnica, alle
indicazioni che Evola fornisce circa l'atteggiamento da tenere dinanzi a
quest'epoca in cui la velocità è portata alle estreme conseguenze, l'azione
si fa parossistica, ogni senso pare smarrito. E su queste basi, ci pare, le
più brillanti conseguenze sono quelle che dal pensiero di Evola (e anche di
Juenger) trasse Adriano Romualdi, senza dubbio il migliore esegeta del
filosofo italiano, quando scrisse:

"La storia cambia pagina e il mondo della tecnica conquista il suo spazio.
Dirne bene, o male, ciò non esaurisce il problema: v'è nella realtà della
età tecnica un'ignoranza di ogni altra prospettiva, ma anche uno spirito di
razionalità e di padronanza che si inquadra nel contesto d una tradizione
europea [...]. V'è nella scienza e nella tecnica un aderenza allo stile
interiore dell'uomo bianco che non si può disconoscere. Uno stile ormai
ottuso, una vocazione decaduta ad abitudine meccanica, ma dominata da una
volontà di chiarezza [...]. Possiamo semplicemente disfarci del gravoso
fardello della civiltà bianca?"

La risposta che Evola dà è semplice, e consiste nella vera liberazione dell'azione
dai suoi vincoli, nell'essenzializzazione, che passa attraverso la
riscoperta di uno stile e di un modo di vivere tradizionale: in quello che
egli definisce "nuovo classicismo dell'azione e del dominio".

La speranza è che il riproporre oggi gli scritti di Evola possa avere la
funzione, davvero preziosa e significativa, di trasmettere a qualcuno -
anche a un'unica persona - l'interesse per quel Mondo della Tradizione che
Evola ci ha insegnato ad amare.

Alberto Lombardo

Da Algiza 12 (1999), pp. 4-8.