Sul processo a Milosevic
di Francesco Mario Agnoli - 06/02/2006
Fonte: Francesco Mario Agnoli
Il "Corriere della sera" del 16 novembre pubblica un fondo, "La grande beffa di Milosevic", nel quale Gianni Riotta critica la situazione di stallo nella quale si trova il processo a Slobodan Milosevic, aperto all'Aja nel febbraio 2002 e destinato a concludersi (se tutto andrà bene) nel 2006po ancora dopo. Il processo viene messo a confronto col suo precedente più celebre, quello di Norimberga, concluso in meno di un anno, e anche (ma il caso è diverso, trattandosi di un processo nazionale) con quello iniziato da Israele nei confronti di Adolf Eichmann nell'aprile del 1961 e concluso a dicembre dello stesso anno.Le cause dell'impantanamemto del processo al dittatore serbo deriverebbero dalla formulazione eccessivamente variegata dei capi di imputazione e da una macchina processuale garantista fino all'impotenza, in contrasto con quanto accadde a Norimberga, dove un processo trasparente e breve riuscì a superare "l'handicap dei giudici sovietici, rappresentanti di un regime sanguinario".e si mostrò capace di assolvere tre imputati e di graduare le pene dei condannati.
In realtà, nonostante le tre assoluzioni (giustamente Riotta osserva essere virtù cardinale dei processi contro i crimini di guerra la non automaticità delle sentenze) la presenza dei giudici sovietici non è mai stata interamente superata e ancora oggi continua a gravare sulla legittimità e imparzialità di quel processo agli occhi di buona parte dell'opinione pubblica mondiale. Appunto per questo si è cercato (riuscendovi solo in parte) di comporre la Corte dell'Aja, chiamata a giudicare Milosevic, in modo da non essere, almeno formalmente, totale espressione dei vincitori (tuttavia Milosevjc è certamente un vinto). Per le stesse ragioni gli americani hanno preferito fare giudicare Saddam da magistrati iracheni anche se naturalmente tutti sanno che nessun processo ci sarebbe stato se gli occupanti non lo avessero consentito.
Detto questo non si capisce dove voglia andare a parare Riotta, che pure invita a non ripetere l'errore per i casi africani di genocidio dal Ruanda al Darfur. Non è, difatti, chiaro se per evitare il ripetersi di quanto sta accadendo all'Aja, dove, secondo l'articolista, "i raid aerei Nato in difesa degli albanesi sono stravolti a "crimini di guerra" e i giudici ridotti a macchietta, si debba evitare di processare i responsabili dei genocidi africani o se invece vadano processati, ma mettendo a disposizione degli imputati minori garanzie di quelle concesse al "despota dei Balcani".
La parte finale dell'articolo, che, fra l'altro, definisce la Corte dell'Aja "preda di una sindrome kafkiana", fa propendere per questa seconda ipotesi. Ma se questo è quanto si propone, si tratta di una soluzione radicalmente sbagliata. Se si vuole proseguire sopra una strada che, come ha osservato il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, vuole travestire con la tunica di Temi la fucilazione sul campo in uso in tempi più brutali, ma anche più sinceri, le garanzie concesse agli imputati non saranno mai eccessive e ugualmente mai troppo lunghi i tempi di processi, che debbono persuadere della colpevolezza degli accusati e della giustizia dell'esito non i governi vincitori o i familiari delle vittime, troppo spesso determinati a trovare non il colpevole ma un condannato purchessia, ma l'opinione pubblica mondiale.
Se non si supera quella che si potrebbe chiamare la sindrome di Norimberga, che fa credere inevitabile la condanna degli imputati (anche per colpa dei mass-media, avvezzi a caricare le tinte, le tre dimenticate assoluzioni di quel processo non valgono ad elidere questa diffusa e radicata convinzione), il processo dei vinti portati alla sbarra, direttamente o per interposta persona, dai vincitori, rischia di trasformarsi in un boomerang che, ben più di quanto sia avvenuto e stia avvenendo con Milosevic, trasforma i primi in "vittime" e vincitori e giudici, come scrive ironicamente, Riotta, in "persecutori democratici".
. In realtà probabilmente nemmeno questo eccesso di garanzie sarebbe sufficiente a garantire il risultato voluto: la comune convinzione che sia stata fatta giustizia.
Requisito essenziale, in assenza del quale nessun processo potrà mai essere definito giusto, è che a gestirlo, preferibilmente dal principio alla fine, ma certamente nel momento della decisione conclusiva, siano giudici imparziali chiamati ad applicare norme uguali per chiunque abbia compiuto o compirà in futuro atti analoghi a quelli addebitati agli imputati alla sbarra.
A queste condizioni potrebbe essere legittimo processare, se non la Storia, i suoi protagonisti.
All'esigenza di imparzialità dei giudici forse non sarebbe impossibile provvedere attraverso la precostituzione di organi giudiziari con competenza sopranazionale (tendenzialmente mondiale) e composti, quanto meno nella fase finale del pubblico dibattimento e della sentenza, da giudici estranei tanto ai vincitori quanto ai vinti (tutto sommato, la Corte dell'Aja e la Corte penale internazionale rappresentano un imperfetto, ma perfettibile tentativo in questa direzione).
Assai più difficile da conseguire l'uguaglianza di fronte alla Giustizia, non solo teorica, ma concreta (come effettiva possibilità di essere portati sul pancone degli accusati) di tutti, vincitori e vinti, dal momento che i vincitori non accetteranno mai che le eroiche gesta che hanno assicurato la vittoria siano sottoposte al vaglio di giudici imparziali, che potrebbero perfino attribuire maggiore rilievo ai mezzi che al risultato.
In questi giorni è viva la polemica se gli americani abbiano o no usato in Iraq armi chimiche. Ammettiamo per pura ipotesi che le accuse siano vere, che civili, donne e bambini (ma il crimine sussisterebbe anche se l'azione fosse limitata ai combattenti) siano stati arsi dal fosforo bianco o da un qualche napalm di nuova concezione o mistura. Qualcuno può credere che i generali americani, quelli sul campo e, ancor più, quelli del Pentagono, per non parlare del presidente se a lui fosse stata riservata l'ultima parola, sarebbero davvero chiamati a risponderne davanti ai giudici?
Non per nulla, a scanso di equivoci, gli Stati Uniti (e non solo loro) non hanno riconosciuto la giurisdizione della Corte internazionale.