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Il capitalismo fallimentare e senza regole che piace a Giavazzi (e soprattutto ai suoi padroni)

di Eugenio Orso - 09/10/2008

 

 

 

 

Mentre Berlusconi si da fin troppo da fare, saltando come un grillo dal consiglio dei ministri al Bagaglino, per tranquillizzare con parole semplici il solito popolo bue – in buona parte preoccupato ma plaudente – in merito ai possibili sviluppi della crisi finanziaria e alla difesa dei risparmi custoditi dalle banche, l’articolista ed economista Francesco Giavazzi, camerierino dei grandi interessi economico-finanziari transnazionali che “ispirano” i suoi scritti liberisti, chiaramente apologetici del peggior capitalismo internazionalizzato e finanziarizzato, interviene dopo Ostellino sulla prima pagine del Corriere della Sera di oggi, 9 ottobre 2008, con “Il fantasma delle regole”, continuando la strenua difesa liberal-liberista – per conto terzi, cioè per conto di chi paga profumatamente simili propagandisti tardo “goebbelsiani” – del mercato onnivoro il quale rischia, sull’onda emozionale provocata dalla bufera finanziaria mondiale, di essere imbrigliato e soffocato dalle regole.

Il vincitore del premio “E’ giornalismo” nel 2007 ci avverte che è una mera illusione invocare regole, lacci e laccioli per imbrigliare la finanza impazzita, per cercare di riportare ordine nel sistema bancario, per garantire la liquidità necessaria al sistema economico, costituito dalle famiglie e dalle imprese, perché, tanto, le crisi sono “intrinseche al capitalismo” almeno quanto lo è il rischio [rischio d’impresa] affrontato sui mercati anche dai valorosi banchieri-imprenditori. E’ quindi una sciocchezza, secondo il raffinato economista che periodicamente ci illumina dalle pagine del Corriere, pensare di poter eliminare il rischio introducendo regole – che poi si dovrebbe anche far rispettare – mettendo così morsi e briglie al cavallo in corsa sfrenata.

Peccato che il rischio vero, in realtà, lo corriamo noi – e non lor signori, banchieri, manager e imprenditori che siano – perché sappiamo che quando le cose vanno bene, nei periodi di crescita economica, sono loro ed esclusivamente loro a intascare profitti crescenti, stock options da mille e una notte e grassi dividendi, mentre quando il tempo volge al brutto, come accade ora, c’è sempre lo scorrere di un fiume di denaro pubblico, proveniente dalle nostre tasche, sottratto alle famiglie e prodotto dal lavoro delle “classi subalterne” a tirarli fuori dei guai.

Il tanto vituperato intervento pubblico, perturbatore dei mercati e dell’ordine liberista, osteggiato dai grandi interessi transnazionali con tutte le armi a disposizione, compresi gli articoli su quotidiani compiacenti, è però gradito anche ai Giavazzi di turno quando inietta risorse – spesso a “fondo perduto” – nel circuito finanziario, a favore delle banche e delle imprese, ma è assolutamente sgradito quando impone regole di comportamento agli “operatori” che si muovono sul mercato o, ancor peggio, quando destina il pubblico denaro a sostegno dei ceti più deboli, della sanità e della scuola pubblica, delle pensioni e dei redditi più bassi.

Per quanto riguarda l’eroico imprenditore che affronta il rischio d’impresa, sappiamo bene che i “banchieri”-usurai non rischiano, non hanno mai avuto alcuna propensione in tal senso, avendo ampiamente dimostrato nella storia di essere soltanto dei vili grassatori, e se le cose vanno male riducono drasticamente gli affidamenti, a partire da quelli concessi ai clienti più piccoli e più deboli – come ad esempio gli artigiani e la piccola impresa – cosa che sta accadendo in queste ore anche in Italia, nel “ricco” Veneto ed altrove.

Continuando nella sua ben compensata opera di disinformazione e non pago del recentissimo intervento del IV governo Berlusconi [in concordia con Mario “Goldman Sachs” Draghi] che si impegna a rilevare, con i soldi della collettività nazionale, quote di pacchetti azionari di banche in difficoltà rifiutati dal mercato, ma soltanto temporaneamente, non avendo alcuna intenzione – sarebbe un’eresia per dei liberisti! – di procedere stabilmente alla loro ri-nazionalizzazione, l’economista del MIT Giavazzi ci rivela che negli Stati Uniti d’America, epicentro della crisi, è la politica all’origine del dissesto, avendo sottratto alla FED [la banca centrale in mani private, non dimentichiamolo] competenze sulla vigilanza delle banche d’investimento, che la perturbazione in un modo o nell’altro si sarebbe verificata ugualmente, magari a causa degli hedge funds, tristemente noti per avere nella realtà una “mission” puramente speculativa, predatoria, e che comunque non ci si può lamentare, in quanto le “economie aperte” crescono di più – il solito discorso “totemico” del P.I.L. che ci porge l’unica crescita possibile per l’umanità contemporanea – innovano e creano nuovi posti di lavoro a nostra disposizione [sempre più spesso, però, precari, sottopagati e fonte di nuove schiavitù, come abbiamo modo di osservare ogni giorno che passa]

Il messaggio che il nostro ci lancia, in soldoni, sembra essere il seguente: Altro che regole, sciagurati! Non vorrete mica che si torni all’unica regolamentazione efficace, che poi era quella sovietica, la quale vietava la libera impresa?

Nella pelosa arringa giavazziana, in difesa del Libero Mercato Selvaggio e senza regole, non poteva mancare – e infatti non manca – il riferimento alla crisi del 1929, con il monito che politiche economiche sbagliate possono portare la temuta depressione, che tocca direttamente l’economia reale e il nostro quotidiano, e trascinare nel baratro in certi paesi – oltre al sistema economico – anche la tanto preziosa democrazia …

In conclusione, anche Giavazzi oggi come Ostellino ieri, pur in modo più subdolo e indiretto di questo ultimo, partendo furbescamente dal discorso dell’efficacia regole imposte al mercato, paventa il rischio di un “ritorno” dell’autoritarismo anti-democratico e dell’intromissione dello stato nell’economia – leggi nei grandi interessi privati che sempre riscuotono i dividendi e mai pagano i loro errori – rivelando in tal modo che è in corso sui giornali, a partire dal Corriere della Sera, una vera e propria campagna propagandistica, orchestrata dai “datori di lavoro” dei vari Giavazzi e Ostellino, a difesa del libero mercato, del liberismo, della liberaldemocrazia ma, soprattutto, del loro potere, dei loro profitti e delle loro enormi fortune.