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L'imperialismo intellettuale italiano

di Franco Cardini - 12/09/2008

 

Perché la vita e soprattutto la credibilità dell’Unione Europea sta segnando il passo? Perchè si sta diffondendo sempre più il cosiddetto “euroscetticismo”, che fino a qualche tempo fa era solo un termine politically correct per indicare l’antieuropeismo comunque motivato, mentre oggi è anche e forse soprattutto sinonimo di stanchezza e di delusione? Per molte ragioni, senza dubbio: che tuttavia non è questa la sede per analizzare. Ma , prima d’ogni altra, perchè l’idea d’Europa, il sentimento d’unità storica e culturale nella diversità e nella pluralità, il senso dell’Europa come “comunità di destino” – quello ch’era nato fin dal Quattrocento, come si riscontra a non di altro in voci pur tanto diverse come quelle di Enea Silvio Piccolomini e di Gyorg Podiebrady, e che ancora tra Sette e Ottocento animava il pensiero di personaggi ancor più diversi tra loro come Immanuel Kant e Napoleone Bonaparte – non sono riusciti a radicarsi nei popoli i governi dei quali hanno pur concorso, dal 1993 ad oggi, a costruire e ad allargare l’Unione Europea unificando precedenti istituzioni di tipo economico, produttivo e tecnologico. Ma il punto è proprio questo: alla “nostra Europa”, quella di cui siamo pur cittadini, manca l’anima. Quella che ha senza dubbio bisogno di un corpo economico, finanziario, tecnologico, istituzionale e perfino burocratico, ma in sé e per sé è costituita di autocoscienza identitaria: qualcosa che non sono né i governi, né i parlamenti e tantomeno le banche a conferire, ma ch’è dato unicamente dalla storia, dalla cultura e dalla consapevolezza dell’una e dell’altra. Alcuni decenni or sono, questa sintesi di storia, di cultura e di sintesi consapevole dell’una e dell’altra si sarebbe chiamata “spirito”. Un mio collega e vecchio amico statunitense, di simpatie neocon e quindi molto lontano dalle mie, mi ha pur fatto notare una volta qualcosa di profondamente giusto. Stavamo guardando per caso dinanzi a un televisore, a Parigi, le immagini commoventi del ritorno – nell’agosto del 2008 – dei caduti francesi in Afghanistan. “Ma perché le bare dei soldati europei – mi ha chiesto a bruciapelo – non vengono mai coperte dalla bandiera europea, quella azzurro-stellata?”. Sapevo bene ch’era una domanda-tranello, una provocazione: i nostri litigi, dall’11 settembre 2001, sono feroci. “L’Unione Europea – ho risposto con falso sussiego, tentando di celare disappunto e imbarazzo – non è fatta di paesi senza storia come l’Indiana o il Minnesota, né è retta da una presidenza federale dai poteri soffocanti. Siamo popoli antichi, pieni di storia, gelosi della nostra identita. Voialtri potete anche sentirvi statunitensi e basta: noi no, caro mio. Noi siamo europei perche siamo francesi, tedeschi, spagnoli, italiani, tedeschi e via dicendo…”.

Non ha abboccato: “Banalità – mi ha replicato secco -. Non sono gli states a non avere storia. Ce l’hanno eccome, e lo sai benissimo. A non avercela è la vostra bandiera europea. Sai perché non copre mai le bare dei vostri soldati? Perché non è mai stata in battaglia, non si è mai tinta di sangue”.

Retoricaccia, patriottardismo americanista, roba da John Wayne, gli ho risposto. Ma sapevo bene che aveva ragione. E sapevo che lui lo sapeva. Il punto non è semplicemente che non esiste un esercito europeo: il punto è che né i nostri soldati, né la nostra opinione pubblica ne sente il bisogno. Perché la bandiera europea ormai si espone dappertutto, perfino troppo: ma nessuno la riconosce come sua. E ciò dipende dal fatto che abbiamo cominciato a costruire la “comune casa europea” dal tetto, dai piani alti, da quelli dove abitano quelli che contano; e, se quella casa ha delle fondamenta, esse ospitano i caveaux delle banche. Ma sono ben altre le fondamenta che contano quando si edifica una patria comune. E noi le abbiamo trascurate. Bisognava cominciare dalla storia, dalla coscienza storica: bisognava insegnarla nelle scuola, farla vivere dai nostri ragazzi, farla respirare loro fin da piccoli, insieme con l’aria. Se lo avessimo fatto anche solo fin dal 1993 – e sarebbe stato gia tardi, dal momento che gli ideali europeistici circolavano gia da molti decenni, anzi da secoli – oggi avremmo quanto meno degli adolescenti coscienti della loro cittadinanza europea. Mentre oggi, nell’idea diffusa tra la gente, l’Europa – a parte l’euro, ch’è piuttosto l’unità atomica attorno alla quale si è costruita l’Eurolandia – e solo quella cose evanescente ma anche oppressiva ed esigente che commina sanzioni ai paesi deficitari e legifera con sussiego sulle quote-latte, sulla quantità di cacao necessaria a una pasta di latte e di polvere di nocciole per poterla denominar cioccolato, sulla lunghezza delle code degli stoccafissi e via dicendo.

Ma, di fronte al sentimento di europeicità ch’è una diffusa inesistenza, quello d’italianità é migliore per qualità e per radicamento? Solo a giudicar dagli stadi o dallo sventolio di tricolori dopo una performance sportiva riuscita si potrebbe rispondere affermativamente: e non bastano certo le note dell’Inno di Mameli miste a quello di Garibaldi e coronate dallo stentoreo “Si!”, che ormai si sentono cantare (maluccio) un po’ piu spesso di prima, a migliorare la situazione. Al contrario: l’Italia è stata fatta, come a suo tempo recitava una celebre frase storica, più o meno un secolo e mezzo fa. L’ “ora bisogna fare gli italiani”, pronunziato appunto a quel tempo, vale più o meno oggi come allora: ne abbiamo certo fatta di strada, ma è stata una strada molto confusa e accidentata. L’unità politica e istituzionale del nostro paese non è proceduta di pari passo con un processo di unificazione nazionale che sia stato davvero in grado di unificare il paese: la stessa “nazionalizzazione delle masse” – che, come ha insegnato Georg Mosse a proposito della Germania, si elabora essenzialmente in cinque sedi: la scuola, l’esercito, le forme dello spettacolo, la vita politica e quella sportiva – in Italia si è attuata in modo debole e contraddittorio, attraverso una serie di false partenze. E adesso, all’inizio del XXI secolo, quando uno dei più importanti partiti della penisola per giunta attualmente partito di governo, rifiuta e contesta in vari modi l’italianità, non basta certo replicare – anche se il farlo è comunque indispensabile – che quel partito, in quanto espressione di italo-settentrionali che si sentono in quanto abitanti delle aree piu prospere e ricche del paese “oppressi”, “derubati” e “sfruttati” sia dala centralistica “Roma ladrona” sia dalla spiantata e svogliata “Terronia”, rappresenta al contrario la voce dei pronipoti di coloro che a suo tempo, vale a dire tra 1860 e 1914 (e anche dopo), si arricchirono e gestirono un brillante decollo industriale proprio facendone pagare le spese ai capitali drenati dal Meridione, a un sistema fiscale che opprimeva il Sud del paese per avvantaggiare il Nord e alla forza-lavoro meridionale sradicata dalle sue terre, sottopagata e sfruttata.

Ne consegue che è necessario rivedere e rifondare le basi stesse della nostra italianità, del nostro stesso “sentirsi italiani”: membri cioè di una stessa nazione, che non è per nulla lo stesso di “sentirsi italici”, gente cioè che condivide una lingua (fino a un certo punto) comune e che vive insediata su un lungo promontorio euromeridionale aggettante nel Mediterraneo.

Questo è, in effetti, un primo problema a proposito del quale va fatta chiarezza. “L’Italia è un’espressione geografica”, ha sentenziato nel primo Ottocento il principe di Metternich, “L’Italia non esiste”, ha rincarato la dose alcuni anni or sono uno scrittore e studioso intelligente, Gino Salvi, di simpatie vicine alla Lega Nord. Entrambi questi pareri erano e sono fondati su alcune ragioni effettive. Il problema resta storico, sociologico e altresì politico: la nazione non è una realtà né biologica, né geostorica in senso deterministico. Si “è” nazione, o lo si diventa, solo quando e nella misura in cui si vuole esser tale. E la volontà che crea una nazione puo essere individuale, comunitaria o collettiva, maggioritaria o minoritaria, puo maturare e imporsi in maggiore o minor tempo: la genesi d’un sentimento nazionale e della sua condivisione, la “nascita d’una nazione” – come recitava il celebre film di Walter B. Griffith del ’15, che dimostrava come alla base d’un sentimento nazionale potessero esservi anche elementi e istanze di tipo razzistico -, può compiersi, radicarsi e consumarsi nel breve volger di alcuni anni o in un lungo arco di tempo e non dispone di altra verifica che non sia l’autocoscienza comunitaria, la quale si traduce in termini politici e storici. Tra le nazioni europee - nate tutte dalla crisi di trasformazione dell’impero romano avvenuta tra IV e V secolo, dal processo di conversione al cristianesimo (progressivamente affermatosi fra II e XIII secolo, ma non senza residui risolti e metabolizzati solo molto al di là della riforma protestante) e dalle Volkerwanderungen ( a loro volta non esauritesi prima dei secoli XIII-XV e anche dopo, se si considerano i movimenti dei tartari e dei turchi, entrambi altaici, tra Balcani e Caucaso) -, quelle più antiche si sono andate organizzando relativamente presto attorno a una forte realtà monarchica e a un comune patrimonio idiomatico (come la francese, l’inglese, l’ungherese, la castigliana, l’aragonese, la portoghese, la boema, la svedese), altre attorno a un forte radicamente linguistico-folklorico e a un deciso sentimento unitario di tipo religioso (l’irlandese, la basca), altre ancora attorno a una volontà di distinzione istituzionale e di radicamento comunitario locale (le libertates-Freiheiten svizzere), altre infine attorno a un forte sentimento etnoreligioso (la slavicità cattolica dei polacchi, stretti tra i tedeschi luterani all’ovest e gli slavi ortodossi russi ad est; la germanicità calvinista degli olandesi, tenacemente difesa contro le pretese cattodinastiche degli Asburgo; la celticità calvinista degli scozzesi, paradossalmente radicata nel fallimento dello stuardismo cattolico); quelle piu recenti si sono sviluppate piu tardi, tra XVIII e XIX secolo, sull’onda della definizione giacobina prima e romantica poi di “nazione” che fondeva la riscoperta dell’antico ideale greco e romano di Patria con il concetto, originato dal diritto consuetudinario germanico nell’Alto Medioevo e diffuso nei secoli successivi, di Natio: due concetti che valorizzavano entrambi tuttavia piu il “sangue”, cioe le origini genetiche (garantite, cosi almeno si riteneva, dall’idioma parlato oltre che da alcuni caratteri somatico-fisiologici almeno apparenti), che non il “suolo”, a sua volta collegato a un certo popolo sulle basi, sempre soggettive ed empiriche, dell’antichità e dell’intensita delle forme di popolamento. Le “nazioni” piu recenti, a parte il caso della Spagna – paese nel quale convivevano almeno tre etnie (la castigliana, la catalana e la basca), tenute insieme tuttavia sin dalla fine del Quattrocento da una tradizione monarchica -, si sentivano tali sulla base d’una piu o meno perfetta e profonda condivisione di una lingua (unificando e razionalizzando quest’ultimo quando esso non era sentito perfettamente unitario), di una storia – che occorreva tuttavia riscrivere, reinsegnare e “usare” in senso appunto “nazionale” - e di alcune istituzioni (nonche magari di una fede religiosa) comuni: ed è questo il caso dell’Italia, della Germania, della Grecia, della Serbia, della Bulgaria; mentre Belgio e Romania si sono trovati a fondare la loro realtà statale su una binazionalità (vallone-fiamminga nel primo caso, valacco-moldava nel secondo) giustificata da vicende politico-dinastiche redicate nella ridefinizione dell’equilibrio continentale di meta Ottocento. Greci, serbi e bulgari poterono esprimere le loro istanze nazionali (sulla prima delle quali molto peso un dato culturale di travolgente peso: la (“rinascita classica” nella cultura europea tra Quattro e ottocento) in concomitanza come lo sfaldamento dell’impero ottomano, mentre Italia e Germania emersero entrambe, come nazioni, dal definitivo sfaldamento dell’impero romano-germanico che consenti agli “italici” di dichiararsi definitivamente “italiani” e alle varie germaniche Leute di ridefinirsi come Deutsches Volk, Deutsche Nation. Non c’e dubbio che il diffondersi della rielaborazione “classica” dei concetti grecoromani di Patra-Patria/Ethnos-Populus, che Napoleone aveva cercato di giuridicamente delimitare in termini chiari nel Code Civil nel momento stesso nel quale avviava la sua azione politica tesa a creare una “Europa delle Nazioni” sotto l’egemonia francese costitui la base di partenza del Risorgimento nazionale unitario sia italiano, sia tedesco, poi sviluppatosi parallelamente nei medesimi decenni. In entrambi i casi si trovò, bonapartisticamente, una “potenza-guida” sotto l’egemonia della quale poter tradurre in termini istituzionali il processo di unificazione nazionale. Per Napoleone, il cui fallito progetto venne ripreso – e condotto, in circostanze ben diverse, a un nuovo fallimento da suo nipote Luigi-Napolene, dal 1852 divenuto Napoleone III -, la “potenza-guida” d’un’Europa definitivamente libera dall’ipoteca religioso-sacrale delle monarchie “di diritto divino” e del potere temporale della Chiesa avrebbe dovuto essere la “repubblica imperiale” francese. Si dovette tuttavia, senza dubbio, al concetto giacobino-bonapartista di “nazione”, esattamente nel senso attribuitole dal 1789 in poi, se il Risorgimento europeo (accettiamo di continuar a usare questo termine, ormai radicato, nonostante la sua obiettiva equivocità etimologico-semantica) si sviluppò appunto in senso “nazionale” e “unitario”, in quanto tale trionfando sia in Italia sia in Germania grazie appunto all’emergere, nella storia “parallela” di ciascuno di questi due paesi, di una “potenza-guida”: appunto bonapartisticamente concepita, che fu nel primo caso il regno di Sardegna-Piemonte, nel secondo quello di Prussia. Altrove, come nei casi dei paesi balcanici nati dallo sfaldarsi dell’impero ottomano, la mancanza d’una “potenza-guida” autoctona fu rimediata dall’imposizione, da parte del “concerto” delle nazioni europee, di una dinastia in alcuni casi appunto europea e naturalmente cristiana (gli Hohenzollern in Romania, i Wilttelsbach in Grecia, i Sassonia-Coburgo in Bulgaria), in altri autoctona, ma sostenuta dall’esterno (in Serbia i Karagjeorgjevich, con l’appoggio russo). La differenza fondamentale, tra il Risorgimento tedesco e quello italiano, sta nel fatto che l’impero tedesco fondato nel 1870 (che ereditava in gran parte l’assetto della “Lega germanica” costituitasi dopo l’abolizione del Sacro Romano Impero nel 1806 sotto la presidenza prima dell’imperatore dei francesi, quindi – dal 1815 – di quello d’Austria), mantenne il carattere federale caratteristico della storia tedesca, storia di libere citta e di principati, che nemmeno Hitler – nonostante la centralizzazione del Terzo Reich e l’abolizione dei Lander della repubblica di Weimar, nati a imitazione dei Departements francesi e sostituiti dai Gaue – osò abolire del tutto. Se il processo di unità nazionale tedesco si costituì, tra 1848 e 1870, nel sostanziale rispetto della storia e delle tradizioni tedesche, cio non accadde in Italia, un paese nel quale quel processo fu sin dal l’indomani del 1848 egemonizzato – dopo il fallimento del progetto federalista “neoguelfo” – dall’espansionismo militare piemontese e dall’unitarismo repubblicano e neogiacobino di mazziniani e di garibaldini, entrambi peraltro decisi a rinunziare alla pregiudiziale repubblicana pur d’attuare un’unità della penisola italica che, in netto e antistorico contrasto con le tradizioni dei popoli italici e italofoni che abitavano la penisola, era unitaria e centralizzatrice.

Questo è appunto necessario comprendere come un dato acquisito e irreversibile (per non dire irrimediabile) nel processo d’unificazione nazionale dell’Italia. Se la sia pur brutale macchina da guerra prussiana (la Prussia, come fu detto, non era un piccolo paese che disponeva di un forte esercito, bensi un esercito al servizio del quale stava un intero paese) rispettò la storia e le tradizioni tedesche, l’Italia ebbe invece la sventura di vedere il suo Risorgimento egemonizzato – in gran parte anche a causa della “questione romana”, che ne avvelenò il decorso – da due forze entrambe eversive, la volontà di potenza della monarchia sabauda e l’utopismo anticattolico e giacobinisticamente centralizzatore di mazziniani e di garibaldini. Questo è il suo “peccato originale” da cui nacquero due tra i grandi mali che avvelenarono al vita italiana del successivo secolo e mezzo, il conflitto istituzionale tra stato e Chiesa – poi a lungo rimasto comunque allo stato latente, con i suoi nefasti succedanei del clericalismo e dell’anticlericalismo – e la “questione meridionale”. Il fascismo cercò volontaristicamente di risolvere questa contraddizione storica imponendo con energia, fino alla violenza, una “nazionalizzazione delle masse” in senso appunto unitario e centralistico (e questa, accompagnata dalla “socializzazione”, sarebbe stata la sua autentica “rivoluzione”) che fallì e che, con la guerra perduta, si risolse in un’annosa demonizzazione del concetto stesso di patria, a lungo considerato “fascista”; la cosiddetta “Seconda repubblica”, che non si riesce nemmeno a decidere chiaramente se sia mai nata o se abbia avuto vita cortissima, non ha saputo – almeno fino ad ora – recuperare il tempo perduto e riportare, con un adeguato assetto federale, la storia italiana sull’autentica via della sua tradizione municipalistica e regionalistica, quella del paese delle “mille città” e degli stati preunitari sviluppo della trasformazione bassomedievale e rinascimentale delle poleis comunali in signorie e principati territoriali (una storia che, comunque, doveva e deve far i conti con una coesistente tradizione piu unitaria del Meridione, abituato fin dal XII secolo a istituzioni monarchiche che tuttavia accordavano a loro volta largo spazio alle autononomie locali.

A questo punto, il discorso da riprendere – e da imporre nelle scuole attraverso una ridefinizione profonda dell’insegna,mento della storia patria – è complesso: ma puo presentarsi come molto chiaro nelle sue linee di fondo. Va premesso che la storia può anche essere una scienza, ma non è tuttavia certo una “scienza pura” (anche ammettendo che esistano davvero “scienze pure”). Quando si fa ricerca storica, si deve beninteso rifuggire da qualunque strumentalizzazione, da qualunque “uso della storia”; ma, doverosamente cio premesso, bisogna aggiungere – ed è necessario che gli stessi insegnanti ne siano consapevoli – che l’insegnamento della storia nelle scuole non ha mai avuto lo stesso significato, propriamente informativo-scientifico, che possono per esempio avere gli insegnamenti di matematico o di fisica. No: la storia serve, nella scuola, non a creare i fondamenti per la formazione di futuri professionisti, o tecnici, o scienziati, bensi di futuri cittadini; la storia e “scienza civica”, che ai valori civici deve educare; è con questo intento ch’essa è stata immessa nelle scuole, beninteso con tutti i pericoli di strumentalizzazione ideologica che cio comporta.

Il compito del futuro insegnamento e apprendimento scolastico della storia patria, ovviamente inserito nel contesto d’una storia che – in tempi di avanzata globalizzazione, non può certo piu essere esclusivamente tale – è quindi circoscrivibile alla luce della risposta che politicamente saremo in grado di fornire alla seguente domanda: “Quale storia d’Italia insegnare, quale immagine dell’Italia trasmettere, agli italiani del XXI secolo, per i quali è necessario conseguire una coscienza civica che insegni loro ad essere altresi europei e mediterranei, e l’una e l’altra cosa appunto in quanto italiani?”.

Questa è la sfida del futuro. Alla quale evidentemente non si può rispondere alla fine di queste pagine, se non con la presentazione sintetica di tre tesi di fondo.

Primo: l’Italia come Vaterland. Nella lingua tedesca, il concetto di “Patria” si scandisce in tre livelli che il più generico italiano non consente di esprimere con un unico termine. Anzitutto, la Heimat, una parola che deriva da una radice (heim) che ha in sé il concetto di segreto, d’intimo, addirittura di mistero, e che indica i valori profondi del focolare domestico e del ventre materno: ciascuno di noi italiani ha una sua Heimat locale, cittadina o territoriale, addirittura microlocale, che non dev’essere assolutamente perduto e che va anzi tutelato nei suoi stessi aspetti dialettali, gergali, tradizionali, gestuali, religioso-folklorici “mentali”, insomma nel suo radicamento profondo; tenendo presente che i mutamenti geodemopgrafici die tempi nostri comportano il fatto che molti italiani abbiano una Heimat molto lontana dalle tradizioni della nostra penisola, della nostra lingua e della nostra cultura (questa e una sfida supplementare). Dopo la Heimat, a un livello “allargato” e storicamente parlando magari posteriore”, ma anche “superiore”, in tedesco viene il Vaterland, la “patria-stato-nazione” vera e propria, nello sviluppo che i vari Vaterlander hanno avuto nella storia moderna d’Europa, cioè da quando il concetto di Europa è venuto assumendo un aspetto distinto dall’uso di tale parola per indicare una parte dell’ecumene e da quando – a partire dal Quattrocento – la “Cristianità latina” (tale aggettivo va inteso nel suo valore non etnico, bensì linguistico, giuridico, religioso-liturgico e culturale) scaturita dalla riforma territoriale e istituzionale teodosianea dell’impero alla fine del IV secolo ha cominciato appunto a riconoscersi in un’entita di tipo continentale. Infine, la storia del Vaterland italiano andra studiata e considerata in rapporto allo sviluppo del Grossvaterland europeo, il rapporto di identificazione con il quale e di consuetudine, di fedeltà, di lealtà, di affetto – insomma, il rapporto identitario – è ancora tutto da costruire nelle varie società civili che compongono “l’Europa dei 27” e ciascuna delle quali l’intende per ora a suo modo e comunque a un livello e con un’intensità e un significato del tutto insoddisfacenti.

Secondo: il Vaterland italiano ha una storia cittadina e regionale, non unitaria, che corrisponde a quella di una nazione giovane, che si e creata attraverso una serie di atti di volontà alcuni dei quali sia pur comunitari e magari corali, ma che non può essere falsata e distorta sino a far scomparire quella volontarietà, quella recenziorieà, e a travestirla deterministicamente in qualcosa di molto diverso da quel che è stata. La scarsa “densità” del concetto e del sentimento nazionali italiani è il risultato di una specificita storica, non di una minor dignità o di un difetto storico. Se “difetto”, e magari “frode”, e perfino “tradimento” ci sono stati, essi vanno ricercati nel “peccato originale del nostro Risorgimento”, quello di aver voluto imprimere un corso unitario e centralizzato – magari falsando a tal fine la storia antica e medievale – a un paese lasotia del quale era, al contrario, municipale e regionale.

Terzo: gli italiani debbono ritrovare l’orgoglio della propria storia, cioè del loro passato, imparando a riconoscerlo per quel che effettivamente è stato. Una troppo lunga tradizione, eredità di un passato pervicacemente egemonizzato da una potenza estera (che poteva essere, a seconda dei casi e delle situazioni, la spagnola, la francese, l’austrotedesca, l’inglese), ha paradossalmente insegnato agli italiani a “vergognarsi” del proprio passato non solo in quanto non unitario, ma anche in quanto non militarmente “glorioso”. E qui bisogna intendersi seriamente sul senso della parola “gloria”. E’ ridicolo che ancora oggi, pur nell’ambito di un diffuso, strisciante e perfino indiscriminato clima di pacifismo culturale, si continui a considerare “glorioso” un passato tessuto di vittorie e di conquiste militari (come se non si sapesse, ad esempio, di che lacrime grondi e di che sangue la “gloria” delle conquiste coloniali inglesi, francesi, spagnole e addirittura di piccoli paesi come l’Olanda, il Portogallo e il Belgio…). In forza di questo ridicolo e odioso pregiudizio retorico, si è fatta passare dall’Ottocento a oggi la falsa immagine d’un’Italia tra la seconda metà del Cinquecento e l’inizio del Risorgimento come di un paese “sottomesso”, “diviso”, “imbelle”, “ignavo”, venduto o schiavo dello “straniero”, soggetto alle “preponderanze straniere”. E’ una visione non solo falsa e retorica, ma anche profondamente errata. L’Italia della prima modernita fu addirittura un paese imperialista. Non certo dal punto di vista politico e militare; nemmeno da quello economico, commerciale e finanziario, dove i suoi “secoli d’oro” erano stati quelli tra XII e XV; ma sicuramente dai punti di vista culturale, artistico, letterario, musicale, scientifico. Del resto, anche sotto il profilo economico-commerciale e militare, bisogna precisare alcune cose: tra Cinque e Ottocento Genova, Venezia e Livorno sono stati porti di primaria importanza mondiale; Napoli è stata a lungo considerata la seconda capitale europea dopo Londra o Parigi; la scienza militare moderna si e costruita sulla base di pensatori italiani e di generali-umanisti italiani, come il Montecuccoli o quell’autentica sintesi delle glorie europee ch’era il principe Eugenio di Savoia; la scienza europea ha decollato a partire dall’italiano Galileo; la cultura e la filosofia europea non sarebbero esistite senza l’umanesimo italiano; l’architettura rinascimentale e barocca italiana ha dominato le citta e le corti di tutto il continente, fino alla lontana Russia; Parigi, Londra, Vienna, Varsavia e Mosca sono state costruite e o ricostruite da urbanisti in buona parte italiani; la letteratura europea ha rotato a lungo fra i tre poli italici costituiti dal Petrarca, dall’Ariosto e dal Tasso; la religiosità italica ha dato il tono sia alla Riforma, sia alla controriforma europee; la musica francese non sarebbe nulla senza l’italiano Lulli, quella tedesca nulla senza l’italianizzante Mozart; nelle corti di tutta Europa, tra Cinque e Settecento (Budapest, Praga e Cracovia comprese), si parlava italiano; l’italiano era, con il latino e prima del francese, la prima lingua diplomatica d’Europa, ed era usata anche dalla Sublima Porta d’Istanbul; dal Maghreb al Mar d’Azov, una comune “lingua franca” dal lessico e dalla struttura grammatico-sintattica largamente italianizzante legava le marinerie di tutto il Mediterraneo (dopo la vittoria navale di Lissa del 1866 il grande ammiraglio Teghetthoff, sporgendosi dalla tolda della sua nave, sbotto in un gioioso “Gh’avemo vinto, fioi!”, acclamato dai marinai della flotta imperiale austriaca, ch’erano naturalmente tutti veneti, istriani e dalmati).

Queste sono le glorie italiane da reinsegnare ai nostri ragazzi, che hanno scarsissima cultura scientifica e artistica e quasi per nulla musicale, smentendo in tal modo le tradizioni profonde e il meglio della cultura originale e rivoluzionaria del loro paese. Un lavoro lungo e arduo. Da cominciare subito, con molta lucidità, con ferma decisione e con autentico orgoglio.