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Il fallimento marxista e la sua eredità nell'epoca della tecnologia

di Francesco Lamendola - 07/02/2006

Fonte: filosofiatv.org


Il marxismo. Il suo fallimento, la sua eredità nell’epoca della tecnologia. Questi gli argomenti di questa sera. Mica poco! Sarei un pazzo se pensassi di poter esaurire una triplice problematica così impegnativa nel breve spazio di un’ora o poco più. Come fare per non cadere nella banalità, nella genericità di una paginetta di Bignami? L’argomento è sin troppo serio. La caduta del muro di Berlino nel novembre '89, le immagini dei corpi di Nicolae ed Elena Ceausescu, fucilati in dicembre, Gorbaciov che annuncia in televisione lo scioglimento dell’URSS, il giorno di Natale 1991. Tutto ciò ha rappresentato un trauma generazionale di portata incalcolabile. Un’intera generazione ha visto crollare i suoi sogni , anche se il crollo, naturalmente, era cominciato molto, ma molto prima di quel triste Natale del '91. Ma quanti avevano avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà?
C’è un racconto di  Leonardo Sciascia, La morte di Stalin, nel libro Gli zii di Sicilia, che parla di un ciabattino siciliano, Calogero Schirò, militante comunista, e perciò perseguitato durante il fascismo, che ha per Stalin un culto quasi mistico. Stalin è buono; Stalin vuol bene ai lavoratori di tutto il mondo; Stalin è furbo, ha un cervello che pensa per mille; Stalin è la speranza del futuro, il riscatto per tutti gli oppressi e i derelitti. I bruschi «contrordine, compagni» del PCI di allora, e del PCUS, lo mettono in crisi, perché ha una profonda coscienza morale - ma per poco. Stalin pensa sempre a tutto. Lui sa bene quello che sta facendo. Per esempio, quando il prete lo va a trovare in bottega, nel settembre 1939, e lo sfida a trarre le conclusioni dal Patto Molotov – Ribbentrop (cioè che i nazisti e i sovietici sono della stessa pasta) per Calogero Schirò è un’ora di passione. Ma poi Stalin gli appare in sogno, benevolo, paziente, sorridente, lo consola e gli spiega tutto, chiarisce ogni dubbio:
«Fu così che Calogero Schirò sognò Stalin, e Stalin, in confidenza, gli disse: “Calì – abbreviativo di Calogero – dobbiamo schiacciarlo questo serpe velenoso ( Hitler). Quando sarà il momento, vedrai che stoccata gli caccio”. E Calogero si sentì sereno. Era ormai chiaro come il sole che il colpo dritto Hitler lo avrebbe avuto da Stalin, e al momento giusto».
Quanti milioni di Calogero Schirò ci furono nel mondo tra il 1917 e il 1991? Per non parlare di quelli che sopravvivono ancora oggi – come i soldati giapponesi nella giungla, che rifiutarono di arrendersi. Ecco, questa domanda ci porta direttamente al cuore di uno dei due aspetti del problema che vorrei  mettere a fuoco questa sera. 
Il marxismo è stato una religione, o un potente surrogato della religione e,  più precisamente una religione soteriologica ( dal greco soter = salvatore), cioè una religione di salvezza, religione tipica  delle società in crisi, delle epoche di trapasso , quando prevale l’angoscia esistenziale ( per la categoria storiografica dell’angoscia esistenziale si veda, per esempio, il bellissimo saggio di Eric Dodds: Pagani e Cristiani in un’epoca di angoscia. Aspetti dell’esperienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, edito dalla Nuova Italia, 1970, e, originariamente, a Cambridge nel 1963). A questo punto mi sento in dovere , di dare, sia pure approssimativamente, una mia definizione di religione. La definirei così: un sistema di credenze, esaustivo e coerente, che svolge la funzione di raccogliere e incanalare l’eterna aspirazione umana al trascendente, all’assoluto. Si noti che il concetto di divinità, contrariamente a quello che potrebbe sembrare di primo acchito, non è essenziale  alla religione. Il caso del Buddhismo in modo particolare , ma anche in parte del Confucianesimo e, soprattutto, del Taoismo, lo dimostrano. Naturalmente bisognerebbe distinguere tra filosofia buddhista e religione buddhista, ma la distinzione ci porterebbe troppo lontano. L’altra direzione di ricerca, sulla quale vorrei riflettere con voi, è l’interpretazione del marxismo come subcultura del liberalismo, come fratello minore, come ideologia complementare al liberalismo. Queste, naturalmente, sono solo due delle  infinite possibili chiavi di lettura del marxismo e del suo esito fallimentare. Perché ho scelto queste? Ho scelto queste due semplicemente per circoscrivere il campo dell’indagine  entro limiti ragionevoli e perché, personalmente, le ritengo feconde di ulteriori sviluppi  e suscettibili di spiegare molti aspetti del marxismo come fenomeno storico. Certo non esauriscono il campo della ricerca. Ritengo che lo storico, e specialmente lo storico della filosofia, dovrebbe acquisire in parte la metodologia di approccio del fisico. Per  spiegare la natura della luce, ad esempio, né la teoria corpuscolare, né quella ondulatoria appaiono, prese separatamente, del tutto soddisfacenti perché non riescono a spiegare determinate classi di fenomeni. Ma le due teorie, integrate l’una con l’altra, offrono una coerente interpretazione  del fenomeno luminoso. Le nostre due chiavi interpretative del fenomeno marxista sono ben suscettibili di integrazioni, non pretendono assolutamente di essere esaustive; soprattutto, è necessario accingersi al lavoro senza amore e senza odio, accogliendo l’invito spinoziano del prof. Cutuli, in una sua precedente conferenza di questo stesso ciclo: nec ridere nec lugere, perché, giusta l’ipotesi religiosa del marxismo, questo argomento si presenta carico di pathos, di emotività, di coinvolgimento viscerale. Partiamo allora dalla prima delle due chiavi di lettura.
Abbiamo detto che il marxismo è stato il surrogato di una religione soteriologica, con una propria etica, una propria escatologia, ecc., e questo non solo nella sua tarda fase della vulgata staliniana, come per Calogero Schirò, ma subito, fin dall’inizio; e non solo per le vecchiette, cioè per le masse poco istruite, ma  anche per generazioni di intellettuali, più o meno dogmatici (Togliatti ), più  o meno gesuiti (come è stato definito Lukács), più o meno eretici o in odore di eresia (Gramsci), più o meno scomunicati (Trotzkij). E’ chiaro, comunque, che il processo si è accentuato dopo il  passaggio da fede a religione, e dopo la nascita di una chiesa universale, il Comintern. Ora desideriamo approfondire il concetto  e precisare che tipo di pseudoreligione è stato il marxismo.
A me pare che esso sia stato un’eresia del Cristianesimo. Diciamo meglio: un’eresia secolarizzata del Cristianesimo tardo. In questo senso esso presenta tratti non secondari di millenarismo che riconducono alle sue origini liberali e, precisamente, alla sinistra hegeliana, e che lo riaccostano ai movimenti utopici ed egualitari che attraversano la storia dell’Occidente, venati di messianismo apocalittico: i Montanisti, i Patarini, i Catari, i Dolciniani, i Lollardi, gli Hussiti, gli Anabattisti, i Puritani, ecc…
Si noti il fatto che il marxismo, che si è autodefinito “comunismo scientifico” proprio per rimarcare la distanza dalle varie forme, a dire di Marx, di comunismo utopistico, tradisce un’origine comune con l’aspettazione millenaristica della liberazione escatologica: per Hegel il trionfo finale dello Spirito Assoluto, per Marx la società senza classi e senza stato  del comunismo realizzato. Una parentesi: molti storici, poco dotati di spirito critico, hanno accertato tout court l’autoreferenzialità insita nella definizione di socialismo scientifico, così come geografi un po’ servi hanno accettato per buona la categoria sovietico per definire il cittadino dell’Unione Sovietica, avallando un’inconcepibile confusione tra il concetto di popolo, in questo caso russo, ucraino, armeno, uzbeco, lituano, e quello di forma di governo. Ma neanche Hitler era arrivato al punto di  pretendere che i cittadini del Terzo Reich fossero definiti nazisti, piuttosto che tedeschi… Ora cerchiamo di motivare le nostre affermazioni, in particolare che il marxismo è stato un’eresia secolarizzata del tardo cristianesimo. Tutta la storia del cristianesimo, dal primo diffondersi su su, lungo tutta la sua evoluzione, fino al lazzarettismo del monte Amiata – non so se avete presente la figura del riformatore Davide Lazzaretti, che predicava un cristianesimo comunista e che fu ucciso a freddo dalla forza pubblica, dai carabinieri, nel 1878; oppure nel caso degli Stati Uniti d’America dove si hanno le numerose sette fondamentaliste e apocalittiche tipo i Davidiani; ricorderete i Davidiani perché il loro nome è legato a tragici, sanguinosi fatti di cronaca  abbastanza recenti negli Stati Uniti d’America – si intreccia con quella delle eresie che rampollano dal suo seno, come il monofisismo, o che si ricollegano sincretisticamente con culti già esistenti – Manicheismo, Gnosticismo. Tutte, più o meno, a volte anche in maniera quasi esplicita, come nel caso dei Donatisti e dei Circumcellioni nel Nord Africa del tardo impero romano, sono innervate di istanze sociali, per lo più a sfondo egualitario, pauperistico e comunistico; e questo tanto più quanto più la Chiesa, diciamo ufficiale, tende ad allontanarsi dal messaggio evangelico originario. Anzi, possiamo considerare la maggior parte dei movimenti ereticali  del passato come la mascheratura religiosa di proteste sociali ed economiche che, per esempio nel Dolcinianesimo, il movimento di Fra Dolcino ai primi del Trecento, nel Nord Italia,  raggiunsero il culmine della coerenza e della forza eversiva. Viceversa, in alcuni aspetti della rivoluzione contadina in Germania del 1525 si possono cogliere aspetti di protesta religiosa , ad esempio nel movimento sudtirolese di Michael Gaismayr,  ma anche nel pensiero dello stesso Thomas Müntzer. Dietro i contadini in rivolta si intravede la libera interpretazione luterana del Vangelo. Sicché nella storia dell’Occidente, talvolta è la rivolta sociale che si ammanta di una vernice religiosa, altre volte è la religione che parla il linguaggio della protesta politico-sociale. Comunque, fino al secolo XVIII il cristianesimo è sempre riuscito a riassorbire i movimenti potenzialmente ereticali (pensiamo al movimento francescano) o a reprimere, con l’aiuto del braccio secolare, le eresie non recuperabili. Nel Settecento, sotto la duplice sfida da un lato della rivoluzione industriale e dei suoi devastanti contraccolpi sul tessuto sociale – la nascita del proletariato moderno – e, dall’altro, del venir meno dell’aiuto del potere statale, per la prima volta nella sua storia quasi bimillenaria, il cristianesimo appare spiazzato rispetto all’evoluzione economico sociale e palesemente in difficoltà nel generare risposte in grado di riassorbire le spinte centrifughe. (Uso qui il concetto di sfida/risposta, challenge/response nel senso che gli dà lo storico inglese A. J. Toynbee, autore di un classico della filosofia della storia, Civiltà al paragone; Toynbee è un po’ l’anti-Spengler: laddove Spengler sostiene, ne Il tramonto dell’Occidente, che la civiltà occidentale è destinata a un tramonto irrimediabile, Toynbee, dopo aver esaminato tutte le civiltà della storia del mondo, giunto alla civiltà occidentale, sostiene che ci sono ancora motivi di speranza). Nel 1700  si hanno i sintomi di un’incapacità del cristianesimo e delle chiese cristiane di far fronte a una sfida di carattere sociale senza precedenti . Si hanno le prime avvisaglie di ciò, nel continente  europeo, con la Rivoluzione Francese, all’interno della quale gli Enragés, l’estrema sinistra del movimento sanculotto, operano il primo radicale tentativo di scristianizzazione. Robespierre, che non condivide la politica scristianizzatrice, perché vi vede l’anticamera dell’ateismo (e Robespierre, da buon discepolo di Rosseau, è un convinto deista), cerca di correre ai ripari inventando una nuova religione: il culto dell’Essere Supremo, ragione forse non ultima della sua caduta. Egli afferma testualmente, davanti alla Convenzione:
«Del resto, colui che potesse trovare nel sistema sociale un surrogato alla divinità mi apparirebbe un prodigio di genio».
Ebbene, giusta l’interpretazione di Romolo Gobbi nel suo libro Figli dell’apocalisse, Rizzoli, 1993, questo genio fu Karl Marx, con l’aiuto di F.Engels. Egli vide che in quel momento all’enormità e alla drammaticità della questione operaia nessuna forza istituzionale sapeva o poteva  dare una risposta adeguata. Non lo stato, che identificava i suoi interessi con quelli della classe capitalista, non le varie chiese, che dai tempi di San Paolo, (quelle cattoliche) e di Lutero (quelle protestanti) predicavano la rassegnazione davanti ai legittimi poteri costituiti. Ricordiamo, ad esempio, la posizione di Lutero in occasione della grande guerra contadina del 1525, una posizione di condanna spietata, senza appello, al punto da esortare i principi tedeschi a massacrare, a sterminare i contadini ribelli.
Si badi che Marx  in gioventù, non che essere un comunista scientifico, non era  neppure un comunista; anzi, per dirla tutta, era  francamente un anticomunista. Nel 1842, quand’era direttore della Gazzetta Renana, quindi sei anni prima di firmare con l’amico Engels il Manifesto del Partito      comunista, scriveva senza troppi preamboli:
  «La Rheinische Zeitung, che  non può concedere alle idee comuniste nella loro forma attuale neppure una realtà teorica, e, quindi, ancor meno può desiderare o anche, soltanto, ritenere possibile la loro pratica attuazione, sottoporrà queste idee ad una critica radicale. Noi siamo fermamente convinti – dice Marx – che non il tentativo pratico ma l’elaborazione teorica delle idee comuniste costituisce il vero pericolo, poiché ai tentativi pratici si può rispondere coi cannoni, appena divengono pericolosi; mentre le idee, raggiunte dalla nostra intelligenza, conquistate dal nostro costume morale, idee sulle quali l’intelletto ha temprato la nostra coscienza,  sono catene da cui non è possibile strapparsi senza lacerarsi il cuore, sono demoni che l’uomo può vincere solo a patto di sottomettersi».
Brano significativo, perché da esso si evince che Marx lamenta il fatto che con le cannonate, purtroppo, non si possa distruggere il comunismo perché esso è qualcosa di molto più pericoloso, qualcosa che inquina la mente. Teniamo da conto questo concetto dell’intolleranza militaresca insita nella mentalità di Marx ancora prima che diventasse marxista e andiamo avanti, riservandoci di tornare a riflettere su questo punto. Ho citato questo brano, comunque, non per il puerile piacere di screditare la coerenza del pensiero marxiano. Convertirsi è un diritto incontestabile: San Paolo, il grande convertito, ha trasformato il cristianesimo in una religione universale di salvezza, fermandosi, però, davanti  al passo estremo, ma logicamente inevitabile, di negare la Legge a favore della Grazia, l’antico Testamento a favore del Nuovo. Coraggio concettuale che ebbe, invece, Marcione, per il quale  il Dio misericordioso del Vangelo cancellava per sempre il terribile, «giusto» e, perciò, vendicativo Javhè. San Paolo non ebbe il coraggio di rompere con l’Antico Testamento. E questo spiega il carattere misto, ibrido, irrisolto del cristianesimo come religione storica, sospeso a metà strada tra particolarismo giudaico e apertura universalistica. Tornando a Marx, Marx ebbe il coraggio dell’eresia marcionita. In che senso? Abolì il Vecchio Testamento comunista dei Fourier, dei Saint Simon, dei Proudhon – e il suo astio cresce in misura proporzionale alla loro contiguità temporale, è massimo nei confronti di Proudhon (l’astio di Marx per Proudhon! Le parole cattive, velenose con cui si scaglia contro questo autore!) – e proclamò che il capitale è via necessaria e sufficiente alla salvezza, cioè alla vittoria finale del proletariato. Quando, con la Rivoluzione di Ottobre, nasce la chiesa mondiale comunista, il Comintern, qualche altro fra i testi sacri venne aggiunto a completare il Vangelo marxista, i testi di Lenin e di Stalin. La loro autorità, morale e «scientifica», è tale che vengono continuamente citati, stile ipse dixit, nei campi più svariati dagli autori marxisti di quegli anni, dalla morale, all’economia, alla storia antica; dal diritto all’antropologia, alla filosofia, perfino alla biologia .
Mi viene in mente il caso dello storico russo Kovaliov che, nella sua Storia di Roma (è uno studioso di storia antica, per altro uno storico di  un certo valore) cita con la massima indifferenza ora Tacito ora Stalin, ora un brano di Tito Livio, ora un discorso di Stalin nel tale congresso del partito comunista russo: e questo con la massima naturalezza, come una cosa storiograficamente corretta e normale .
Con Stalin il processo di formazione del Nuovo Testamento marxista è completato. E, come per tutti i libri sacri, qualunque ulteriore aggiunta viene respinta in quanto apocrifa, perché la rivelazione è terminata. Viceversa, alcuni testi prima ritenuti canonici cadono in sospetto e scivolano al ruolo di deuterocanonici. La loro validità diventa sostanzialmente questione marginale. In questo limbo finiscono Rosa Luxemburg, Anton Pannekoek e molti altri. Alcuni autori, potenzialmente destabilizzanti, vengono recuperati mediante la leggenda agiografica e possibilmente mediante il martirologio. In questo senso Che Guevara sta a San Francesco come Innocenzo III sta a Fidel Castro, si intende mutatis mutandis. Cosa voglio dire? Che come Che Guevara  ha permesso al castrismo di dare a credere ancora per molti anni di essere un regime progressista e non una chiusa dittatura – perché la figura bella, generosa, eroica di Che Guevara ha avuto una presa enorme, come sappiamo, soprattutto tra i giovani, una figura di un idealista, indubbiamente – così San Francesco ha permesso alla Chiesa gerarchica, corrotta, prepotente di Innocenzo III di farsi una bella foglia di fico di verginità, di pseudorinnovamento e poter dare a intendere di essere ancora  qualcosa di fresco e di adeguato ai tempi. Ma le eresie nel marxismo hanno sempre avuto una forza  dirompente. Pur di stroncare l’eresia anarchica, Marx non aveva esitato a trasferire a New York la sede della Prima Internazionale, decretandone di fatto la morte. Lui si è limitato a questo. I suoi successori, Lenin e Stalin non si sono limitati a questo nei confronti degli anarchici. Li hanno imprigionati e fucilati a migliaia. Ricordiamo un caso per tutti, un episodio abbastanza celebre. Barcellona, 1937: durante la Guerra Civile spagnola, per ordine di Stalin,  vengono arrestati e fucilati centinaia di anarchici spagnoli. Ciò è raccontato, tra l’altro, dallo scrittore Orwell , quello di 1984, nel suo bel libro Omaggio alla Catalogna. Del resto, per uno come Stalin, che ha decretato  la morte di circa otto milioni di suoi connazionali, qualche centinaio di anarchici spagnoli non è che cambiassero molto le cose. Stavo dicendo che Marx non aveva esitato a trasferire a New York la sede della Prima Internazionale pur di eliminare l’eresia anarchica. Pensava, giustamente, che una fede può rinascere dalle proprie ceneri, ma nulla potrà salvarla dalla contaminazione ideologica. Si noti che ideologia per Marx (non per Lenin) ha sempre un’accezione emozionale negativa. Diverso è il caso dell’eresia trotzkista  della rivoluzione permanente. Alla chiesa stalinista, col suo papa, coi suoi dogmi, con la sua santa Inquisizione, l’esistenza di quell’eresia, del trotzkismo cioè, faceva più che comodo: si sarebbe dovuta inventare, diciamo, se non ci fosse stata, perché grazie ad essa era possibile scaricare sul trotzkismo  tutte le responsabilità del malfunzionamento dell’URSS. Ogni volta che un piano quinquennale non funzionava, ogni volta che si notavano pesantezze burocratiche, sprechi e altri fenomeni negativi nell’economia e nell’amministrazione dell’URSS, la colpa era di Trotzkij; le sue spie, alleate dei nazisti, vogliono sabotare la patria dei lavoratori. Si rifletta, a questo proposito, che Stalin fece assassinare Trotzkij solo nel 1940, cioè alla vigilia della resa dei conti con la Germania nazista, cioè nel momento in cui era necessario un fronte unico patriottico religioso – Stalin fece appello perfino ai pope della Chiesa ortodossa russa, quando nel 1941 l’URSS fu aggredita dai nazisti –, mentre prima il fatto che all’estero ci fosse un Trotzkij era più che comodo ai piani di Stalin. Anche qui si veda Orwell, La fattoria degli animali  in cui descrive molto bene la maniera in cui Stalin mise in minoranza Trotzkij  e lo costrinse all’esilio, facendosi avanti da una posizione del tutto secondaria, del tutto marginale. Ma Stalin commise l’errore di forzare a tal segno il culto della personalità da rendere impensabile la distinzione tra contenuto e contenitore, tra il sistema e la figura del suo leader. Con ciò Stalin ha in qualche modo scavato la fossa al marxismo non meno che al regime sovietico. Come si poteva ancora credere, dopo l’avvento di Krusciov, – in quel famoso congresso del partito comunista sovietico in cui Krusciov denunciò, tra lo sbalordimento generale, i crimini di Stalin – in un dio che aveva fallito tanto vistosamente? Che aveva commesso tali e tanti delitti? La storia dell’Unione Sovietica, da allora, non è stata che una lenta agonia. Quanto al marxismo, è sopravvissuto ancora per qualche decennio, come forza morale, solo grazie alle generose iniezioni di terzomondismo e, in particolare, di maoismo e di guevarismo. Accanto alle ragioni economiche, comunque, del resto importantissime, il fallimento del marxismo ha a che fare con la sua dimensione religiosa ed escatologica. Il Cristianesimo delle prime generazioni aveva saputo superare il trauma della mancata parusia (parousia = ritorno di Cristo, fine della storia, che era considerata imminente nella prima generazione cristiana) spostando la realizzazione del Regno dei Cieli da questo mondo all’altro e, al tempo stesso, dal mondo esterno al mondo interiore delle coscienze. Ma il marxismo aveva predicato imminente, certa e inevitabile la sua parusia, la rivoluzione proletaria, l’avvento della società senza classi, in questo mondo, e non nell’altro, nel mondo naturale e non nel mondo spirituale. Con ciò si era condannato da se stesso, fin da quando nel 1921, sotto le mura di Varsavia, durante la guerra russo-polacca, l’Armata Rossa fu sconfitta e in questo modo fallì nel compito di esportare nel resto d’Europa, nel resto del mondo, la Rivoluzione di Ottobre.  Non sempre una religione giovane e irruenta riesce a sostituirne una vecchia e stanca. In questo caso il sorpasso (chiamiamolo così ) rispetto al cristianesimo, da parte del marxismo, è stato effimero. Verso gli anni '70, cioè dopo  il Sessantotto, che è stato comunque più libertario che marxista, si andava profilando l’inevitabile riassorbimento del marxismo da parte del cristianesimo. Credo che tutti quelli della mia età ricordino che negli anni '60 si aveva questa sensazione, nel mondo della cultura, degli intellettuali di un’avanzata inarrestabile del marxismo e di un’inarrestabile decadenza, disgregamento del cristianesimo. Nei primi anni '70 uomini come Pasolini, come Thomas Merton – l’autore di La montagna dalle sette balze – cercavano ancora una conciliazione fra Cristo e Marx. E, perfino negli anni Ottanta, nel Nicaragua di Ernesto Cardenal e del sandinismo, si tentava la stessa operazione. Poi, inevitabilmente, pian piano, Marx è stato messo in soffitta ed è rimasto Cristo. Cosa è successo? Papa Wojtyla, tramite il punto d’appoggio di Solidarnosc, ha tolto il primo mattone che ha prodotto il crollo definitivo, attraverso una reazione a catena, del sistema sovietico. Il vecchio capobranco, come tra i cervi, o gli elefanti marini, più abile ed esperto, ha sconfitto ed azzannato a morte il giovane rivale. Il biologismo insito in questo paragone, in questa similitudine è voluto, perché ritengo che la storia della filosofia sia afflitta da troppo tempo da una sindrome spiritualistica contro la quale è necessaria qualche robusta, qualche sacrosanta iniezione di solido materialismo. Cioè a dire che nella storia dello Spirito, nella storia della filosofia non bisogna affatto pensare per forza che vigano dei meccanismi, delle leggi  sostanzialmente diversi da quelli del mondo naturale. Anzi, si potrebbe perfino affermare (metà per celia, e metà seriamente) che la stessa filosofia non è altro che – come direbbe uno scienziato naturalista – una “secrezione” dei filosofi, proprio come la scienza è una secrezione degli scienziati o la religione stessa, una secrezione degli spiriti credenti.                                                Ma il marxismo non  è stato solo un’eresia secolarizzata del tardo cristianesimo. E’ stato anche il fratello siamese del liberalismo. Secondo I. Wallerstein, quella fra USA e URSS, fra capitalismo e marxismo, è stata una contrapposizione puramente formale. (Per questi concetti rimando e consiglio la lettura di un libro che io ho trovato molto stimolante: Mauro Di Meglio, Lo sviluppo senza fondamenti, Editore Asteria). I due sistemi, entrambi imperialisti, si erano effettivamente divisi i compiti sulla base della rinuncia a qualsiasi interferenza nelle rispettive sfere di influenza. E ciò, nel contesto di un’economia mondiale dominata comunque dalla Borsa di New York, faceva dell’URSS, indubbiamente, una potenza subimperialista degli USA. A livello ideologico, marxismo e  liberalismo  condividono  tutta una serie di valori profondamente occidentali, nel senso etnocentrico della parola: l’ottimismo di matrice illuministica e positivistica; la concezione evolutiva e progressiva della storia umana; la fiducia nel progresso materiale ininterrotto, inteso soprattutto come progresso nella tecnologia e la fiducia nei suoi effetti; la fede nella scienza come bene puro; la cosificazione del mondo extraumano – l’ambiente, le risorse naturali, le creature viventi. Secondo Wallerstein, il sistema globale della struttura – mondo, nei due secoli che vanno dal 1789 e il 1989, cioè tra la Rivoluzione Francese e il crollo del muro di Berlino, è stato dominato da un’unica ideologia effettiva: il liberalismo, di cui il marxismo era solo una variante subalterna. Secondo Wallerstein, è solo dal 1968 che comincia ad affermarsi un’ideologia realmente alternativa al liberalismo e che passa attraverso il rifiuto della occidentalizzazione del mondo – concetto caro a Latouche – attraverso il rifiuto delle vie nazionali al progresso e al benessere. Del resto si rifletta che Marx, un pensatore tutt’altro che originale, per sua stessa ammissione, non aveva fatto altro che capovolgere la dialettica hegeliana, facendola camminare sui piedi anziché sulla testa. E la filosofia della storia di Hegel, che è intimamente contraddittoria perché nega la sua stessa impostazione dialettica laddove sfocia nella palingenesi dello Spirito Assoluto, riprende dal liberalismo la fiducia illuministica nella ragione, la concezione evolutiva della storia, e della storia del pensiero, la fede nel progresso inevitabile, eccetera. Ora, anche per questa via si giunge alle stesse conclusioni dell’interpretazione del marxismo in chiave salvifica e religiosa e cioè: la lotta di classe come lotta del bene contro il male, del giusto contro l’ingiusto, del nuovo contro il vecchio – là dove il nuovo è un valore di per sé positivo e il vecchio è un valore di per sé negativo –, e la società comunista (attenzione: la società scientificamente comunista) è vista come l’avvento del regno di Dio. Qui però si coglie anche l’intima debolezza del marxismo come ideologia di salvezza. Non basta prendere l’ideologia dell’avversario e capovolgerla per creare valori nuovi. I valori che nasceranno avranno la vernice del nuovo ma tutta la stanchezza e tutta l’ipocrisia del vecchio. In particolare vorrei far notare che Marx come filosofo viene direttamente dal più tristo pensatore che ci fosse sul mercato delle idee a quell’epoca: Hegel, il più giustificazionista (“Tutto ciò che è reale è razionale”), il più borioso (la filosofia è il culmine dello Spirito, e la filosofia di Hegel, modestamente, è il culmine dei culmini), il più razzista (vi risparmio le pagine delle Lezioni di filosofia della storia di Hegel in cui parla, per esempio, degli Africani, definiti come barbari, come selvaggi), il più statolatra (lo Stato è tutto, è l’eticità assoluta, l’individuo non è niente fuori dallo Stato), il più guerrafondaio  (l’etica della guerra, come valore assoluto): insomma, il più tristo dei filosofi dell’epoca, la cui celebrità nasceva dal delirio autocelebrativo della Prussia militarista e reazionaria. Erano gli anni della battaglia di Lipsia, della vittoria  della Prussia e di altri stati tedeschi su Napoleone; c’era questo delirio nazionalista e militarista, donde la celebrità di Hegel, delle sue lezioni, mentre le lezioni di Schopenhauer, nella porta accanto, andavano deserte. A questo proposito vorrei aprire una brevissima parentesi citandovi due righe del filosofo Giovanni Gentile. Cosa c’entra Gentile? Lo vediamo subito. Gentile dice, scrivendo subito dopo la prima guerra mondiale:
«Dalla guerra – del 15-18 – con più matura coscienza dei bisogni nazionali siamo tornati alla più alta, alla più italiana concezione della libertà, che è valore, selezione, gerarchia, che immedesima stato e cittadini in una sola coscienza, in una sola volontà».
Donde si evince non solo la strana concezione della libertà di Gentile, secondo il quale la libertà è gerarchia, secondo il quale la libertà è selezione, ma, soprattutto, da questo brano si nota la rabbiosa statolatria di Gentile, secondo il quale tutto è nello Stato e nulla ha senso, nulla ha valore fuori dello Stato. Ebbene, mi pare evidente la parentela ideologica tra questo passo di Gentile e le posizioni dello stalinismo. Intendo affermare che sia nell’attualismo gentiliano, che è la versione italiana dell’idealismo di matrice hegeliana, sia nel marxismo stalinista vi è sempre il comune denominatore di Hegel, cui spetta il tristo primato di poter essere considerato il capostipite delle due cose più brutte che la storia, credo, del mondo abbia prodotto: lo stalinismo e il nazifascismo.
Dicevamo del concetto di Natura. La Natura, è stato osservato che per Hegel è la “pattumiera” del suo sistema. Notiamo che Hegel è un filosofo decisamente “fuori tempo massimo” dal punto di vista della concezione della filosofia come sistema. Per grazia del cielo, da secoli non si concepiva più la filosofia come sistema chiuso, onnicomprensivo, completo, definitivo. Con Hegel, invece, si torna a questo. Nel suo sistema che cos’è la Natura ? La Natura è lo Spirito fuori di sé. E’ stata definita la “pattumiera” del suo sistema nel senso che è tutto ciò che non rientra nello Spirito, tutto ciò che, non essendo di natura spirituale, è di qualità inferiore, scadente. Tra l’altro, lui non giustifica neanche teoreticamente il passaggio dall’Idea in sé all’Idea fuori di sé, dal Logos alla Natura.    
Stavamo dicendo che torna d’attualità, direi, la critica al marxismo di Proudhon, di Bakunin, di Kropotkin, di Malatesta, ma anche di Tolstoj, ma anche di una Simone Weil, ma anche di un Bookchin. Insomma, non basta prendere il potere e ridipingerlo di rosso. Il nuovo conserverà i peggiori difetti del vecchio. La Ceka non sarà migliore dell’Ochrana, la polizia segreta sovietica non sarà migliore di quella zarista, i gulag staliniani non saranno meglio delle deportazioni zariste. Pol Pot non è in nessun modo meglio di Hitler. E, a proposito del mettere in guardia contro le degenerazioni di un pensiero  positivista misticamente ottimista sulle magnifiche sorti e progressive, mi viene in mente che, quello che secondo me è un grande filosofo oltre che un sommo poeta, Giacomo Leopardi, ancora nel 1835, nella Palinodia al Marchese Gino Capponi, metteva in guardia contro l’ottimismo progressista, e in particolare, metteva in luce la mistificazione su cui esso si regge: l’idea che il progresso instaurerà una specie di Età dell’Oro – idea che è tutta in Marx oltre che in Hegel –, facendo scomparire, grazie all’uso delle macchine, la fatica del lavoro e cancellando nell’uomo l’avidità del denaro. In secondo luogo lui afferma che la promessa che il progresso porterà alla pace e all’amore universale, come anche faceva notare Horkheimer, nella sua critica a Marx, cioè l’attesa di un mondo più libero, più felice, più giusto, è andata completamente delusa. Ancora, nella Palinodia al Marchese Gino Capponi Leopardi ha degli squarci potenti, geniali, quasi profetici, laddove presagisce che vi sarà uno scontro per le materie prime e per i mercati; vi sarà il colonialismo, l’imperialismo, la guerra. Si scaglia contro il mito della felicità derivante dall’abbondanza dei beni materiali – quello che oggi noi chiamiamo in soldoni consumismo – e, infine, si scaglia contro la manipolazione dell’opinione pubblica attraverso i media (le gazzette) dei suoi tempi. Già nella Ginestra Leopardi aveva ironizzato sulle “magnifiche sorti e progressive” anche, io credo, con riferimento allo Spiritualismo idealista. Qualcuno obietterà che l’interpretazione del marxismo come subideologia del liberalismo, impregnato di valori razionalistici e scientisti, non si accorda con l’interpretazione del marxismo come religione di salvezza. In realtà, secondo me, la contraddizione è solo apparente. Basti osservare con quanta disinvoltura gli scientisti e i super razionalisti di oggi assumono un atteggiamento fideistico nei confronti dei loro stessi dogmi, con quanta naturalezza mettono scienza e ragione sul trono di Dio, addirittura con quanta stupefacente semplicità sposano la fede scientista e la fede religiosa. A questo proposito c’è un passo di un libro del professor Antonino Zichichi, Perché io credo in colui che ha fatto il mondo  (si noti la tautologia del titolo, perché in qualche modo si crea l’aspettazione che venga motivato un qualcosa che, invece, è già affermato nel titolo stesso). Ebbene, il professor Antonino Zichichi, a pagina 37, afferma :
«Accusare la scienza di essere sorgente di guerra e di violenze politiche vuol dire attaccare i buoni per difendere i tiranni. E’ vero che la tecnologia post-galileiana discende totalmente dalle scoperte scientifiche. Se però fossero gli scienziati a dover decidere quali applicazioni permettere e quali no, saremmo in un mondo realmente giusto e veramente libero».
Non è una battuta spiritosa o ironica, lui lo dice seriamente: se fossero gli scienziati a dover decidere, saremmo in un mondo realmente giusto e veramente libero, a dimostrazione del fatto che lo scientismo più sfrenato può benissimo sposarsi e andare d’accordo con la fede religiosa nel senso più tradizionale. Insomma, i due poli, lo scientismo e la fede religiosa, il polo razionalista e il polo iperfideista non sono affatto irreconciliabili, anzi, formano un tandem perfetto.
E ora passiamo al terzo e ultimo punto che vorremmo trattare brevemente questa sera, cioè le prospettive per il presente, segnatamente nell’epoca della tecnologia. 
Dopo i fatti del 1989-1991 – caduta dei regimi marxisti –, è sorta una scuola di pensiero, in grembo al liberalismo, che proclama più o meno esplicitamente nientedimeno che la fine della storia. Essa è stata enunciata per la prima volta, in forma completa e coerente, da F. Fukuyama, col suo saggio: The End of History?, con la foglia di fico del punto di domanda, a New York in The National Interest  nell’estate del 1989 e tradotto da Rizzoli nel 1992. La tesi di questa scuola di pensiero è che con la sconfitta del marxismo e la vittoria del “capitalismo”, è finita l’epoca delle ideologie. Quel che resta è un sistema sostanzialmente di pensiero unico, di cui si possono eventualmente discutere certi dettagli, ma non certo contestarlo nella sua globalità. Si badi alla data: nel 1989 cade il muro di Berlino. In tutto il mondo gli anticomunisti viscerali vivono un momento di euforia, di ubriacatura ideologica. Il capitalismo ha vinto, dunque il capitalismo è il migliore, anzi, è l’unico sistema degno di governare il mondo. Da questa scuola di pensiero, così rozza, così povera di contenuti speculativi, così supinamente adoratrice della forza, – ah, Hegel!… Che identifica lo Spirito assoluto con la Prussia; che arriva a dire che la forma dei tre continenti (la triade dialettica: Europa, Asia, Africa; gli altri quattro continenti, le due Americhe, l’Antartide, l’Oceania, non contano perché danno fastidio alla triade dialettica) rispecchia le tappe dell’evoluzione dello spirito, la forma tozza delle coste dell’Africa è indice della natura primitiva e inferiore dei suoi abitanti, mentre le coste articolate e frastagliate dell’Europa simboleggiano la natura evoluta e spirituale degli Europei – sono usciti tanti leader e leaderini , sia della destra liberale, come i vari Aznar, i vari Berlusconi, i vari Bush, sia della cosiddetta sinistra laburista, i vari Blair, i vari Schroeder, i vari Clinton, caratterizzati da un’arroganza intellettuale pari solo alla loro pochezza culturale, alla totale mancanza di spessore etico. Il cinismo al potere senza fronzoli e senza orpelli. Senonché la dottrina della fine della storia ha in se stessa la propria condanna e la propria sconfitta. Voglio dire che fino al 1989 il sistema capitalista poteva riversare su quello marxista il mancato raggiungimento del progresso e del benessere per l’intero sistema-mondo. Se tre quarti dell’umanità versano ancora nella miseria, la colpa era dell’impero del male, e viceversa, i marxisti dicevano: “La colpa è del capitalismo”. “Facciano come noi – diceva Reagan ai paesi del Sud della Terra, negli anni '80 – si rimbocchino le maniche, prendano esempio da noi e avranno progresso e benessere”. Ma la ricetta non poteva funzionare, non può funzionare, perché la miseria degli uni era ed è funzionale all’opulenza degli altri. E ora che è caduta la giustificazione del marxismo “cattivo”, come spiegheranno i vari Fukuyama, i vari Berlusconi, i vari Bush, che non ci sarà mai un futuro umano per quei tre quarti di umanità che versano nel sottosviluppo? Prendiamo il caso dell’Argentina. L’Argentina era considerata fino a ieri, si può dire, il paese più disciplinato, più obbediente alle direttive del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Era uno stato modello, uno scolaro modello. E guardate cosa è successo: una cosa apocalittica, senza precedenti, una società che si sta sfasciando, che si sta liquefacendo sotto i nostri occhi. Incredibile dictu, i coribanti della fine della storia (mi viene in mente il termine coribante perché è quello che Schopenhauer  notoriamente applicava a Hegel. I coribanti erano i sacerdoti di certe divinità orientali; seminudi, agitavano dei tirsi, conducevano delle processioni religiose; quando Schopenhauer non definiva Hegel un cialtrone pesante e stucchevole)  noi diremmo i neohegeliani di oggi, stanno propalando l’estrema, gigantesca mistificazione: affermano che progresso e benessere per tutti arriveranno con la globalizzazione. Dove chiunque abbia occhi per vedere e orecchi per udire, ha compreso perfettamente che la globalizzazione, così come la stanno portando avanti i poteri forti dell’economia occidentale, non può significare altro che dividendi sempre maggiori per i ricchi e sfruttamento sempre  più sistematico, sempre più scientifico per i poveri. (Questi punti sono stati approfonditi il 20 dicembre scorso durante la conferenza organizzata dall’A.F.T. presso la sede di Treviso).
Concludendo, occorre riaprire varchi alla speranza, motivare i giovani a credere nel futuro. Occorre far leva sull’eredità positiva dei movimenti del 1968-69, puntando su una demistificazione radicale e impietosa della tarda ideologia liberale, mostrandone le rughe repellenti sotto l’apparenza giovanilistica del lifting estetico-ideologico. Guardiamole da vicino queste bellezze del capitalismo, nella sua versione aggiornatissima di pensiero unico e di fine della storia. Sotto il cerone e la tintura, il capitalismo odierno ha l’aspetto laido e malandrinesco del musicante girovago apparso al professor Aschenbach nel libro di Thomas Mann La Morte a Venezia. Soprattutto, occorre pensare in positivo: il rifiuto dell’occidentalizzazione del mondo deve accompagnarsi alla riscoperta e alla valorizzazione della dignità e della validità, certo non mitizzandola, delle altre culture, degli altri sistemi economici. Non dovunque e non sempre il massimo scopo della società umana è stato ed è lo sfruttamento egoistico della terra, degli animali e delle piante, degli altri esseri umani e delle altre società. Possiamo e dobbiamo immaginare un futuro diverso, basato sulla collaborazione, sulla solidarietà, sul disinteresse economico, sulla creatività e sul gioco, sulla valorizzazione del singolo individuo e delle sue infinite potenzialità. Accanto all’homo oeconomicus – altro che uomo a una dimensione, come diceva il buon Marcuse! – c’è l’uomo che sogna e che ama, che inventa e che sperimenta, che persegue la bellezza, la verità, la bontà, che è assetato di assoluto, che odia l’egoismo e l’ingiustizia, che rifiuta lo sport preferito della società competitiva, la pratica del nascondimento e della volontà di dominio, anche nei “semplici” rapporti interpersonali. Già, il singolo individuo, una categoria che Kierkegaard, il grande Kierkegaard, l’altro protagonista della rivolta antihegeliana, accanto a Schopenhauer, per molti aspetti ancora più moderno, ancora più attuale di Schopenhauer, ha avuto il merito di rivalutare contro la statolatria dilagante dell’hegelismo, contro l’avanzata disumana della società di massa (ricorderete la battaglia eroica e solitaria condotta fino alla morte, per sfinimento, da Kierkegaard contro quella che lui considerava la grande infamia del suo tempo, il dilagare della stampa scandalistica, della stampa basata sulle richieste culturali più basse, più rozze del pubblico del suo tempo). Ma, si dirà che la nostra è una società tecnologica. Ci piaccia o no, essa ha messo in movimento dei meccanismi tali per cui ogni ritorno alla centralità della persona non può che apparire come un’ideologia regressiva. Ma regressiva rispetto a che cosa? Ecco il grande equivoco, ecco il grande inganno, di derivazione hegeliana, positivista, occidentale. Chi ha stabilito che cos’è il progresso? Progresso per chi? Progresso per fare che cosa? Per produrre sempre più beni inutili, o, addirittura, dannosi alla salute, alla pace? Sempre più nevrosi, sempre più ingiustizie e sfruttamento, questo è il progresso? L’idea di progresso non può essere monopolio dei poteri forti dell’economia. Per definizione, essi badano al bene privato e non al bene pubblico. Dobbiamo pertanto rifiutare il ricatto scientista e tecnologico, quando ciò è al servizio del nascondimento e del dominio, non in nome di un impossibile ritorno al passato, un ritorno alla candela (quante volte ce lo siamo sentiti dire?), ma in nome di una società pienamente umana, dove ogni individuo sia valorizzato al massimo, in armonia con se stesso, con gli altri esseri umani, con la Natura tutta, vivente e non vivente – ammesso che questa distinzione sia possibile; alcune filosofie orientali, per esempio, lo negano – e, per chi ci crede, in armonia con Dio, o con una realtà altra. E dall’esito fallimentare del marxismo dobbiamo trarre tutti gli insegnamenti necessari affinché non si ripetano certi errori; in primo luogo, quindi, dobbiamo negare uno stato etico, o un partito, o chiunque altro pretenda di sovrapporsi alle esigenze concrete, legittime, insopprimibili del singolo essere umano – quel Singolo volle Kierkegaard sulla sua tomba, come epigrafe – e, in prospettiva, anche di qualsiasi essere non umano, come vogliono tante nobili filosofie dell’Oriente. Dobbiamo pretendere di rifiutare che le esigenze dello stato, del partito o di chiunque altro si sovrappongano a quelle del singolo qui e adesso. Vorrei concludere con due brevissime citazioni, una da Heidegger, per quello che riguarda, appunto, il problema della società della tecnica. Per essere precisi, non è neanche da Heidegger, perché  è uno scrittore un po’ involuto, un po’ difficile, è da un normalissimo testo di storia della filosofia, l’Adorno-Gregori-Verra. Questo passo sintetizza la posizione di Heidegger nei confronti del problema della tecnica:
«La svolta impressa da Platone al concetto di verità non è poi una questione la cui importanza, quale che sia, grande o piccola, si limita all’ambito della storia della filosofia, della cultura, del sapere. Al contrario, spiega l’intero destino dell’Occidente e, in particolare, il primato della tecnica affermatosi nel mondo moderno. Per Heidegger, infatti, la tecnica non è uno strumento neutrale che l’uomo può usare a suo piacere per il bene o per il male. – Quante volte ci siamo sentiti dire che un coltello è buono se si usa per tagliare la carne ma è cattivo se si pianta nella pancia del prossimo? – Essa è, invece, il risultato del processo per cui l’uomo, dimenticando l’essere, si è attaccato sempre di più agli enti, alla loro presenza e, mediante il pensiero come rappresentazione (render presente, portare davanti a sé), ha assunto di fronte alla realtà, rendendola mero oggetto, un atteggiamento di dominio e di sfruttamento, un atteggiamento che oggi non si ferma più neanche di fronte alle basi stesse della vita (parole quasi profetiche, allora non esisteva ancora l’idea della clonazione), alle sue condizioni biologiche e genetiche, per cui su tutto la tecnica tende a imporre il suo dominio necessariamente totalitario. La fede nella tecnica quindi non è altro che la fede in un processo di dominio che non ha più altro scopo che se stesso e tende a subordinare tutto a se stesso».
Direi che sono parole sulle quali vale la pena di riflettere, mentre ci sentiamo magnificare ancora una volta le magnifiche sorti e progressive verso cui la tecnica ci sta indirizzando.
Vorrei soltanto concludere con questa riflessione. Nel valorizzare quella ideologia che io considero l’unica ideologia veramente antagonista nei confronti del liberalismo, e cioè l’ideologia libertaria – ambientalista , pacifista, solidarista (e chi più ne ha più ne metta) – occidentale, credo che molta strada si possa fare insieme con la tradizione culturale dell’Oriente. Penso a filosofie come il Buddhismo, in particolare Zen, come il Taoismo, ma anche come lo Yoga, come il Vedãnta (il Vedãnta stesso che pure è così squisitamente spiritualistico). Sono tradizioni filosofiche di una validità sconvolgente, se pensiamo che sono antiche 2000-3000 anni, tuttora attuali e pienamente vitali: c’è un punto importantissimo, fondamentale, di convergenza  che esse hanno con l’ideologia libertaria che rifiuta il marxismo non in nome di un viscerale anticomunismo ma in nome di quei valori di libertà – e libertà a partire dal singolo, perché se non si parte dal singolo la libertà è un’astrazione – che il marxismo, invece, aveva violentemente negato, con tanto di gulag e di plotone d’esecuzione. Questo punto di convergenza è il rifiuto dell’attaccamento avido ai frutti del lavoro, e del desiderio di dominio sulla natura  e del desiderio di sfruttamento  della vita stessa come processo sostanzialmente economicistico. Il rifiuto di questa visione è tipico delle filosofie orientali che citavo prima. Uno studioso italiano, Carlo Patrian, di yoga in particolare, scrive:
«Tutto l’universo è in moto, tutto è alacremente all’opera, ma tutto lavora per il lavoro in se stesso  e non per qualche eventuale beneficio che ne possa derivare. Soltanto l’uomo lavora per il desiderio di ricompensa, agisce per ottenere qualcosa, aspira sempre a un profitto personale». – How much? (Quanto costa?). Oppure: Cosa posso ricavarne? Quanto mi può dare questa cosa (anche nei rapporti umani: questa amicizia, questo legame)? Mi conviene? Mi serve? Può essere un trampolino per i miei scopi? – «Operando ed agendo con questo intento, l’uomo diviene sempre più soggetto e schiavo di ciò che desidera».             Questo è un concetto che le nobilissime filosofie dell’Oriente, come lo Yoga, hanno ben chiaro da migliaia di anni ma che l’uomo occidentale, specialmente oggi, ubriacato dai fasti del capitalismo che si crede vittorioso, decisamente non ha introiettato e, con suo danno, non ha ancora capito quanto sia importante. Vi ringrazio.

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