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La modernità si è scordata che il tempo delle vere esperienze umane è sempre qualitativo

di Francesco Lamendola - 26/09/2008

 

 

Stamattima parlavamo con una signora che pensa di mandare suo figlio diciassettenne all'estero per un anno, con un programma di scambi culturali internazionali, «per imparare bene l'inglese e per capire che al mondo ci sono tante cose diverse da quelle che si vedono in Italia, compresa la possibilità di trovarsi un posto di lavoro in qualche nazione straniera».

Il bello è che il ragazzo non è affatto d'accordo; e, quanto a cercarsi - un domani - un posto di lavoro all'estern, non ci pensa proprio, perché ama l'Italia e dice che meglio di come sta nel nostro Paese, non potrebbe stare.

Apriti cielo! Come si fa ad essere ancora così legati alla casa, alla mamma e alla tradizione? Così sedentari, così rinuciatari, così obsoleti?

Così, sono spesso proprio gli adulti a trasmettere ai ragazzi d'oggi il messaggio che essere «moderni» vuol dire essere cosmopoliti; spostarsi come pacchi da un luogo all'altro, inseguendo le leggi dell'economia; non sentire alcuno speciale legame con la propria terra, ma andare e fermarsi là dove il mercato lo richiede, con una sana ambizione personale e una forte curiosità di vedere e sperimentare cose nuove.

Inoltre, quella signora sosteneva che, per capire qualcosa del mondo, è necessario viaggiare, fare molte esperienze, vedere altre culture e altri modi di vita; pena, rimanere confinati nei limiti angusti di un soffocante provincialismo. E sosteneva che ciò è tanto più necessario oggi, quando tutte le società si vanno aprendo le une alle altre, e il mondo(ecco la parola magica!) si va inarrestabilmente globalizzando.

Un ragionamento politicamente corretto, non c'è che dire, e con alcuni elementi di indubbia, incontestabile  verità.

Ma è tutta la verità, o solo una parte?

Procediamo con ordine.

 

Certo, per trovare lavoro è necessario essere disposti a spostarsi; ma non necessariamente all'estero. Inoltre, una cosa è essere costretti dalle circostanze a lasciare la propria terra; e un'altra, e ben diversa, partire senza neanche aver cercato una soluzione alternativa, perché non si vuol dire che il vero obiettivo è proprio quello di andarsene, a qualunque costo.

Poi, bisogna vedere che tipo di lavori si cerca. Se si dà per scontato che bisogna fare come minimo l'ingegnere aeronautico o il primario d'ospedale, è quasi certo che le opportunità non si presenteranno dietro l'angolo della strada. Ma, se si ha davvero voglia di lavorare e non si teme di fare la gavetta, allora è abbastanza probabile che qualche cosa si troverà, almeno temporaneamente,  senza andare a finirla chissà dove.

Almeno nel Nord Italia, dove viviamo, la situazione è questa: il lavoro c'è, per chi abbia voglia di rimboccarsi le maniche; basta sapersi adattare. Ma se il neodiplomato o il neolaureato pretendono di avere subito un posto di alto prestigio, allora è un altro discorso.

La terza cosa su cui un giovane deve riflettere, prima di considerare inevitabile il fatto di espatriare in cerca di un lavoro (dato che oggi non emigrano i minatori, come un secolo fa, ma i «cervelli», con gran gioia degli Stati Uniti e di altri Paesi che se li vedono arrivare, senza aver speso un dollaro per formarli), è che prima ci si deve chiarire le idee su cosa si vuol fare della propria vita, poi si va in cerca di un lavoro.

In proposito, ci sono due scuole di pensiero: una secondo la quale si lavora per vivere; l'altra, secondo la quale si vive per lavorare. È questione di opinioni, dunque.

Oggi prevale la seconda tesi, perciò si insegna ai ragazzi che un posto di lavoro prestigioso e ben pagato è ciò che rende la vita degna di essere vissuta; e che, per conseguire un sì nobile obiettivo, nessun sacrificio è troppo grande: neanche quello di recidere le proprie radici e di divenire dei mercenari senza patria e senza ideali.

Per carità, dei mercenari di prima categoria, dei mercenari di successo: ma pur sempre dei mercenari. Cioè, in ultima analisi, degli ingrati.

La terra che ci ha messi al mondo, che ci ha dato una famiglia e un tetto sopra la testa; che ci ha messo un piatto caldo sulla tavola ogni giorno, e magari anche un sorriso; che ci ha dato la lingua, gli affetti, il calore dell'infanzia e della giovinezza, forse non merita di essere trattata come una vecchia stracciona di cui vergognarsi e dalla quale fuggire appena possibile, anzi, evadere, come se per noi fosse stata un carcere.

È quello che stanno facendo, oggi, milioni e milioni di persone, in tre quarti del nostro pianeta. Solo che, mentre un giovane del Senegal o del Bangla Desh ha delle ragioni oggettive per tagliare i legami con la propria terra e tentare la grande avventura della sopravvivenza all'altro capo del mondo, un giovane della Romania o dell'Albania ne ha molte, ma molte di meno; e un giovane del Nord Italia ne ha - in linea generale - pochissime, per non dire nessuna.

Chi si vergogna di sua madre, specialmente se è vecchia, curva e piena di rughe, non è un uomo, ma un verme; e chi disprezza la propria terra e non vede l'ora di scapparsene via, non è altro che un ingrato e un immaturo. Una persona da niente, e che non vale niente. Anche se farà carriera, anche se avrà successo e potrà permettersi di dare mille agi a sua moglie e ai suoi figli.

Così, tra la smania di andarsene dei nostri giovani e la smania di prendere il loro posto di infiniti giovani stranieri, fra una generazione o due l'Italia non sarà più l'Italia, l'Europa non sarà più l'Europa; e saremo stati noi tutti ad averla assassinata, in nome del «sacro egoismo» di milioni e milioni di individualisti di massa, tutti protesi a realizzare il proprio minuscolo angolino di «successo».

 

Ma torniamo al punto centrale della questione.

Che non è riconducibile all'alternativa secca fra restare (e dare il proprio contributo a migliorare le cose) e partire (portando il proprio bagaglio di idee, competenze e capacità a casa di chi ne ha già in sovrabbondanza, buttando altra acqua sul bagnato), bensì alla domanda che abbiamo formulato poc'anzi circa il senso che ciascuno intende dare alla propria vita.

Si tratta di fare delle scelte, che siano il più possibile chiare e coerenti.

Noi, da buoni «conservatori» politicamente scorretti, abbiamo l'ardire di pensare che si lavora per vivere; e che il lavoro, quindi, è importante nella misura in cui ci consente di risolvere il problema della sopravvivenza; ma che sarebbe una vera aberrazione ridurci ad essere schiavi di una divinità chiamata successo sociale, la quale si serve della religione del lavoro per perseguire i suoi fini di ambizione e di arrivismo.

Abbiamo il massimo rispetto per il lavoro: per tutti quelli socialmente utili (escludendo, quindi, tutte quelle forme di parassitismo sociale che oggi vanno per la maggiore: dal calciatore professionista alla «velina» televisiva, dall'agente di borsa allo specialista di tecnica pubblicitaria al soldo di qualche grossa società industriale o finanziaria).

 

Il nonno, che era fornaio, si alzava alle quattro del mattino per impastare il pane, quando fuori era buio pesto e il mondo giaceva ancora addormentato.

Alle quattro del mattino, sei giorni la settimana, con precisione cronometrica, scendeva le scale coi suoi piedi piatti per mettersi al lavoro; e, quel pane, lo faceva con amore e con profondo senso di giustizia.

Sì, di giustizia.

Una volta - si era nel pieno della guerra, e la nostra provincia era stata annessa, di fatto, al «grande Reich millenario», ebbe l'ardire di tener testa a un ufficiale nazista che voleva requisire per le truppe germaniche anche il pane bianco destinato ai malati dell'ospedale cittadino.

Un gesto che avrebbe potuto costargli la deportazione a Mathausen, e dal quale non avrebbe ricavato nulla di nulla. Ma quel pane lo aveva fatto per i malati, e ai malati doveva andare; e, alla fine, la spuntò lui.

Abbiamo, giova ripeterlo, il massimo rispetto per il lavoro; e crediamo, anzi, che ogni lavoro dovrebbe essere fatto con entusiasmo, con gioia, con gratitudine, con amore e con profondo senso di giustizia. Però, non lo divinizziamo.

Il lavoro serve per vivere, e non la vita per lavorare.

Ci sono cose più importanti, nella vita.

Prima fra tutte, capire quel che siamo; quale sia la nostra vocazione; che cosa noi possiamo fare per il mondo, e in che modo possiamo renderci degni del progetto armonioso cui l'Essere ci ha chiamati a collaborare.

Non è importante poter esibire i vestiti firmati e il macchinone ultimo modello; ma potersi guardare allo specchio, la mattina, senza aver voglia di sputarsi in faccia; o di voltare la testa dall'altra parte, perché non si riesce a sostenere il proprio stesso sguardo.

Ogni volta che anteponiamo le ragioni del successo mondano alle occasioni di evoluzione spirituale che la vita ci offre, noi compiamo un vero e proprio tradimento nei confronti di noi stessi; un tradimento che poi, forse, non saremo più in grado di perdonarci.

Tradire la propria vocazione, la propria chiamata, la lealtà e l'onestà dovuta a noi stessi, prima ancora che agli altri, è come tradire la propria madre. E chi tradisce la propria madre, specialmente se non è più giovane e bella come lo era da giovane, non è nemmeno degno di essere chiamato uomo.

È  solamente un verme.

 

Ci sembra ancora di sentirli, i passi del nonno sulle scale.

Quando il campanile della chiesa batte le quattro, nel gran silenzio della notte che ancora indugia sulle cose: ecco, quella è l'ora del nonno.

Il nonno che, come tutti i friulani, aveva un po' la religione del lavoro; ma che non aveva permesso a quella religione di disumanizzarlo. Perché, dopo una faticosissima giornata di lavoro, trovava sempre un po' di tempo da dedicare alle sue quattro figlie.

Ecco, questo è importante capire: che, pur nei ritmi frenetici imposti - sovente - dalla vita moderna, noi restiamo pur sempre padroni della misura qualitativa del nostro tempo. Proprio per questo possiamo dire «il nostro tempo» e non, semplicemente, «il tempo». Il tempo qualitativo è sempre nostro, per quanto breve possa apparire, se misurato sulle lancette dell'orologio. Quello su cui non possiamo far nulla è l'altro tempo, il tempo quantitativo, il tempo quantificato, razionalizzato e monetizzato dai ritmi assurdi della modernità.

Ma non si tratta, a ben guardare, di due tempi diversi e separati; perché il tempo qualitativo può sempre permeare di sé il tempo quantitativo; ma non potrà mai accadere il contrario. Questa è, appunto, la ragione per la quale noi possiamo esercitare una facoltà di scelta sulla nostra vita, a dispetto delle circostanze esteriori; mentre le circostanze esteriori non potranno mai invadere la nostra dimensione più profonda, a meno che noi non lo vogliamo.

Così, bisognerebbe che gli adulti si convincessero che la cosa essenziale non è che i propri figli facciano tante esperienze, ma che ne facciano alcune di veramente buone.

Questo vale per i genitori, ma anche per gli educatori in generale, a qualunque categoria essi appartengono; e un adulto, se lo vuole, può essere sempre un educatore per un bambino o per un giovane; basta che se ne assuma la responsabilità, a partire dai gesti (apparentemente) piccoli della vita quotidiana.

Si tratta, lo ripetiamo, di scegliere; e di avere il coraggio di assumersi le conseguenze delle proprie scelte, senza cercare alibi ipocriti e vili scappatoie.

La società moderna, consumista, materialista e rozzamente economicista, vorrebbe fare dei nostri  bambini e dei nostri giovani non già degli uomini e delle donne, fieri della propria madre, della propria terra e della propria fedeltà ai valori ricevuti o conquistati; ma degli eleganti manichini, o, per parlare più propriamente, dei vermi.

Molti adulti hanno aperto la strada, fornendo loro dei modelli di riferimento che sono la logica espressione di un primato della quantità sulla qualità, dell'avere sull'essere, del contingente sull'assoluto. Molti adulti si sono fatti vermi e invitano i giovani, con osceni sghignazzi, a divenire dei vermi come loro.

Forse, per non sentirsi troppo soli con se stessi allorché, la mattina, mentre si  lavano la faccia, sono costretti a guardarsi nello specchio.

E, in qualche angolino del loro essere più profondo, non restano poi tanto soddisfatti di ciò che si trovano davanti.