Novembre 2000. Dice che nelle fogne di New York ci stanno i coccodrilli. È pieno. Un coccodrillo appresso all’altro. E bianchi. Tutti coccodrilli bianchi. Pare che tra il ’68 e i primi anni Settanta – all’epoca degli hippy – andasse di moda regalarsi coccodrilletti. S’erano stufati dei cardellini e dei criceti – «Sono buoni tutti», avranno pensato – così, quando ti invitavano a cena o a farti una fumata, tu ti presentavi con un coccodrillino che, quando è piccolo, pare non sia più lungo di una decina di centimetri. La padrona di casa ti diceva grazie e cominciava a coccolarlo: «Che caruccio». Poi però cresceva. Cominciava a farsi ingombrante. Girava per casa. Sporcava pure. E non faceva le fusa. Arrivato a una trentina di centimetri la gente si stufava: «Do’ lo metto?». Lo mettevano dentro la tazza del gabinetto e tiravano l’acqua: «Arrivederci e grazie». Ma quello non moriva. Dal gabinetto arrivava alle fogne. Cresceva, trovava gli altri e faceva razza. E così hanno riempito le fogne di New York. E sono tutti bianchi perché, dentro le fogne, non c’è luce. E si sono adattati. Come i gechi. Solo un po’ più grossi.
Ora, come tutti sanno, non è vero niente. Era una leggenda metropolitana diffusasi di bocca in bocca per tutto il mondo. E la gente ci credeva. Ci ho creduto pure io per un sacco d’anni. Ma non è vero niente: non c’è un solo coccodrillo né grande né piccolo né bianco né – tanto meno – di colore in tutte le fogne di New York. Solo zoccole, sorche e pantegane – più o meno gigantesche – come in tutte le fogne di questo mondo. Tale e quale a Latina.
In recenti conversazioni con Mia Fuller però – un’antropologa americana che s’interessa di queste cose; ovvero di fascismo e colonizzazione, non di fogne o alligatori – è riemersa la vexata quaestio dell’isolazionismo che avrebbe improntato la politica rurale del fascismo: i contadini andavano tenuti isolati, ognuno per suo conto e che si parlassero il meno possibile. A dire la verità la questione non è affatto vessata – è vessata solo da noi due: tutta la letteratura sembra darla per scontata – per loro è un fatto certo: ci metterebbero la mano sul fuoco come Muzio Scevola. Io gli ci metterei pure l’altra: «Brucia, vaffallippa». […] È una leggenda metropolitana, questa è la verità: l’isolamento dei rurali è una leggenda metropolitana come i coccodrilli di New York. Non è vero niente. Ma veniamo al dettaglio.
In Agro Pontino – nel 1932-34 – la grandezza media dei poderi Onc è intorno ai 15 ettari. Vanno da un minimo di 9 o 10 per i terreni di medio-mediobuona fertilità, ad un massimo di 20 in quelli argillosi o sabbiosi. Le fonti in effetti parlano anche di un minimo di 4 ettari, riferendosi però ai soli 5 o 6 poderi sperimentali ad altissima specializzazione, più vivai che poderi veri e propri.
Il casale – fornito di stalla, pozzo, fienili, forno, «passi-comodi» e locali di abitazione su due piani notevolmente superiori agli standard dell’epoca – il casale non è collocato al centro ma su di un lato perimetrale, sulla strada interpoderale. Proprio di fronte al casale è collocato, di norma, il podere dirimpettaio. «Ma come?», dice: «E l’isolamento-segregazione? Non dovrebbero stare ognuno per suo conto?». Ahò, vallo a dire alla Ghirardo.
È da notare che con il termine «podere» – che propriamente significherebbe solo l’insieme dell’appezzamento di terreno messo a coltura – si è qui denominato particolarmente, fin dall’inizio della colonizzazione, il corpo di fabbrica del casale. In realtà neanche l’intero corpo e tutti i fabbricati, ma la sola casa di abitazione: «Tacà al podere ghe xè la stala». Probabilmente il traslato è dovuto, in via originaria, al forte impatto emotivo e simbolico operato dalla grande scritta in rilievo che era posta sulla facciata di ogni casale: «O.N.C. – ANNO X E.F. – PODERE N. 576» (E.F. sta per Era Fascista e il numero del podere, evidentemente, cambiava di caso in caso). È quel «Podere» scritto sopra la casa, che porta a chiamare la casa «podere».
In ogni modo questi poderi erano posti a coppia, sulla strada; e ogni 250 metri, mediamente, ce ne era una coppia. Nel raggio di 500 metri quindi, almeno sei famiglie. E non famiglie d’adesso, ma quelle dell’Onc, con almeno quindici o venti persone l’una. Nel raggio di un chilometro fanno dieci famiglie: tra le cento e le duecento persone. Certo non erano le Bahamas: «Quando son rivà, credeva de morìr: ma qui ghe xè il deserto, agò dito», raccontava nonna Zago, la nonna di mia moglie. Non c’era un albero in giro, per chilometri e chilometri. Solo ste piantine d’eucalyptus appena messe – sulla strada – alte nemmeno un metro. Ma la socializzazione l’hanno fatta subito. I veneti. Ma pure gli eucalyptus.
Innanzitutto non furono portati giù a casaccio. L’Opera – insieme naturalmente al Commissariato per le migrazioni interne, col quale avrà negli anni rapporti via via sempre più burrascosi che contribuiranno non poco alla «cacciata» di Cencelli – pretese che le famiglie venissero selezionate accuratamente; anche se la cosa non sempre accadde. Nella loro allocazione fu tenuto conto dei posti di provenienza – sulla via Santa Croce per esempio, dove abito, erano tutti trevisani – e se anche è rara la vicinanza di famiglie che avessero già intrattenuto precedentemente rapporti tra di loro, in ogni caso era garantita una certa omogeneità. E li facevano partire ed arrivare tutti insieme, a scaglioni. Li concentravano per area di provenienza nelle singole stazioni, dove c’erano i banchi ristoro dei Fasci femminili. Li mettevano sullo stesso treno – armi, bagagli, masserizie ed animali – e li portavano a Cisterna, o a Littoria Scalo, o Terracina. Partivano la sera e arrivavano la mattina. E già in treno facevano conoscenza. All’arrivo ritrovavano il Fascio femminile coi banconi del caffelatte, della polenta e della grappa. Li caricavano sui camion e li scaricavano nei poderi: una famiglia alla volta, alla mano, man mano che arrivavano sui poderi. Sono partiti ed arrivati assieme. In mezzo al deserto, come diceva nonna Zago. Per colonizzarlo. E questo partire ed arrivare assieme non ti sembra proprio, già da solo, un bel «rito fondante»? Non ti ricorda – che ne so? – una cosa chiamata Mayflower? E comunque tutti, ma proprio tutti, raccontano che la prima cosa che hanno fatto – dopo avere scaricato le masserizie, guardato in ogni angolo il loro nuovo podere, perlustrata la terra e sistemati i letti e le brande – la prima cosa che hanno fatto è stata andare in giro per il resto dei poderi a vedere come s’erano sistemati tutti gli altri Pilgrim Fathers come loro. […]
Fin da subito i nuovi coloni hanno cominciato a scambiarsi le giornate e i mezzi agricoli. Lavori come la mietitura – ma anche il diserbaggio del grano, con la zappa – la raccolta del cotone quando s’è piantato e soprattutto della barbabietola da zucchero, si sono sempre fatti assieme. Prima si andava tutti in un podere – tutte le famiglie – e poi si passava in quell’altro. Fino a ieri, fino a meccanizzazione avanzata. Fino ad oggi, si può dire, che il grano e le barbabietole nessuno li mette più e si fa tutto a macchina. Ma ancora oggi la raccolta del kiwi si fa insieme – e la vendemmia – e prosegue, costante, lo scambio gratuito delle giornate e dei mezzi meccanici. No socializzazione? Ma vai a vedere tutta questa gente in fila che canta, ciàcola e cava le bietole.
Poi s’erano portati dal Veneto la tradizione del filò, cioè quella di riunirsi tutti a sera, dopo cena, in un podere – ora uno, ora l’altro – a raccontarsi le fòle e roba varia al lume di candela o di petrolio: d’inverno in stalla, assieme alle bestie perché ci faceva più caldo; d’estate in strada, seduti sulle spallette dei ponti in pietra viva con cordolo di cemento che ancora punteggiano il panorama. Questo rito tradizionale veneto del filò si è immediatamente esteso – in tutta la sua forza aggregativa – anche a quelli che al paese loro non l’avevano, abitando, in Emilia o Friuli, raggruppati nei piccoli centri urbani. Al filò si aggiunge – come ulteriore e forte rito integrativo-aggregativo – il ballo sull’aia.
Anche il ballo inteso in senso stretto – consuetudinario, relazionale e di pura espressione artistica – non è un portato di tutte e tre le regioni di provenienza (Veneto, Friuli e Ferrarese), appartenendo in origine ai soli ferraresi. Ma in Agro Pontino si estende immediatamente all’intera nuova comunità «veneto-pontina» e si qualifica – insieme all’uso della bicicletta anche da parte delle donne, con la conseguente messa in mostra di porzioni di gambe assolutamente fino allora mai viste da queste parti – come segno «morale» distintivo dalle popolazioni autoctone. I lepini chiamano tuttora i veneti «cispadani» o «polentoni», venendone richiamati «marocchini». Tuttora. Per gli abitanti dei Lepini le donne dei veneti sono un po’ puttane, sia perché vanno in bicicletta mostrando le gambe sia perché, a Sezze, se fai un giro di ballo una volta con una, poi te la devi sposare. Queste invece ballano con tutti e i loro maschi – «Sti cispadani becchi» – non dicono niente. Così non sono infrequenti – nei balli più grossi nelle sale, nelle feste e nelle trebbiature, specie nei borghi «di margine» – fraintendimenti che portano a risse, anche con coltellate, tra le due «etnie». Prassi che si è consolidata e protratta fino a tutti gli anni Settanta. Al «Milleluci» di Borgo Podgora ogni sabato erano scazzottate e qualche volta pure schioppettate, come peraltro a Borgo Grappa, Pasubio eccetera. Questo non significa che non si instaureranno gradualmente rapporti di convivenza: i matrimoni misti – che ne sono il primo e più importante segno – inizieranno già a meno di una decina d’anni dalla colonizzazione, già negli anni Quaranta. Ma manterranno sempre caratteri di tipo «imperialistico».
La prima fase di questi matrimoni difatti – fino a tutti gli anni Sessanta – si svolge rigorosamente a senso unico: è il maschio veneto che sposa la donna dei Lepini e la porta a vivere in pianura, nel podere. Qui lei impara a parlare in veneto – in dialetto quindi, non in italiano – e parla soltanto quello. Deve letteralmente dismettere o dimenticare – come mia zia Edilia che veniva da Norma o mia suocera da Itri – il dialetto del suo paese. Eppure non basta.
Nella tassonomia della superfamiglia di tipo patriarcale del podere, per esempio, l’ultima nuora che entra in casa non ha nome proprio: ella si chiama semplicemente «la sposa» o «Sposa», e quando qualcuno del podere va al Borgo e si mette a fare quattro chiacchiere, la gente gli chiede sempre: «Come stàla la sposa?». Riprenderà a chiamarsi con il suo vero nome proprio – Rosa, Maria o Elisabetta – solo quando, grazie ad un nuovo matrimonio, entrerà in podere una nuora nuova. Ma se questa non arriva e non si sposa più nessuno, lei si chiamerà «Sposa» per tutta la vita e fino dopo la morte. Solo di mia suocera o di mia zia Edilia – o delle altre indigene venetizzate come loro, anche dopo che avrebbero potuto laurearsi in Filologia veneto-arcaica – la gente del Borgo chiedeva: «Come stàla la marochìna?». A mia suocera ancora rode perché il termine, evidentemente, non implicava connotazioni di tipo estremamente laudativo. |