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Nulla è cambiato, in Italia, nello spirito di fazione dai tempi di Dante ad oggi

di Francesco Lamendola - 30/09/2008

 

 

Come è noto, Dante colloca gli operatori di frode nei due cerchi più profondi dell'Inferno, l'ottavo e il nono, con questa differenza: che nell'ottavo sono puniti coloro che peccarono contro il prossimo che stava in guarda, nel nono coloro che peccarono contro quanti si fidavano. Questo secondo genere di fraudolenti è, poi, distribuito in quattro zone del fiume (o piuttosto nel lago) ghiacciato del  Cocito: la Caina, ove sono immersi i traditori dei parenti; l'Antenora, destinata ai traditori della patria; la Tolomea, per i traditori degli ospiti; e la Giudecca, per i più nefandi di tutti: i traditori dei propri benefattori.

Ora, è stato osservato che Dante, nel rappresentare i traditori della patria, non riesce a trovare un solo esempio che si addica veramente al concetto etico-politico che avrebbe voluto illustrare: infatti i personaggi che egli vi descrive, ossia i dannati dell'Antenora, non sono propriamente dei traditori della patria, bensì dei traditori della propria fazione. E ciò avviene non perché il quadro politico dell'Italia del suo tempo non offrisse materia al concetto che Dante si proponeva di illustrare, ossia perché in Italia non v'era il modello di patria; perché, se è vero che non esisteva una patria, ne esistevano, però, parecchie: Comuni (in declino) e Signorie (in ascesa). E, specialmente nel caso dei primi, non si può certo dire che il popolo fosse escluso dall'esercizio del potere o dalla partecipazione ad esso.

Il problema era un altro: e cioè che il vero crimine, per gli Italiani del tempo, non era sentito come il tradimento della propria patria (per quanto limitata essa fosse sul piano territoriale), bensì come il tradimento del proprio partito, della propria fazione. Quello, sì, era un delitto che non ammetteva possibilità di remissione.

Prendiamo il caso di Firenze. La vita politica che vi si svolgeva tra la fine del Ducento e l'inizio del Trecento non prevedeva che i cittadini si sentissero legati da un patto morale di fedeltà nei confronti della città in quanto tale, ma solo fino a tanto che essa fosse stata governata dalla propria fazione. Impensabile, ad esempio, per un ghibellino, tradire Firenze quando al governo c'erano i propri compagni di partito; ma perfettamente lecito, e anzi meritorio, tradirla se al governo c'erano i nemici, ossia quelli del partito opposto. E quel che valeva per i Guelfi e i Ghibellini, valeva pure (dopo la cacciata in esilio dei secondi) per i Bianchi e per i Neri.

Non c'era un sentimento di fedeltà alla propria patria; dunque, non c'era nemmeno la percezione di commettere una azione criminale, e moralmente condannabile, allorché la si tradiva, ad esempio chiamando contro di essa lo straniero, purché la propria fazione trionfasse e ritornasse al potere. Il che avvenuto, la prima cosa che sarebbe stata giudicata utile e necessaria, era la cacciata in esilio di tutti gli esponenti della fazione avversa. L'Italia dell'epoca era letteralmente piena di cittadini sbanditi dalla propria patria per motivi politici: una folla piena di rancore e desiderio di rivalsa, che si sarebbe alleata anche col demonio in persona, pur di farsi vendetta e rientrare nella propria città per fare agli altri tutto il male che aveva subito, nell'onore e negli averi.

Dante non faceva eccezione. Ci duole ammetterlo, ma il Dante uomo (se non il Dante poeta) sentiva e pensava esattamente allo stesso modo. È un triste documento quella sua epistola all'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo - sceso in Italia con lo scopo apparente di rimetter pace tra Guelfi e Ghibellini, e con quello effettivo di riportare al potere questi ultimi -, in cui lo istiga a trattare i Fiorentini come cani ribelli, mostrando verso di essi il massimo della severità.

A sentir lui, Firenze è la testa dell'idra del disordine politico italiano, il cuore del mostro dell'anarchia e dello spirito di ribellione; al punto che esorta l'imperatore a trascurare gli avversari minori, Roma compresa, per puntare direttamente contro di essa e schiacciarle la testa, come si fa con i serpenti velenosi. Solo allora l'Italia, a suo parere, ritroverà ordine e pace.

Scrive, infatti, testualmente al sovrano tedesco (Ep. VII, traduzione di Massimo Felisatti, in Dante, opere Latine, Rizzoli, Milano, 1965, pp. 188 sgg.):

 

… ma ci stupiamo che una così lunga inerzia ti faccia indugiare, quando, già da tempo vittorioso nella valle del Po, tuttavia lasci, trascuri, dimentichi la Toscana, quasi che i diritti imperiali da difendere tu pensassi che siano limitarti ai territori della Liguria… (…)

Tu ti fermi l'inverno e la primavera a Milano e pensi in questo modo di uccidere l'idra pestifera tagliandole le sue teste? (…)

O forse ignori, tu che sei il più grande dei principi, e non vedi dall'osservatorio della sua alta cima dove si nasconde la volpe che manda questo fetore, noncurante dei cacciatori?  La scellerata non beve le acque impetuose del Po, né quelle del tuo Tevere, ma il suo grifo si bagna ancora nelle acque del fiume Arno, e questa peste malvagia si chiama, non lo sai?, Firenze. Questa è la vipera che si rivolta contro le viscere della propria madre, questa è la pecora infetta che contamina con la sua presenza il gregge del suo signore… (…)

Orsù, dunque,  rompi gli indugi, prole di Isaia, prendi fiducia dagli occhi del Signore, Dio degli eserciti, in cospetto del quale agisci, e abbatti questo Golia con la fionda della tua sapienza e con la pietra delle tue forze…

 

Si dirà che, agli occhi di Dante, questo invito all'imperatore a marciare contro la sua città non nasceva da spirito partigiano, ma da una suprema esigenza di giustizia; e che solo da una figura super partes egli sperava il ripristino della civile convivenza in un'Italia straziata da mille conflitti civili. Sarà; ma proprio il fatto che un grandissimo uomo come Dante non si accorgesse che la sua generosa illusione altro non era che il paravento ideologico di un esacerbato risentimento di parte, la dice lunga sul sentimento di patria esistente all'epoca.

Ecco perché, nella descrizione dell'Antenora, Dante non riesce a trovare degli esempi veramente adatti al tipo di peccato che egli aveva in mente: perché, nell'Italia di quegli ani, non ce n'erano. Lo ha notato, fra gli altri, l'illustre dantista Manfredi Porena nel suo commento alla Divina Commedia (Zanichelli Editore, Bologna, 1970, vol. 1, p. 298):

 

Intitolando una delle quattro zone di Cocito ad Antenore, il supposto traditore di Troia, Dante mostra di voler considerare tra i vincoli più sacri quelli che legano l'uomo alla patria, e quindi fra i tradimenti più gravi il tradimento della patria. Ma se guariamo ai peccatori che in questa zona ci presenta, essi, salvo Gano, sono tutti traditori  del loro partito, guelfo, o ghibellino, o bianco: tutti, compresi Ugolino e Ruggieri. Dunque praticamente il sentimento politico che aveva le risonanze più vive  nell'animo di Dante e il tradimento politico contro cui egli più si sfoga è quello di parte; e il vincolo che lega l'uomo al proprio partito lo considera più sacro di quello che lo lega ai propri consanguinei, se il tradimento politico si punisce in una zona più nera. E si tratta di partito in quanto partito, a prescindere dagl'ideali che esso potesse proporsi, se il poeta condanna ugualmente traditori dei guelfi e traditori dei ghibellini.

È interessante, se pur doloroso, constatare come certi sentimenti dei tempi siano così prepotenti da non risparmiare  neppure un uomo per tanti rispetti superiore ai suoi tempi, com'era Dante. Il quale, anche nella questione dei partiti, si elevava qualche volta a un più alto ideale. Lo vedremo esaltare in Sorfdello (Purg. VI)  l'amore della città natale, che lo lancia ad abbracciare con impeto d'affetto un estraneo che non sa chi sia, solo perché suo conterraneo; e contrapporre con dolore a questo amore le divisioni partigiane delle città italiane.  E lo sentiremo per bocca di Giustiniano condannare e guelfi e ghibellini.  Ma l'animo comune del tempo finiva col trascinarlo; e la somma di interessi, di passioni, anche di sentimenti talvolta nobili ed eroici che si connettevano alle lotte di partito, finivano per creare degli stati di fatto per cui il traditore del partito appariva uno scellerato: e assai spesso lo era, perché non è già che tradisse il partito in nome d'un ideale superiore.

Certo è che un traditore della patria, nel senso in cui noi lo intendiamo, da accordarsi al nome d'Antenora dato a quella infame regione,  Dante nell'Italia dei suoi tempi non lo ha trovato. E ciò non perché mancasse la capacità di tradire la patria, ma perché una patria come noi la intendiamo, nazionale o comunale, come ente vivo e sentito, non c'era. Non c'era un'Italia politica; le Signorie eran dei signori, non dei popoli; il Comune era un partito al potere, e il cittadino era affezionato o no alla sua città a seconda che in essa reggesse il proprio partito il partito contrario,. Questa condizione di cose Dante viene involontariamente a rispecchiare nell'Antenora. Non poteva, nel mostrarci i peccatori di questa zona, uscire dai suoi tempi (come ne è uscito penando ad Antenore), e mostrarci p. es. una Tarpea? Ma domandarsi le ragioni di quel che Dante non ha fatto è mettersi su una china assai pericolosa, ed è meglio arrestarsi sul limitare!

 

Ora, se dai tempi del padre Dante ritorniamo al presente, e volgiamo lo sguardo sull'Italia contemporanea, non tarderemo a constatare - con raccapriccio - che poco o nulla è cambiato riguardo allo spirito di fazione.

Siamo rimasti fermi alla mentalità dei Guelfi e dei Ghibellini; anzi, se possibile, siamo caduti ancora più in basso. Perché, se certi eccessi di faziosità politica erano talvolta spiegabili (non giustificabili), nell'Italia del Due e Trecento, in termini di passionalità esacerbata, ma sincera, quel che si vede oggi è lo spettacolo più squallido e tristo che si possa immaginare: dove nessuno si batte per un ideale, ancorché discutibile, ma tutti non hanno altra mira che raggiungere e difendere la propria poltrona, sotto qualsiasi bandiera, fosse pure contro il mondo intero. Sono stupefacenti la disinvoltura, o piuttosto il cinismo, con cui i nostri deputati e senatori passano da uno schieramento all'altro, da un partito all'altro, senza mai arrossire neanche un poco.

E non c'è nulla di più deprimente del quotidiano spettacolo, ormai vieto e scontato, dell'opposizione che critica a sangue il governo, qualunque cosa esso faccia, e sia pur giusta e condivisibile; e del governo che spara a zero sull'opposizione, qualunque cosa essa proponga, anche se - guarda caso - ciò potrebbe servire all'interesse collettivo. Non c'è alcun senso del bene comune, perché non c'è alcun senso dello Stato: al di là delle chiacchiere, da questo punto di vista i nostri uomini politici - di destra, di sinistra e di centro - sono tutti perfettamente uguali.

E non c'è alcun senso dello Stato, perché al suo posto ci sono l'interesse di partito e l'interesse personale eretto a sistema. Come spiegare, diversamente, il fatto che il sindaco di una grande città italiana, dopo aver creato un buco astronomico nei conti del proprio comune - al punto di lasciare la cittadinanza a rischio di vedersi tagliati i servizi pubblici essenziali e, nel caso dei dipendenti comunali, perfino gli stipendi -, se ne vada per premio a Roma, in Parlamento, sedendo sui banchi della maggioranza di governo? Eppure, lo abbiamo visto proprio l'altro giorno, in quel di Catania; e nessuno ci ha trovato nulla da ridire.

Il guaio è che di simili esempi ne potremmo fare a dozzine, a centinaia; senza parlare del fatto che qualcuno li dovrà pur ripianare, quei bilanci vertiginosamente in rosso; e chissà mai chi potrebbe essere?

Sì, la classe dirigente italiana è rimasta sempre la stessa, negli ultimi sette od otto secoli: è pur sempre quella dei Guelfi e dei Ghibellini, dei Bianchi e dei Neri; e, se possibile, con una nota di cinismo e sfrontatezza in più, di arroganza e di ribalderia ancora più marcata. Una classe politica che, per ambizione di potere, non che tradire la patria o il partito, non esiterebbe a vendere la propria madre. Una classe politica da azzerare, se si potesse sperare qualcosa di meglio, per il futuro, da quella che ne prenderebbe il posto…

 

Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave senza nocchiero in gran tempesta,

non donna di provincie, ma bordello!