Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Le perle del Tantra

Le perle del Tantra

di David Donnini - 09/10/2008

Fonte: nostraterra





      SOMMARIO

      Introduzione 3

      La ricerca spirituale. 3

"Ciò che è qui è ovunque, ciò che non è qui non è da nessuna parte". 8

      4500 anni fa. 12

      Lo Yoga tantrico. 15

      L'occidente e lo Yoga. 23

      La mia esperienza personale. 26

      Problemi dell'evoluzione umana. 34

      I trattati dello Yoga tantrico 39

      Prima di leggere i trattati. 39

      Struttura dei trattati. 41

      Sulle premesse filosofiche. 42

      Sulle premesse comportamentali 45

      L'anatomia e la fisiologia energetica del corpo. 47

      La purificazione corporea. 52

      Le posizioni statiche. 56

      Mudrâ e Bandha. 58

      Sesso tantrico. 61

      La magia del respiro. 65

      La meta. 68

      I testi classici del tantrismo Indù 72

      HATHA-YOGA PRADÎPIKÂ 72

      CAPITOLO I 72

      CAPITOLO II. 77

      CAPITOLO III 83

      CAPITOLO IV 92

APPENDICE - CAPITOLO V (presente solo in alcuni manoscritti) 100

      SHIVA SAMHITÂ 102

      CAPITOLO I 102

      CAPITOLO II 109

      CAPITOLO III 113

      CAPITOLO IV 121

      CAPITOLO V. 126

      GHERANDA SAMHITÂ 142

      LEZIONE PRIMA 142

      LEZIONE SECONDA. 148

      LEZIONE TERZA. 152

      LEZIONE QUARTA. 160

      LEZIONE QUINTA. 161

      LEZIONE SESTA. 168

      LEZIONE SETTIMA. 170

      Glossario 172

      Bibliografia essenziale: 18


      Introduzione



      La ricerca spirituale.


Se è vero che gli uomini di tutti i tempi e di tutti i paesi hanno sempre manifestato un
innato bisogno di spiritualità, come desiderio di approccio alla dimensione
dell'infinito e dello sconosciuto, è ancor più vero che l'uomo moderno, anche quando
non se ne rende conto, soffre in tal senso di una profonda crisi di astinenza. Essa è
dovuta principalmente all'intrinseco cinismo e alla aridità dei modelli di vita
della civiltà tecnologica ma, senza dubbio, anche alla profanità di fondo che può
nascondersi dietro le apparenze di una tradizione di culto troppo spesso fittizia o
ipocrita e, comunque, incapace di trasmettere, a chi sinceramente li cerca,
autentici valori spirituali.

Certo, sono parole dure, ma sono parole veritiere. Altrimenti non potrebbe
spiegarsi la tendenza diffusa ad abbandonare gli insegnamenti ortodossi e a
rifugiarsi nelle più varie e diverse esperienze religiose, né il facile proliferare
delle sette e dei gruppi, all'interno dei quali si esprimono e si sviluppano le più
impensabili, e qualche volta deliranti, variazioni teologiche.

Purtroppo, tutt'altro che raramente, il bisogno fondamentale di spiritualità, a
causa della sua stessa indefinibile natura, offre l'occasione per disoneste
speculazioni basate sul desiderio di creare un potere, o di sostenere un business. La
storia delle religioni, come istituzioni fondamentali della civiltà, è appunto la
storia degli intrecci ambigui fra l'anelito sincero alla spiritualità e il suo
cinico abuso e disuso che, avendo rappresentato in occidente il massimo dei
possibili eccessi degenerativi, ha quivi generato la più energica ed estremistica
delle reazioni intellettuali: l'ateismo, un fenomeno che, come espressione
culturale appartenente alla collettività, esiste solo nell'ambito della civiltà
cristiana. Esso è il rifiuto della religione e il suo annullamento sulla base di un
pregiudizio: la presunta inesistenza dello stesso oggetto di interesse della
religione e della ricerca spirituale.

Sinceramente devo affermare di comprendere, e di giustificare, le ragioni che hanno
determinato questo atteggiamento di pensiero; troppo spesso e troppo seriamente la
religione istituzionale ha prodotto e alimentato il conflitto fra l'intelligenza e
la fede, finendo, con una insistenza plurisecolare, per fornire di esse una immagine
che appare inevitabilmente antitetica. Non si può non individuare il motivo
principale di ciò nella istituzione di una dottrina autoritaria e del suo più
caratteristico strumento, il dogma, autentico veleno nei confronti di qualunque
sincera spiritualità e di ogni puro spirito di ricerca. E' proprio a causa di questo
modo di porre le questioni religiose che l'intelligenza razionale, nel momento
storico in cui ha avuto la sua principale emancipazione, ha dovuto ribellarsi a tutto
ciò che ne costituiva ostacolo e ha prodotto negli eccessi dell'ateismo la reazione
alla mentalità dogmatica e fideistica.

E' stato così, perché non poteva essere altrimenti che così. In questo senso non c'è
esagerazione se affermo che è stata la chiesa stessa a produrre l'ateismo. Quando mai
l'istituzionalizzazione e, soprattutto, la dottrinalizzazione rigida e
autoritaria di un pensiero non producono il suo contrario?

In altri miei precedenti lavori mi sono dedicato intensamente ad analizzare i
meccanismi coi quali l'istituzione religiosa ha costruito, nell'arco dei secoli
del suo sviluppo e del consolidamento del suo potere, una teologia e una dottrina che
finiva inevitabilmente per privilegiare le ragioni della egemonia ecclesiastica
su quelle della verità e dei contenuti di una ricerca spirituale autentica. Tutto
ciò, non di rado, ha dato ai miei lettori l'impressione che il mio impegno avesse il
carattere di una demolizione, più che quello di una proposta costruttiva. Non sono
bastate le introduzioni e le conclusioni nelle quali ho cercato di puntualizzare il
fatto che non è possibile iniziare alcuna semina che non sia preceduta da una aratura e
da una mondatura del terreno da tutte le male erbe.

Questa volta il mio interesse si rivolge in modo più diretto al nucleo centrale del
problema religioso: la ricerca spirituale. La storica antitesi fra religione e
scienza, fede e ragione, spiritualità e ateismo, in cui l'occidente sembra essersi
imprigionato come in una trappola culturale, può certamente trovare una prima via di
uscita nel momento in cui si pone la seguente domanda: siamo sicuri che l'oggetto di
interesse della ricerca spirituale debba necessariamente accompagnarsi all'idea
di Dio nel modo in cui questa è abitualmente espressa in occidente? Ovverosia al
concetto di un ente supremo personalizzato, che avrebbe prodotto la creazione
esercitando un preciso atto di volontà cosciente? E siamo sicuri che questo ente
debba assumere, inoltre, una serie di caratteri antropomorfi come "maschile",
"patriarcale", "autoritario", ecc...? O non sono proprio questi i primi risultati
del processo di dottrinalizzazione della spiritualità e di mortificazione del
libero spirito di ricerca che la chiesa, a suo esclusivo vantaggio, ha effettuato?

Forse già la messa in discussione di questi presupposti (così abituali da non
sembrare neanche suscettibili di poter essere messi in discussione), se ben
compresa nel suo significato, ha la capacità di aprire un varco di interesse e di
sensibilizzazione anche nell'ambito della componente culturale laica e non
credente; certamente più di quanto non possa farlo nella componente religiosa
ottusamente legata alla inviolabilità della sua dottrina e dei suoi insegnamenti

Come ho detto all'inizio di questo paragrafo, il bisogno di spiritualità, inteso
come anelito di un approccio all'infinito e allo sconosciuto, con tutti i suoi
annessi e connessi (il senso dell'esistenza, la giustizia, la morale, la
morte, ecc...) è un bisogno innato, una necessità che appartiene alla natura stessa
della mente umana. Come tale esso non è assente neanche in coloro che, per formazione e
costume culturale, hanno deciso di ignorarlo.

Credo di individuare uno dei problemi più grandi, e gravi, di oggi, se dico che il
recupero da parte degli uomini di una spiritualità autentica e coerente coi loro
bisogni, con la loro cultura e con la loro intelligenza sia una delle necessità che,
anche se apparentemente secondarie, è delle più urgenti e drammatiche, perché nella
sua mancata soddisfazione, e nel senso di smarrimento che ne consegue, risiede la
radice del disagio della civiltà moderna e una gran parte dei suoi mali principali.
Non è né con tecnologie sempre più sofisticate, né con nuove ideologie politiche, che
l'uomo sarà capace di affrontare la nuova, terribilmente difficile, stagione
storica che si avvicina. Anche se questo, ad un primo superficiale giudizio, può
apparire eccessivo o ridicolo, sono convinto che sia proprio sulla questione
spirituale che si giocano le sorti della partita del futuro.

      Perché?

Per il motivo che la religione ha sempre svolto il ruolo di fornire all'inconscio
umano una soluzione al problema dell'identità; della identità individuale
all'inconscio personale e della identità di gruppo all'inconscio collettivo. Non
ci si ammazza forse fra protestanti, cattolici, ortodossi, musulmani, ebrei, indù,
buddisti, sikh, ecc...? L'appuntamento epocale più drammatico che ci aspetta
(quanto vorrei sbagliarmi!) non è forse il prossimo scontro di civiltà fra il bacino
cristiano e quello islamico?

Quando il senso della identità è scorretto, o malato, o comunque in qualche modo
inadeguato, il soggetto è sempre disturbato, sia esso individuo o collettività.

La mia profonda convinzione è quella che il persistere in epoca moderna di pregiudizi
religiosi, e di strutture dottrinarie e teologiche, nate nel passato per le esigenze
del passato e di popolazioni circoscritte, nonché l'inesistenza di uno stato di
libertà nella quale l'uomo possa condurre una ricerca spirituale all'altezza delle
sue capacità e dei suoi bisogni, sono condizioni che creano le carenze del senso di
identità e tutto l'insieme dei disturbi di carattere psicologico e culturale che, di
fronte alla prospettiva di un pianeta che sta per essere popolato da una decina di
miliardi di esseri affamati e armati, fra i quali regna l'ingiustizia e la
disuguaglianza, pone seriamente nel possibile l'ipotesi di una tragedia senza
precedenti storici. Qualcosa di fronte alla quale le ecatombi delle due trascorse
guerre mondiali sono solo degli aperitivi.

Queste parole sono comprese da pochi e, comunque, sono tristemente destinate a non
essere considerate per l'importanza che hanno, se non addirittura ignorate. Eppure
esse individuano il nocciolo fondamentale della problematica esistenziale
attuale del genere umano: la impellente necessità di superare i limiti di una cultura
invecchiata e soprattutto frammentata in culture nazionali eterogenee e
conflittuali, e la sua emancipazione in una cultura planetaria moderna, più
omogenea e meno conflittuale: una cultura adatta al "POPOLO DELLA TERRA".

L'occidente è già stato teatro di una colossale emancipazione della società umana, e
sarei disonesto se non riconoscessi che uno dei meriti principali di ciò spetta
proprio al cristianesimo e alla sua visione del mondo che, dai tempi di Roma imperiale
ai secoli successivi, ha svolto un ruolo innegabilmente evolutivo. In campo
artistico, scientifico, filosofico, tecnologico, così come nel campo del diritto e
dell'economia, esiste forse l'uguale alla spinta progressista che l'occidente
cristiano ha dato all'umanità? Ciò non ostante, ci vuol poco ad avvertire che tutto
questo non basta; al contrario, che può essere non solo insufficiente ma
terribilmente rischioso o addirittura fatale.

Si tratta di una gigantesca costruzione nella quale l'architetto ha dimenticato di
mettere una colonna, o magari anche solo una pietra, la cui mancanza contribuisce a
rendere pericolosamente instabile l'equilibrio di tutto l'insieme. Sento che
l'immagine non è lontana dal vero e che il problema più urgente, oggi, consiste nel
riconoscere la natura dell'elemento mancante e nel sistemarlo là dove è bene che
stia.

Qual'è allora il mattone in questione? L'ho già detto in precedenza: l'immagine
interiore di noi stessi, il senso della identità, che non deve essere riduttivo e
limitante rispetto alle nostre potenzialità, ma adeguato a lasciar esprimere
l'uomo nella sua integrità e a soddisfare armoniosamente le sue esigenze, senza
produrre 1) né conflittualità interiori, 2) né conflittualità nei confronti
dell'ambiente, 3) né conflittualità fra individuo e individuo o comunità e
comunità.

      Non è questa la situazione presente.

1 - Per quanto riguarda il rapporto fra le varie componenti della interiorità
individuale, si può forse attribuire alla teologia e alla morale cristiana il merito
di avere trovato la formula perfetta per conciliare corporeità, istintualità,
emotività, cultura e spiritualità? O non dobbiamo piuttosto rimproverarle di avere
portato agli estremi la conflittualità interiore? Non fosse altro, per
l'irrimediabile senso di colpa che la morale cristiana ha sempre riversato sulla
sessualità. Di recente alcuni teologi ostentano con candore innocente, quanto
meschino, un inaspettato slancio di apertura verso una visione dell'uomo che sia
meno conflittuale rispetto alle sue componenti interiori. Credo proprio che si
tratti di una delle più clamorose espressioni di ipocrisia dell'universo culturale
religioso. Non mi lascio ingannare e non cesserò di mettere in guardia i miei simili
contro questi voltafaccia dell'ultima ora.

2 - E per quanto riguarda il rapporto fra individuo e ambiente? Fin dalla più tenera
età, nella mente di colui che cresce ed è educato in area cristiana, sia o non sia
destinato a diventare un credente, è coltivata l'idea di matrice biblica
dell'universo antropocentrico, della natura in funzione e al servizio dell'uomo,
ai cui desideri tutto è subordinato. Anche questo concetto si fissa come archetipo in
quelle regioni profonde dell'inconscio in cui risiede il senso della identità, e
troppo diseguale è il confronto fra il potere di una immagine interiore
antropocentrica e il potere della ragione. Chi, se non l'ingenuo o l'ignorante, può
pensare che, nel governo dei destini umani, il pensiero razionale possa superare la
forza delle immagini interiori? Dunque, neanche per quanto riguarda il rapporto fra
l'uomo e l'ambiente, ci si lasci illudere dagli appelli esteriori al rispetto della
natura.

3 - E, infine, l'esistenza di religioni molto diverse, ciascuna delle quali è
irrimediabilmente legata all'idea di essere quella giusta, di essere la
depositaria di una verità unica e insostituibile, crea una insanabile divisione che
(ne abbiamo la drammatica prova nei fatti) genera tensione e getta questa umanità
multi etnica e multi culturale in un continuo di crisi politiche e sociali senza
soluzione. Sicuramente la responsabilità delle religioni nella genesi della
conflittualità umana, e quindi nelle sue orribili conseguenze, è assai reale e
grave, e solamente una analisi superficiale, che si ferma alle apparenze e alle
retoriche, cercherà di misconoscere questo fatto. Non ci si lasci illudere
dall'esteriorità, e dagli appelli di pace! Ben vengano, ma colui che conosce l'animo
umano vede di quanti strati, visibili e invisibili, esso sia fatto e sa che gli appelli
non arrestano le tragedie, perché non agiscono sulle loro radici. Dunque, neanche
per quanto riguarda le barriere culturali fra individuo e individuo o comunità e
comunità credo che le formule offerte dalle dottrine religiose possano garantire la
soluzione del problema. Al contrario, saranno proprio le diversità religiose a fare
della crisi della ex Yugoslavia come di quella del Medio Oriente le versioni moderne
della antica guerra dei cent'anni.

Se non si ha il coraggio di andare alla radice, disposti a sopportare i costi che ciò
comporta, affrontando il problema del senso dell'identità senza falsità e senza
essere legati alla necessità di mediare fra esigenze diverse che, in parole povere,
consistono nel desiderio ipocrita di salvare la capra senza sacrificare i cavoli, si
sopporteranno altri costi: la conflittualità interiore, la conflittualità
ambientale, la conflittualità sociale. Sembrano solo tre espressioni letterarie:
la prima può significare un grave disagio psicologico, fino alla nevrosi più
profonda; la seconda può significare la rovina delle condizioni di vita biologica
sul pianeta; la terza può significare il massacro o l'autodistruzione.

Inutile tentare di aggirare il problema: il nocciolo è lì, nella individuazione
della corretta immagine di sé che l'uomo moderno, l'uomo planetario, deve avere. Per
quanto riguarda il decimo di superficie (la classica punta d'iceberg), il ruolo
spetta alla cultura esteriore, alla scuola, alla scienza, alla filosofia, al
diritto; ma per quanto riguarda i nove decimi di fondo, il ruolo spetta alla
religione, e la ricerca spirituale, purché autentica, è lo strumento principale.

E' con questo spirito che offro al pubblico la possibilità di avvicinarsi ad un grande
serbatoio di conoscenze, costituito dai tre trattati dello Yoga tantrico "Gheranda
Samhitâ", "Hatha-Yoga Pradîpikâ" e "Shiva Samhitâ". Di essi solo il secondo esiste
già tradotto in lingua italiana, ma è conosciuto da un pubblico ristrettissimo;
infatti, se pochi sono coloro che mostrano o hanno mostrato qualche volta un certo
interesse per la disciplina Yoga, pochissimi fra costoro sono quelli che hanno
sentito il bisogno di compiere degli approfondimenti e si sono avvicinati a un testo
di tal genere. E' un vero peccato! Infatti, non solo quelli che hanno interesse per lo
Yoga farebbero bene a prendere conoscenza di tali testi, ma anche le persone
interessate allo studio delle religioni e dei problemi spirituali ne ricaverebbero
una utile esperienza, così come gli psicologi, gli psichiatri e i neurologi, che
potrebbero essere arricchiti, nel loro studio della mente umana e dei suoi
meccanismi, da un approccio di natura molto diversa da quello cui sono abituati,
risalente ad esperienze antichissime, ma non per questo privo di importanti
suggerimenti.

La ragione per cui propongo questa visitazione non appartiene al proselitismo, dal
momento che io stesso non ho sposato nessuna setta, né religione, né ideologia di
alcun genere, ma solo la convinzione che sia necessario allargare i propri orizzonti
di ricerca in tutte le direzioni. L'esperienza compiuta dagli Yogi è, senza dubbio,
ricchissima; essa ha un carattere molto ampio e riguarda tanto le scienze della
salute fisica, come di quella mentale, come le frontiere più spinte della ricerca
spirituale. In particolare, il pregio di questa esperienza è quello di essere stata
compiuta su di sé stessi, in quanto lo Yogi è addestrato a diventare custode della
propria salute, esploratore della propria interiorità psichica e autore della
propria emancipazione spirituale. Probabilmente è questo carattere di auto
disciplina l'elemento che può maggiormente portare all'occidente un contributo di
arricchimento. Anche se, come avrò modo di approfondire in seguito, invito il
lettore a voler leggere questi trattati con molta cautela, dal momento che essi,
esattamente come la storia biblica e la narrazione evangelica, sono passati per
lunghi secoli attraverso il filtro censorio delle istituzioni e la mano correttrice
dei difensori dello status-quo.


"Ciò che è qui è ovunque, ciò che non è qui non è da nessuna parte".


Un trattato indù (Vishvasâra Tantra), praticamente sconosciuto in occidente,
propone un concetto che, quasi sicuramente, costerà un certo sforzo, al cittadino
moderno di questa nostra movimentata civiltà tecnologica, per essere compreso e,
ancor più, per essere addirittura accettato. Si tratta, in parole povere, dell'idea
che tutto ciò che esiste nell'universo possa essere trovato in qualunque punto di
esso.

Non c'è dubbio: l'affermazione in questione stona con la constatazione (e non c'è
niente di più convincente dei fatti) della misura in cui i mezzi di comunicazione e di
trasporto hanno profondamente modificato, in pochi decenni, il sistema di vita
degli uomini.

Se, dunque, tutto può essere trovato dappertutto, che senso ha il nostro continuo
affanno di comunicare e di spostarci da un capo all'altro del pianeta? Ma, ancor più,
per quale motivo alla opulenza di certe aree e di certi uomini, si contrappone la
straziante miseria di altre aree e di altri uomini? Perché lo squilibrio, la
diversità e, diciamolo chiaramente, l'ingiustizia, sembrano essere la regola del
mondo?

L'idea espressa, chissà quando, dal filosofo indù sembra fornire, più che un dato di
fatto riscontrabile nella realtà, una consolante illusione ad uso e consumo di
quegli sfortunati che non hanno altro di cui contentarsi. Essa produce, per lo meno,
l'effetto di far apparire i ricchi e gli uomini di successo come i seguaci di una
chimera, la quale non meriterebbe affatto la pena che, normalmente, le è dedicata.

In fin dei conti non c'è bisogno di spingersi così lontano, sino ai particolari di una
filosofia esotica (per noi), al fine di avere testimonianza del fatto che le
religioni, spesso, svolgono la funzione di offrire delle semplici consolazioni,
delle soluzioni rassicuranti ai drammi psicologici dell'esistenza, attraverso
convinzioni fittizie, insomma, degli utili "placebo" mentali. Non succede forse
questo, frequentemente, per esempio con le presunte lacrime della Madonna, anche in
ambito cristiano?

Cerchiamo di non essere superficiali; dobbiamo riconoscere che anche ciò che sembra
evidente, qualche volta, può risultare clamorosamente falso. Fu proprio durante un
seminario di Yoga che un celebre maestro occidentale, André van Lysebeth, mi colpì
con una banale affermazione: - Che il sole ruoti intorno alla terra è tanto evidente
quanto falso! -. Non dimentichiamolo: le evidenze, quelle che, per secoli o
millenni, possono indurre una convinzione comune a tutti gli uomini, spesso
nascondono degli inghippi e chiudono la mente in una trappola. Quanta resistenza
intellettuale, ed anche pesantemente istituzionale, produsse l'idea
eliocentrica! La quale condusse Giordano Bruno ed altri sul rogo, e costrinse il buon
Galileo Galilei ad una umiliante ritrattazione pubblica delle opinioni, a quel
tempo eretiche, che aveva avuto l'ardire di esprimere.

Il tantrismo, che dell'induismo è una componente, e del resto qualunque religione e
filosofia dell'oriente, parte dalla convinzione che alla radice di tutta
l'esistenza umana, e dei suoi drammi, ci sia una sorta di inganno (Mâya): la mente
dell'uomo, coi suoi meccanismi di percezione sensoriale, di pulsione istintuale e
di elaborazione razionale, sarebbe strutturata in modo tale da far apparire reale un
mondo di cose irreali, presentando la molteplice diversità degli oggetti là dove
regnerebbe, al contrario delle evidenze, una sostanziale unità. Insomma, è come se
la mente dell'uomo fosse fatta in modo da rendere consistente e reale un mondo di ombre
e di arcobaleni. L'esempio dovrebbe essere abbastanza chiaro, dal momento che tutti
sanno che le ombre e gli arcobaleni, per quanto chiaramente visibili, non sono
oggetti consistenti ma semplici apparenze ottiche.

In che modo dunque può succedere che ciò che è qui sia dovunque e ciò che non è qui non
possa essere trovato da nessuna parte? Ma, soprattutto, può essere verificata
questa affermazione, così come chiunque può verificare l'inconsistenza di
un'ombra e di un arcobaleno?

Queste domande sintetizzano l'essenza del pensiero tantrico il cui scopo non è
quello di elaborare una dottrina speculativa o delle formulazioni teologiche, ma di
giungere a determinate esperienze di carattere psicologico introspettivo.
Proprio in questo fatto può essere individuato l'elemento di novità del tantrismo
rispetto al pensiero occidentale, tanto scientifico, quanto filosofico, quanto
religioso.

Sul piano scientifico possiamo dire che l'occidente ha sempre seguito una certa
strada, che è quella di basare la conoscenza sull'osservazione esteriore, alla
ricerca di una oggettività dei fatti e delle cose. Si misura la massa, la dimensione,
il tempo, la temperatura..., fissando dati che abbiano il pregio di essere "veri".
Troppo spesso però, si trascura un altro importante aspetto: che i dati sono stati
raccolti attraverso osservazioni, le quali presuppongono l'esistenza di un
osservatore e, pertanto, l'incontestabile fatto di essere filtrati attraverso i
meccanismi, tutt'altro che oggettivi, anzi profondamente soggettivi, di
percezione e di elaborazione mentale dell'osservatore. Il tantrismo, pur essendo
sperimentale, come la scienza dell'occidente, non è estrospettivo ma
introspettivo e, elaborando una disciplina di ricerca il cui oggetto è ...il
soggetto, tiene conto proprio di quell'aspetto a cui la scienza ha dato
un'importanza secondaria.

Sul piano filosofico possiamo dire che l'occidente ha sempre privilegiato la
conoscenza speculativa, sommando teorie su teorie, offrendo modelli su modelli,
rappresentando interminabili discussioni e diatribe che alcuni, magari
esagerando, non temono di dichiarare inutili. Il tantrismo rifiuta in blocco la
dissertazione speculativa e, sebbene certe sue convinzioni, a colui cui vengono
comunicate, possano sembrare teorie e modelli filosofici, esse non lo sono affatto,
dal momento che nessuna di tali convinzioni può e deve essere raggiunta attraverso un
indottrinamento intellettuale ma solo, e soltanto, attraverso un'esperienza
conoscitiva diretta. Insomma, o la conoscenza è il frutto dell'esperienza, o non
esiste assolutamente.

Sul piano religioso possiamo dire qualcosa di simile, dal momento che la religiosità
in ambito biblico (ebraico e cristiano), si fonda sulle scritture, considerate come
una rivelazione della verità divina; in particolare, in ambito cattolico, al valore
delle scritture si affianca quello delle elaborazioni teologiche di una élite
intellettuale ecclesiastica, la cui espressione suprema è il dogma. Inutile dire
che la possibile utilità del dogmatismo non è neanche presa in considerazione dal
pensiero tantrico, poiché nemmeno le scritture hanno valore in esso: la gnosi,
soltanto il raggiungimento personale della conoscenza diretta della realtà ha
valore, e i metodi per conseguire tale gnosi. E' un atteggiamento religioso molto
lontano da quello espresso dalle chiese cristiane e, al primo posto, da quella
cattolica che, nella sua storia, si è sempre impegnata nel combattere e nel reprimere
con indescrivibile ferocia ogni "devianza" di carattere gnostico dal sentiero
della sua teologia e della sua liturgia. Se volessimo dedicare un istante a chiarire
la ragione di ciò, potremmo dire in breve che la spiegazione è una e semplice: perchè la
gnosi toglie ogni ragion d'essere all'autorità della istituzione e al potere della
gerarchia ecclesiastica.

La convinzione che "ciò che è qui è ovunque, ciò che non è qui non è da nessuna parte" è uno
dei risultati del processo cognitivo tantrico, raggiunto attraverso la pratica
delle tecniche yogiche, ovverosia dei sistemi che hanno come scopo la eliminazione
di quei processi sensoriali e mentali che producono quella che noi chiamiamo
comunemente conoscenza e che, per fare un esempio, sono per lo scienziato il punto di
partenza per effettuare le sue indagini e le sue misurazioni.

Naturalmente si potrebbe osservare che, una volta eliminati i meccanismi
sensoriali e la mente, è eliminato tutto; in che modo può esserci conoscenza, allora,
senza strumenti di conoscenza? E' probabile che, di fronte a questi discorsi,
qualche persona di mentalità rigorosamente scientifica, amante delle misure e
delle cifre, inizi già a spazientirsi e a pensare che ci si stia muovendo nel terreno
infido dei sofismi, destinati a non produrre altro che confusione e smarrimento.
Forse non è molto diffusa l'abitudine a mettere in dubbio il fatto che ciò che i sensi
raccolgono e la mente elabora sia una conoscenza oggettiva e che l'insieme di tutte
queste cose percepite e conosciute sia un mondo reale.

Il fatto che l'uomo trovi utile considerare reale ciò che egli percepisce coi suoi
sensi (si pensi ad una pesante chiave inglese che precipita sui piedi di un
malcapitato), non è sufficiente a dimostrare, in linea di principio, che tale mondo
sia reale così come è visto, ma solo che è utile considerarlo tale per condurre questa
esistenza. Colui che è costretto a portare degli occhiali rossi, vede tutto il mondo
rosso; colui che percepisce gli ultrasuoni può essere fortemente disturbato da
vibrazioni che gli altri non percepiscono; colui che vive su una nave spaziale non
conosce il peso degli oggetti; colui che è piccolo come un atomo vede le molecole di cui
è composto un mazzo di chiavi, ma non vede il mazzo di chiavi, mentre colui che è grande
come una galassia vede l'universo delle galassie ma non vede tutto ciò che accade sui
pianeti; e, infine, colui che è drogato da sostanze attive sulla psiche, può vedere
con gli occhi e udire con le orecchie, ma elabora mentalmente i suoi dati in modo
diverso dagli altri, la realtà, per lui, è un'altra.

Il tantrismo, partendo dalla considerazione che i sensi e la mente costituiscono un
meccanismo finalizzato alla rappresentazione simbolica e soggettiva di certi
aspetti della realtà che esiste intorno a noi (e quindi non necessariamente di tutti,
altrimenti Guglielmo Marconi non avrebbe inventato niente di nuovo), ritiene che
per giungere alla conoscenza della realtà dietro le apparenze sensoriali sia
necessario effettuare proprio una sospensione controllata di quei meccanismi che,
sinché operanti, si ostinano a convertire tutto in quei segni convenzionali che ci
sono ben familiari. A questo la scienza moderna non pensa, o pensa troppo poco. Se ci
pensasse un po' di più, lo scienziato cesserebbe, almeno ogni tanto, di guardare nel
suo microscopio, o telescopio, o spettroscopio, per chiudere gli occhi e scrutare
non fuori di sé, ma dentro di sé, cominciando così ad assomigliare, per una volta, a
quegli yogi orientali che si siedono in terra e trascorrono lunghe ore in silenzio,
estraniati dal mondo esterno, in uno stato di trance profonda.

E che cosa dovrebbe indagare in questo modo? Innanzitutto potrebbe indagare proprio
quegli strumenti che normalmente gli presentano il mondo esterno così come è
abituato a vederlo, sino a realizzare una utile consapevolezza: che non c'è niente di
ciò che egli vede e sente che si trovi fuori di lui, poiché tutto ciò che l'uomo
percepisce e conosce è solo la proiezione interna (attraverso l'opera dei sensi) di
ciò che sta fuori di lui, un insieme di variazioni di stato della propria sostanza
mentale. Anche solo questa consapevolezza, non teorica e intellettuale, ma diretta
e sperimentale, renderebbe qualitativamente molto diverso tutto il suo lavoro di
indagine sul mondo esterno.

Questo, naturalmente, sarebbe solo l'inizio di un lungo cammino di indagine
interiore che neanche gli psicologi e gli psicoanalisti sono abituati a compiere,
dal momento che essi, coerentemente con l'atteggiamento generale della scienza
moderna, tendono a esteriorizzare l'indagine del mondo interiore dell'uomo. Lo
psicologo si pone di fronte al soggetto da studiare, normalmente "un altro" e non sé
stesso, come il biologo di fronte al panda o al pinguino, mentre l'analista freudiano
si pone davanti alla psiche del paziente come l'otorinolaringoiatra davanti alle
sue tonsille. Quello che si propongono è di raccogliere il maggior numero possibile
di elementi informativi esteriorizzati e resi oggettivi; il lavoro da effettuare su
questi elementi è quello di una elaborazione razionale.

In questa nostra civiltà tecnologica, molto sofferente per la sua lontananza da una
concezione naturale dell'esistenza umana, certe antiche discipline orientali,
come lo zen, lo yoga, il tao, possono svolgere una funzione importante aiutandoci a
trovare l'equilibrio che manca.

Posso garantire, per esperienza personale, che non esistono rischi, mentre il
beneficio che se ne può ricavare è veramente grandioso. Quello, per esempio, di
scoprire che la vita non è confinata nella pelle e nella corteccia degli animali e dei
vegetali, o nella membrana delle cellule, ma è uniformemente diffusa in tutto
l'universo, dove assume un numero di forme di gran lunga superiore a quello dei
cosiddetti organismi viventi.


      4500 anni fa.


Un grande fiume nasce in quello che oggi è il Tibet cinese, attraversa per breve tratto
il lembo più settentrionale dell'India, e prosegue il suo corso lungo tutto
l'attuale Pakistan, per sfociare non lontano dalla città di Karachi, dove i ghiacci
dell'Himalaya vanno così a congiungersi con le acque calde del Mare Arabico. E' il
fiume Indo, che il macedone Alessandro raggiunse all'incirca nel 326 a.C.,
inseguendo, forse, il sogno meraviglioso di compiere una colossale fusione di
elementi culturali occidentali e orientali.

In quella grande e fertile vallata, che vide l'uomo fin dagli immemorabili tempi
paleolitici, sorse 4500 anni fa, o forse anche prima, una delle primissime civiltà
della storia, la cosiddetta civiltà dell'Indo, i cui componenti appartenevano a
quella stirpe etnica che oggi è definita dravidica. Insomma, lungo il corso
dell'Indo, si verificò un evento simile, e quasi contemporaneo, a quanto succedeva
più a occidente, lungo il corso del Tigri e dell'Eufrate: gli uomini, già esperti
nella preziosa arte della coltivazione delle graminacee, costruivano
insediamenti urbani la cui organizzazione, sotto certi aspetti, poteva fare
invidia persino alla città di Londra, verso la fine del secolo scorso. A
Mohenjo-Daro, una delle più grandi città (circa 40.000 abitanti) che sorgevano a
quel tempo nella valle dell'Indo, era presente un sistema fognario efficientissimo
(che Londra ai tempi di Dickens non aveva) il quale ci testimonia due cose notevoli:
una riguarda l'avanzato sviluppo delle conoscenze tecniche, architettoniche ed
urbanistiche, l'altra, sicuramente più importante, riguarda la concezione
sociale oltremodo evoluta (altrove le grandi civiltà mostrano come il potenziale
umano sia speso più comunemente per scopi militari, o per la gloria dei
governanti-dei, piuttosto che per il benessere e la crescita della collettività).
Gli scavi archeologici, insieme alla struttura fognaria, mostrano grandi dighe per
la raccolta dell'acqua monsonica, nonchè immensi granai per la conservazione delle
messi.

Si trattava di una civiltà sostanzialmente pacifica, basata sul lavoro agricolo e
sull'allevamento, con una struttura sociale matrilineare di tipo egualitario, nel
senso che era esente da una rigida suddivisione in classi, nè aveva, come invece molte
altre grandi civiltà del passato, una struttura schiavistica; la donna non era
sottomessa all'uomo, al contrario, la sua posizione era elevata e ricopriva, per
esempio, cariche sacerdotali; la religione era basata sul culto femminile della
Dea-Madre: una spiritualità che identificava le potenze divine nella fecondità e
nelle forze naturali, e che non creava conflittualità con la sessualità.

Perché stiamo parlando di queste cose? Per il motivo che le concezioni tantriche di
cui si occupa questo volume esistono e si spiegano grazie alla antichissima civiltà
dell'Indo. Troppo spesso, infatti, il termine "indiano" è inteso come semplice
sinonimo di tutte le espressioni della civiltà di lingua, di cultura e di etnia
ariana, che attualmente risiede nel sub-continente indiano. Il tantrismo e lo yoga
tantrico non sono figli di questa India ariana e brahmanica, ma della ben più antica
civiltà dell'Indo, le cui radici etniche, linguistiche e culturali in genere, non
hanno niente a che fare con quelle dei popoli ariani che, all'incirca nel 1500 a.C.,
penetrarono nelle valli sub-himalayane, provenienti dalle pianure
centro-asiatiche e da quelle dell'Europa orientale.

La migrazione di questi rozzi popoli nomadi, di struttura patriarcale, costretti
spesso a vivere di razzia e di predazione, con una religiosità legata al culto della
forza, e la loro invasione dei territori precedentemente occupati dai popoli
dravidici sedentari, legati al culto della terra e della Dea-Madre, non è un fatto che
riguarda soltanto l'India del secondo millennio a.C. Si tratta invece di un fenomeno
di larghissima diffusione che riguarda, per esempio, anche le invasioni Ioniche,
Doriche ed Achee dei territori circum-egei, e la sostituzione della civiltà
matriarcale minoico-cretese con quella patriarcale micenea.

Le famose scritture sacre degli indù, i Veda, altro non sono che le apologie religiose
dei popoli ariani che hanno distrutto la civiltà dell'Indo e, con essa, la
religiosità di quel popolo:

"Stuart Piggot, in Prehistoric India to 1000 b.C. scrive: "Nel Rigveda, Indra è
l'apoteosi del capo tribale ariano; armato sino ai denti, colossale, barbuto,
panciuto a forza di bere, egli maneggia il lampo nei suoi momenti più divini; dal suo
carro di guerra, scocca frecce mortali...Avido, ingurgita incredibili razioni di
carne di bue, zuppe di cereali e dolci che inghiotte con enormi sorsate di soma
inebriante...". Il Rigveda (I, 53) vanta Indra che "ha rovesciato due volte dieci re
d'uomini" e "distrugge" le fortezze dei non-ariani, definiti di passaggio anasa,
senza naso, dalla pelle scura e balbettanti un linguaggio inintellegibile".

Gli Ariani non andarono tanto per il sottile, rasero al suolo le città, distrussero
sommariamene le colossali opere idriche; anzi, si servirono proprio
dell'abbattimento delle dighe per favorire spaventose alluvioni, contribuendo
così alla fine della civiltà e della organizzazione urbanistica indusiana. Ai
Dravida sopravvissuti e scampati alla sottomissione in stato di schiavitù, non
rimase che la fuga verso le regioni centromeridionali dell'India, dove ancora oggi
troviamo i loro discendenti, rappresentati dalle popolazioni Tamil.

Per molti di loro il destino fu inclemente: sfavoriti dalle evidenti differenze
somatiche (i dravidici hanno il cranio allungato, il corpo esile e la pelle scura,
mentre gli ariani hanno il cranio squadrato, il corpo massiccio e la pelle chiara),
furono relegati nella posizione di schiavi e, con lo strutturarsi, attraverso i
secoli successivi, della civiltà indo-ariana suddivisa in caste, essi finirono in
fondo alla piramide sociale. Furono i cosiddetti Parya o "fuori casta", i quali
venivano bastonati a morte se anche soltanto la loro ombra avesse osato sfiorare i
piedi di un appartenente alle caste; e tali sono stati ufficialmente fino a qualche
decennio fa, quando le leggi indiane hanno voluto, almeno formalmente, la fine del
rigido sistema castale.

La stessa religione brahmanica, figlia delle concezioni patriarcali dei
pastori-guerrieri, sanciva, e di fatto sancisce tuttora, il rigoroso sistema delle
gerarchie castali, attraverso l'idea che l'appartenenza a questo o quel grado
sociale era dovuta all'eredità karmica, cioè ai meriti o ai demeriti accumulati
nelle vite passate; così voleva lo stesso Iddio. Chi avrebbe osato mettere in
discussione la piramide sociale, o parlare di ingiustizia? Non solo il concetto
della giustizia e della uguaglianza sarebbe stato, a dir poco, eterodosso, ma
avrebbe suscitato lo scandalo che è tipico delle idee sacrileghe, contrarie alla
religione e alla volontà divina. E così, per millenni, in India, come presso molte
altre civiltà storiche, il Padre Eterno fu fatto garante e dispensatore dei
privilegi e dei vantaggi del potere.

Naturalmente la mentalità, la spiritualità, le idee, i costumi e gli altri patrimoni
culturali dei popoli dravidici sottomessi non furono completamente azzerati, ma
dettero luogo a dei fenomeni di assimilazione sincretistica, o di normalizzazione;
la qual cosa consente di ritrovare nell'universo indiano moderno elementi che non
sono ario-brahmanici, almeno nelle loro origini. Uno di questi è diventato assai
famoso anche in occidente, sebbene con una immagine del tutto distorta e riduttiva,
ed è lo Yoga.


      Lo Yoga tantrico.


Yoga è una parola molto vasta. Essa proviene etimologicamente dalla radice
sanscrita "jug", che esprimere il concetto di unione, legame. Ancora oggi troviamo
questa radice nelle parole soggiogato, coniugato, congiunto... In un certo senso il
pensiero espresso è molto simile a quella della parola "religione", che significa
legame o, meglio ancora, legame ricostituito, e vorrebbe suscitare l'idea della
ricostruzione di un legame perduto fra la dimensione umana e quella divina.

Gli Indù normalmente attribuiscono alla loro cultura ario-brahmanica il merito di
questa nobile disciplina, capace di fabbricare i santi e gli uomini di verità. Non
salta loro neanche lontanamente per la testa l'idea di pensare che la gloria e la
paternità dello Yoga possa andare, invece, a coloro che il destino ha messo nella
infame posizione di fuori casta. E poi, se andiamo a guardare i trattati dello Yoga,
anche quelli antichi, come il Bhagavad Gîtâ, è Vishnu, o Krishna, o Shiva, che
impartisce gli insegnamenti; dunque sono gli dei del pantheon indù i dispensatori di
questa eccelsa scienza divina.

Tutto questo sarebbe vero se dietro la dottrina religiosa (dietro le dottrine di
tutte le grandi religioni storiche istituzionali) non si nascondesse, sempre ed
immancabilmente, una sofisticata opera di canonizzazione e di normalizzazione
finalizzata a rendere la teologia funzionale alla conservazione dello status-quo
culturale, sociale, economico e politico, nonché alla apologia e alla difesa delle
egemonie istituzionali, prima fra tutte quella ecclesiastica.

Ci vuole un atteggiamento culturalmente onesto e disinteressato per rendersi
conto, la qual cosa, in fin dei conti, non è né difficile né complicata, che il dio Shiva
è il risultato di una sintesi che ha portato elementi non ario-brahmanici
all'interno della sfera religiosa indù. Shiva, uno dei cui nomi antichi era Ann, può
essere fatto risalire ad una divinità dravidica, dalla quale derivano i suoi
numerosi aspetti, imparentati con quelli di innumerevoli divinità di altre civiltà
storiche: dio-fuoco-sole (Agni), così come il sumero Anu, l'egiziano Osiride, il
fenicio Attis, ecc.; dio-toro, così come l'egiziano Api e il cretese Minotauro;
dio-fallo (Linga, l'organo maschile o Skanda, il getto di sperma), così come gli dei
di tante popolazioni neolitiche del mediterraneo preariano. Al dio
maschio-sole-cielo era associata spesso una dea femmina-luna-terra, che
completava così il binomio archetipico Padre-Celeste/Madre-Terra e, come Anu
affiancava Inanna, Osiride affiancava Iside e Attis affiancava Cibele, così Shiva
affianca Pârvatî o Shakti.

Il moralismo e il puritanesimo insito nella tradizione indù non sono mai riusciti a
purgare l'immagine di Shiva dalle sue originarie connotazioni di carattere
sessuale e non sono mai mancate, neanche nell'India pienamente brahmanica, le sette
shivaite che hanno adottato i rituali sessuali nella loro liturgia. Basta porre lo
sguardo sugli amplessi dei templi di Kajuraho o sulle immagini di Shiva che mostra
senza falsi pudori il suo colossale membro in erezione.

Che lo Yoga si porti dietro qualcosa che non appartiene ad un passato ariano lo
dimostra anche il fatto che l'espressione Hatha-Yoga, ormai ben nota anche agli
occidentali, contenga le parole Ha e Tha, le quali significano Sole e Luna, ma non
hanno niente a che fare con le radici sanscrite Surya e Chandra, bensì appartengono a
chissà quale antichissima radice.

Naturalmente il brahmanesimo ha cercato di arianizzare anche le concezioni e i
costumi assimilati dal contatto con popoli stranieri, creando uno Yoga reso
conforme alla tradizione Vedica: il Bhagavad Gîtâ è certamente la sua espressione
più importante, in esso si parla di una disciplina di comportamento (Karma-Yoga),
una disciplina di devozione (Bhakti-Yoga) e una disciplina di conoscenza
(Jñâna-Yoga), ormai terribilmente lontane dalla disciplina psicofisica a cui solo
lo Hatha-Yoga fa esplicito riferimento. E, soprattutto, il Bhagavad Gîtâ ribadisce
costantemente il suo concetto di fondo, colonna di sostegno della società
ario-brahmanica: il Dharma, ovverosia il compito di ognuno, che porterà alla
evoluzione karmica e alla liberazione finale, è quello di adempiere nella maniera
più corretta ai propri doveri di casta: produrre se si è Shudra, possedere e
amministrare la ricchezza se si è Vaishya, combattere e uccidere il proprio nemico se
si è Kshatriya, predicare e insegnare se si è Brahmana. E così lo stesso Krishna
(incarnazione terrena di Vishnu) cerca di convincere il guerriero Arjuna, assai
perplesso all'idea di dover dirigere le sue micidiali frecce contro parenti ed amici
d'infanzia, che il lato affettivo delle cose deve essere completamente cancellato e
solo il dovere del proprio ruolo di casta deve essere compiuto, con assoluta fermezza
d'animo.

Come abbiamo già accennato, accanto a questa normalizzazione è sempre stata
presente una corrente minoritaria, talvolta clandestina e perseguitata, che ha
tenuto in vita vecchi costumi e vecchie idee preariane sulla spiritualità e sul
contatto fra l'umano e il divino. Si parla allora di uno yoga tantrico. Il nocciolo di
questa concezione è quello che alla base di tutto l'universo regni una fondamentale
unità, e che le diversificazioni che appaiono nel mondo, a cui si devono aggiungere
quelle che l'uomo stesso crea, siano sostanzialmente false: tutte le dicotomie
(vita-morte, piacere-dolore...) sono dovute all'illusione prospettica che
l'uomo subisce fintantoché i suoi strumenti di conoscenza sono i sensi e la mente, che
la natura ha creato proprio per produrre le diversificazioni e la logica dualistica
degli istinti e delle pulsioni. Naturalmente queste dicotomie devono essere
superate, non attraverso i discorsi, le liturgie, le speculazioni filosofiche, i
moralismi e la precettistica, bensì per l'unica via in cui questo può essere
ottenuto: attraverso il raggiungimento di una esperienza diretta del potere
illusionante dei sensi e della mente, e della realtà che si cela dietro lo scenario del
mondo sensoriale. Il tantrismo è dunque una disciplina psico-sperimentale, non una
dottrina teologica.

Per fare questo, non c'è una graduatoria moralistica di strumenti, fra i quali alcuni
sarebbero intrinsecamente più nobili, come la preghiera, il culto o le opere buone;
tutte le energie possono essere utilizzate e, in particolare, proprio quella
demonizzata dall'etica comune alle più importanti religioni, la sessualità, è
considerata primaria ai fini della disciplina spirituale. Non si tratta di una
propensione fine a se stessa al pensiero controcorrente; la ragione di questa scelta
sta nel riconoscimento, direi scientifico (il quale costituisce una straordinaria
anticipazione preistorica delle intuizioni freudiane), del ruolo che la energia
sessuale svolge sia all'interno della sfera psichica che di quella fisica nel
governare il funzionamento dei processi mentali e di quelli fisiologici.

Lo Yoga tantrico ha una visione cosmologica unitaria ma polare, e sarà bene
approfondire il significato di questa espressione che, in un primo tempo, può
apparire contradditoria. Unitario presuppone l'uno come fondamentale, polare
introduce l'idea del due; dovè il punto di conciliazione fra questi concetti?

Possiamo innanzitutto dire che la concezione religiosa occidentale, figlia
dell'insegnamento biblico, non è unitaria ma dualistica: esiste la materia (la
dimensione naturale, in cui valgono le leggi che la scienza si è data il compito di
indagare), ed esiste lo spirito (la dimensione sovrannaturale, in cui valgono altre
leggi che è compito della religione svelare ai mortali). Entrambe esistono, poiché
la materia non è un'illusione o una immagine prospettica, ma il risultato di un'atto
della volontà divina: la creazione. Ecco perché il figlio di Dio, venendo sulla
terra, avrebbe mostrato agli uomini, come autentificazione e prova della propria
dignità, i miracoli, i prodigi che il potere dello spirito può effettuare annullando
le leggi della natura. Ed ecco che la natura, come controparte dello spirito,
rappresenta l'aspetto non divino della dicotomia, quello inferiore, quello da cui,
in fin dei conti, viene proprio l'insieme di tutti i mali. E' per colpa del suo
imprigionamento nel corpo materiale, soggiacente a bisogni ed istinti, che
l'anima, essenza di puro spirito, può macchiarsi di peccato.

Tutto questo l'abbiamo detto affinché, per confronto, sia chiaro il senso della
concezione unitaria, non dualistica. E' nella religione vedica, e nei suoi sviluppi
brahmanici, che troviamo una sorta di dualismo simile a quello della religiosità
biblica, ma nella concezione tantrica l'idea di fondo è quella che tutto sia uno: lo
spirito solamente esiste, il principio autocosciente, di fronte al quale lo
spettacolo dell'universo materiale, con tutta la sua molteplicità e
diversificazione, si presenta solo in virtù di un meccanismo illusionante che è
simile a quello grazie al quale l'uomo può chiamare oggetti le ombre o gli arcobaleni.
La conoscenza (non la conoscenza ordinaria che si fonda sulla raccolta e la
elaborazione mentale di immagini sensoriali), la conoscenza liberatrice che dà la
salvezza spirituale, consiste nella realizzazione di questa unità; nella
percezione della uguaglianza di fondo che esiste fra il singolo soggetto umano, il
Jivâtma (normalmente imprigionato da una percezione illusoria della propria
identità come qualcosa di separato dalle altre cose) e il soggetto universale, il
Paramâtman.

Naturamente la prima conseguenza di questa visione unitaria, diversamente da
quanto osserviamo in quella dualistica, è la mancanza di una graduatoria
moralistica di valori fra il piano materiale e quello spirituale, dal momento che le
due cose non sono più due, ma una solamente. E' vero che la materia rappresenta
l'aspetto "falso" della realtà, il frutto della illusione prospettica che nasconde
la vera natura dello spirito, ma essa è anche l'unico aspetto con cui lo spirito si
mostra all'uomo ordinario e come tale le sue leggi, le leggi della natura, sono le
leggi con cui lo spirito si manifesta, e l'energia che agisce negli elementi e nella
vita è tutt'uno con quella dello spirito. La natura non può essere demonizzata e vista
come una donna volubile che dalle grazie del suo creatore può facilmente cadere nelle
disgrazie di Satana, il signore del male; infatti la natura e lo spirito, in fondo,
sono la stessa cosa. In questo senso, alla natura e a tutte le sue manifestazioni,
anche quelle apparentemente distruttive, è dovuto lo stesso rispetto che nelle
concezioni dualistiche è dovuto al sovrannaturale.

E allora, per quale motivo all'interno di questa concezione unitaria si inserisce un
aspetto di polarità? Per la semplice ragione che non esiste divenire dove regna
l'uguaglianza assoluta. Se un mondo fenomenico appare è segno che alla sua radice c'è
una differenziazione primordiale, uno sdoppiamento di aspetti opposti ma
complementari, contrari ma uniti; come il sud e nord del dipolo magnetico, che
sembrano due, ma sono in realtà gli aspetti polari di una sola cosa. L'idea alla base
della concezione tantrica si trova anche nella filosofia cinese del Tao, dove alla
unità fondamentale di tutto l'universo si affianca il concetto degli opposti Yang e
Yin, a cui faccio riferimento perché l'interesse per l'esoterismo e le culture
orientali ne ha divulgato la conoscenza anche in occidente. Anzi, il ricorso a questo
esempio offre la possibilità, osservando il celebre simbolo grafico del Tao
suddiviso nelle sue parti Yang e Yin, di ribadire l'idea degli opposti, intimamente
legati e indissolubili, che insieme formano l'unità.


Essi rappresentano il cielo e la terra, la luce e il buio, il maschio e la femmina, la
diffusione e la coesione, il movimento e l'inerzia...; insomma, essi sono il modello
archetipico di tutte le dicotomie necessarie perchè esista un mondo fenomenico, un
divenire ed una evoluzione. Anche il computer su cui sto scrivendo può lavorare
grazie alla logica binaria dei suoi circuiti elettronici.

All'interno della concezione tantrica i due opposti polari sono rappresentati da
Shiva e Shakti, il primo associato al sole, o al membro virile (Linga), l'altra alla
luna, o all'organo femminile (Yoni) . Ed ecco che comincia a spiegarsi l'espressione
Hatha-Yoga: unione del sole e della luna; la disciplina ha come fine quello di
ritrovare l'unità dei due principi, che nel divenire sembrano operare come entità
separate. Non si tratta di una unità teorica ed esteriore, bensì di una unità da
realizzare pragmaticamente e interiormente, come vedremo in seguito.

Anche il tantrismo ha, come il taoismo, un suo simbolo che rappresenta la condizione
di unione dei due principi,


è la stella a sei punte, formata dall'unione di due triangoli equilateri, di cui
quello col vertice in basso rappresenta la Yoni, la vagina, e quello col vertice in
alto rappresenta il Linga, il pene. L'accoppiamento del maschio e della femmina,
lungi dall'avere quel carattere di profanità che lo contraddistingue nella
concezione morale cristiana (nella quale, anche se legittimato dal matrimonio e
dall'intento di procreare, resta comunque una espressione dell'aspetto animale, e
quindi basso, del vivere), è stato scelto come il simbolo privilegiato
dell'assoluto, e quindi dell'ente supremo.

Per quanto riguarda della cosiddetta "via della mano sinistra", possiamo citare un
importante rituale tantrico, il Maithuna, nel quale è fatto uso liturgico del
rapporto sessuale come mezzo per l'ottenimento di una illuminazione spirituale.
Innanzitutto sarà bene fare una premessa dicendo che in tutte le popolazioni antiche
o primitive il rituale è utilizzato come mezzo simbolico per la trasmissione di massa
di contenuti che altrimenti non potrebbero essere comunicati. Sia gli atti del rito
che le immagini adottate, i nomi delle divinità, il loro aspetto, sfruttano il potere
dei simboli inconsci i quali hanno la capacità di essere compresi da tutti, anche in
assenza di un linguaggio strutturato ed evoluto. Il rito tantrico del Maithuna vuole
introdurre l'adepto alla sacertà intrinseca dell'atto sessuale, facendogli
intuire la sua profonda implicazione nell'economia globale dell'universo. Il Guru
dirige il rito indicando ad alcuni adepti maschi e femmine le varie azioni da compiere
e le varie formule da recitare. I maschi sono gli Shiva, le femmine sono le Shakti,
generalmente nel numero di otto più otto, le coppie vengono combinate casualmente,
mediante un semplice sorteggio. La qual cosa sta a rappresentare la logica degli
eventi che, sebbene casuali, conducono ad importanti conseguenze; si pensi, per
esempio, al fatto che ciascuno di noi è il frutto di un incontro del tutto casuale fra un
ovulo e uno solo fra miliardi di spermatozoi e che, prima di ciò, si è avuto l'incontro
casuale che ha fatto unire le due persone che sono diventate i nostri genitori. Forse
l'amore fra due individui è diminuito dal fatto che il loro incontro e la loro unione è
frutto del caso?

Questo rito, che un puritano occidentale e un moralista non indugerebbero a definire
"orgia", non è fatto, come si può capire, allo scopo di creare un'occasione di piacere
fine a se stesso, ma per arrivare alla percezione del senso ultimo delle azioni.
L'atto sessuale non è stato inventato dalla perversione umana, né dalle forze del
male per offendere il creatore e trascinare gli uomini nella voragine del peccato.
L'atto sessuale è il frutto di un lungo cammino evolutivo che ha trovato nella
dialettica polare dei sessi, nello scambio del repertorio cromosomico, e nella
profonda interazione affettiva che si stabilisce, attraverso l'eros, fra i due
individui che compongono la coppia parentale, la migliore delle soluzioni per
trasmettere, moltiplicare, nonché evolvere quel complesso fenomeno di eventi che
siamo soliti chiamare vita.

Già alcuni semplici procarioti, come i batteri, per i quali si sarebbe portati a
credere che la modalità di riproduzione asessuata possa essere del tutto
sufficiente, manifestano un comportamento sessuato: una sorta di batterio maschio
immette una porzione di materiale genetico nel corpo di una sorta di batterio femmina
e, da questa fecondazione, vengono generati dei batteri figli il cui corredo
cromosomico risulta diverso da quello di entrambi i genitori. Perchè accade tutto
ciò? Per la semplice ragione che la funzione riproduttiva non svolge un ruolo
finalizzato semplicemente alla moltiplicazione delle strutture viventi ma,
soprattutto, alla loro evoluzione. E l'evoluzione non può essere affidata
solamente al fenomeno della mutazione spontanea del corredo genetico, bensì deve
essere aiutata dal continuo gioco del rimescolamento e della ricombinazione.
Pertanto l'evoluzione, assai presto, ha affidato la funzione riproduttiva, non al
singolo individuo, ma ad una coppia di individui differenziati nei loro ruoli: la
femmina può considerarsi, tutto sommato, l'essere vivente ancestrale, la
depositaria della funzione riproduttiva la quale, in origine, svolgeva tutte le
funzioni necessarie per mettere al mondo nuovi individui; da questa creatura
completa l'intelligenza che dirige i processi evolutivi ha deciso di staccare un
essere gregario, il maschio, affidandogli metà del repertorio cromosomico, e di
dare così inizio a quel gioco (o faremmo meglio a chiamarlo dramma?) che è la
sessualità, con tanto di lotta per l'accaparramento del partner, di corteggiamento
per la sua conquista, di accoppiamento, ecc... Lo scopo, lo abbiamo già detto, è
quello di garantire un continuo scambio e ricambio del materiale genetico e quindi
una continua variabilità nei caratteri della prole. Se dunque la femmina rimane
l'essere depositario di tutte le funzioni per la riproduzione e l'allevamento della
prole, il maschio è semplicemente il portatore di quella metà di repertorio
cromosomico che è stato tolto alla femmina, e la sua funzione è quella di portare in
giro le informazioni genetiche affinché possano essere variamente ricombinate.

Se ci pensiamo bene, la filosofia naturale è l'esatto contrario di quella espressa
dal racconto biblico in cui si dice che Eva fu creata da una costola di Adamo per offrire
all'uomo, altrimenti troppo solo, una compagna e un essere su cui dominare. Questo
confronto ci offre l'occasione per parlare ancora della differenza fondamentale
esistente fra i popoli primitivi nei quali vigeva un sistema matriarcale e quelli nei
quali vigeva un sistema patriarcale. L'immagine biblica tradisce una concezione
inconfondibilmente patriarcale e maschilista (che si perpetua nella mentalità
della civiltà occidentale moderna), tipica delle comunità semitiche che
popolavano le terre assolate del medio oriente alcune migliaia di anni fa, nonché di
quelle ariane che risiedevano nelle steppe dell'Europa orientale e dell'Asia
centrale, entrambe caratterizzate da una vita nomade, dall'economia di tipo
pastorale e dalla supremazia del maschio. Si tratta di quelle società che, in momenti
diversi nella storia delle diverse aree geografiche del pianeta, entrarono in
conflitto con le comunità caratterizzate da una vita stanziale, dall'economia di
tipo agricolo e dalla supremazia della femmina. Tutte queste società, oggi, hanno
una cultura ed una mentalità tale da non poter assolutamente tollerare i principi di
fondo del pensiero tantrico (naturalismo, pacifismo, femminismo,
egualitarismo...) né, tanto meno, l'idea che un rito orgiastico possa avere
qualcosa a che fare con una autentica espressione di spiritualità. Nemmeno la
civiltà brahmanica che, come figlia dell'antico processo di arianizzazione
dell'India, ha sempre relegato il tantrismo e le concezioni affini negli spazi
emarginati e clandestini del pensiero controcorrente.

Che non sia la donna ad essere stata staccata dall'uomo per svolgere un ruolo
subalterno ma, eventualmente, proprio il contrario è dimostrato dal semplice fatto
che, nell'economia della natura una strage selettiva di maschi, con pochi
sopravvissuti, non porterebbe praticamente a nessuna grave conseguenza biologica
mentre l'opposto, una strage selettiva di femmine, con poche sopravvissute,
porterebbe al rischio di estinzione della specie.

Il rito tantrico del Maithuna, che sacralizza l'accoppiamento sessuale, comporta
la visione della donna come depositaria di un potere particolare, il potere creativo
della natura, e l'idea del ricongiungimento dei principi polari che il tantrico
chiama Shiva e Shakti. Attraverso la ritualizzazione e l'uso della simbologia, che
sottrae l'atto ai meccanismi mentali profani con cui è ordinariamente compiuto, i
partecipanti, indipendentemente dalla loro cultura e dal grado di istruzione, sono
portati a percepire contenuti che, anche in una società moderna, possono essere
c