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Il mondo matematico di Platone è «reale»?

di Francesco Lamendola - 24/10/2008


Riflessioni sulla prospettiva di Roger Penrose

Abbiamo già avuto modo di occuparci, nel corso di parecchi dei precedenti lavori, del problema relativo al grado di realtà che possiedono gli enti matematici; che è un aspetto particolare di una problematica più vasta, quella relativa ai diversi gradi di realtà degli enti, nonché del rapporto reciproco fra gli enti materiali (cui nel linguaggio comune si attribuisce la vera «realtà», mentre si tratta di semplice esistenza) ed enti di natura immateriale: numeri e figure geometriche, ma anche concetti morali, estetici, filosofici.
Ora vogliamo iniziare una riflessione più specifica su quest'ultimo aspetto - quello generale - di tale problematica; uscendo, perciò, dal campo della filosofia della matematica (ad esempio, dall'ambito delle riflessioni di Gottlob Frege) per estenderla all'intera realtà del mondo, qualunque cosa noi possiamo intendere con quest'ultima espressione.

Incominceremo col domandarci: un numero - il numero 1.236, ad esempio, esiste solo nella mente di coloro che, per la prima volta, lo hanno pensato, o esisteva già da prima, indipendentemente da ogni possibile pensiero delle menti capaci di pensarlo? Esisteva, vogliamo dire, non solo prima di essere pensato, ma anche anteriormente al pensiero stesso?
Se no, dovremmo dedurne che esso ha incominciato a esistere solo quando fu pensato per la prima volta. Eppure la sua esistenza era implicita in quella della serie numerica: posta quest'ultima, qualunque numero deve divenire non solo possibile, ma necessario: deve, quindi, passare dalla sfera della esistenza (implicita nel fatto che esistono i numeri precedenti e quelli successivi) a quella della realtà (che è assoluta e necessaria: non verità di fatto, ma di principio).
Certo, una volta ammesso che il numero 1.236 possiede non solo l'esistenza (come la possiedono il signor Bianchi o il signor Verdi), ma anche la realtà (come la possiede l'essere umano in quanto tale), si tratta di vedere che grado realtà inerisca ad esso. Se, per esempio, ammettiamo che il 1.236 è reale come oggetto del pensiero, che cosa succederebbe qualora tutte le menti pensanti cessassero di esistere? La scomparsa delle menti causerebbe la scomparsa di quel numero, cancellandone sia l'esistenza, sia la realtà? Oppure la realtà continuerebbe ad esistere?
In effetti, la scomparsa di un oggetto - ad esempio, la morte di un essere animato - segna la fine della sua esistenza, ma non della sua realtà. Ciò che è esistito, è stato reale: e ciò che è stato reale, continua a possedere l'attributo della realtà indipendentemente dalle barriere dello spazio e del tempo.
Dunque, se la realtà è una forma di esistenza non fisica, che oltrepassa i concetti di spazio e tempo, ciò vuol dire che essa si colloca nella dimensione dell'infinito e dell'eterno. Una cosa reale, esiste per sempre e dappertutto: possiede un grado di esistenza che è diverso da quello dell'esistenza fisica.
Ma, allora, non è forse vero che la realtà è una categoria ontologica più forte dell'esistenza, perché non ne subisce le limitazioni di prima e dopo, di qui e là? Mentre, nel linguaggio comune, sembra essere vero il contrario: per esso, una cosa sembra essere tanto più «vera», quanto più possiede una fisicità, occupa uno spazio, si situa nel tempo; con la conseguenza che la si può vedere, toccare, misurare - o, magari, riprodurre in laboratorio.
Questa è una conclusione notevole.
Dire che una cosa reale è eterna e infinita, e dire che è più consistente di una cosa «semplicemente» esistente, significa dire anche che quella cosa si colloca in un altrove atemporale e immutabile, non corruttibile e quindi perfetto: un altrove che Platone chiamava Iperuranio e che noi possiamo chiamare con altri nomi, ma intendendo, press'a poco, la stessa cosa che intendeva lui. E cioé che la  vera natura del tutto non è composta dalla somma della pluralità degli enti, bensì dai modelli originari, immutabili e incorruttibili, di quei modelli che possiedono un'esistenza fisica e, appunto perciò, sono soggetti a tutte le vicissitudini delle cose contingenti.
Mirabile intuizione!
La matitaa che io ora stringo in mano, se non vi rifletto sopra approfonditamente, potrebbe anche apparirmi come una cosa estremamente reale; mentre il fatto che essa domani potrebbe non esserci, e che potrebbe non esserci neppure ora (nessuno vorrà sostenere che essa debba esserci per forza e ad ogni costo, crediamo), mi fa avvertito che essa gode di un grado di realtà estremamente relativo, estremamente debole e precario.
Viceversa l'idea di matita, l'idea dell'oggetto chiamato matita, pur non possedendo un'esistenza fisica, gode di un grado di realtà decisamente forte: chi mai la potrà distruggere? Chi potrà dire che esiste in un dato momento, e che, in un altro momento, ha cessato di esistere? Chi oserebbe mettere in dubbio che essa continuerà ad esistere anche dopo che tutte le matite del mondo siano scomparse; e che esisteva ancor prima che fosse creata la prima di tutte le matite?

Sorge, però, un'obiezione.
Se è possibile ammettere la realtà di tutti i numeri compresi nella serie numerica, e, per analogia, anche quella di tutti gli altri enti della matematica, comprese le figure e i volumi geometrici, perché mai dovremmo fare lo stesso per ogni altro ente, ad esempio per l'idea di matita? In fondo, che cos'altro è una matita, se non un oggetto pensato e fabbricato dalle menti umane? E, se è così, come si potrà affermare che l'idea della matita preesisteva alle menti, e che essa è atemporale ed extraspaziale, ossia infinita ed eterna?
Questa obiezione, se ben la si esamina, possiede una evidenza solo apparente.
È vero che le menti possono pensare solo quello che, effettivamente, pensano: ma chi pensa le menti, perché possano pensare la realtà che forma il loro mondo? Evidentemente, anche le menti sono degli enti accidentali; potrebbero non esserci, o non esserci più, o non esserci ancora. Però, se ci sono, vuol dire che qualcuno le deve pure aver pensate, secondo il vecchio (e mai smentito) motto di George Berkeley: esse est percipi, ossia: essere è l'essere percepito.
Ora, se le menti esistono in virtù del pensiero di qualcuno o di qualcosa che le pensa, allora ciò vuole dire che gli enti che esse pensano, come la matita di cui stavamo ragionando, non sono stati veramente pensati da loro per la prima volta; ma erano già inclusi nel pensiero di questo pensante originario, il quale, insieme agli enti di prima generazione, ha pensato - contemporaneamente .- anche quelli di seconda, di terza e così via.
Dunque, anche la matita - così come le menti che la pensano - possiede, oltre all'esistenza fisica - accidentale e contingente - anche una esistenza assoluta, ossia una realtà incondizionata ed eterna, in un livello di realtà diverso da quello che siamo in grado di percepire sensibilmente. Possiamo però intuirlo a mezzo del pensiero analogico, così come facciamo per gli enti matematici: inferendo, dall'esistenza di cerchi, quadrati, triangoli più o meno imperfetti, esistenti in natura o realizzabili con strumenti materiali, quella di cerchi, quadrati e triangoli ideali, che non appartengono al nostro mondo fisico, ma vivono eternamente in un  incorruttibile altrove.
Nessuna cosa che noi possiamo pensare, o anche costruire materialmente, possiede più che la realtà della propria esistenza: realtà imperfetta ed umbratile; ma, attraverso il pensiero di quella cosa, noi possiamo giungere all'intuizione (Platone avrebbe detto: alla contemplazione) dell'immagine ideale ed eterna di ciascuna cosa, la cui realtà è perenne e indistruttibile, perché non legata alle menti che la pensano, ma vivente di vita propria.
Esistono, in quell'altrove, anche quelle cose che, finora, nessuna mente ha mai visto e neppure pensato?
Certamente; e anche quelle che, forse, nessuna mente mai vedrà e mai penserà. In quell'altrove esistono tutti gli enti possibili, e tutte le loro relazioni possibili, con gli intrecci complicatissimi che ne derivano: esistono, cioè, tutti i compossibili; ossia, contemporaneamente (ma su diversi piani di realtà) tutti i passati, i presenti e i futuri per ogni singola cosa, per ogni singola azione, per ogni singolo pensiero.
E tutto quello che, nel mondo fisico, o anche nel mondo mentale, verrà all'esistenza, non nascerà dal nulla, ma verrà da quell'altrove, come da un gigantesco magazzino cosmico ove tutto si trova già presente, e attende solo di manifestarsi alle menti nel loro mondo o livello di realtà.
Esistono, quindi, tre mondi o livelli di realtà:
a) il mondo degli enti materiali;
b) il mondo degli enti mentali:
c) il mondo delle essenze ideali ed eterne.

Nel suo volume La strada che porta alla realtà. Le leggi fondamentali dell'Universo (titolo originale: The Road to Reality, 2004; traduzione italiana di Emilio Diana, Rizzoli Editore, Milano, 2006, 2007, pp. 11-17),  Roger Penrose, uno dei più grandi fisici viventi, scrive:

«La geometria euclidea è una struttura matematica con propri specifici assiomi (che includono alcune asserzioni meno sicure, chiamate postulati) che offriva un'eccellente approssimazione di un particolare aspetto del mondo fisico. Questo era l'aspetto di realtà, ben familiare agli antichi greci, che facevano riferimento alle leggi che reggono la geometria di oggetti rigidi e le loro relazioni con altri oggetti rigidi, quando sono mossi nello spazio tridimensionale. Alcune di queste proprietà erano così familiari e coerenti che tendevano a essere ritenute verità matematiche «ovvie» ed erano prese come assiomi (o postulati). (…) la relatività generale di Einstein - e anche la relatività di Minkowsy della relatività speciale -  forniscono geometrie per l'universo fisico che sono diverse, ma tuttavia più precise della pur straordinariamente precisa geometria di Euclide. Dobbiamo quindi valutare bene, quando prendiamo in considerazione  asserzioni geometriche, se sia possibile credere  che gli «assiomi» siano, in qualsiasi senso, effettivamente veri.
Ma che cosa significa «vero» in questo contesto? (…) Platone chiarì che le asserzioni matematiche  - le cose che potevano essere ritenute incontestabilmente vere -  si riferivano non a effettivi oggetti fusici (come gli approssimativi quadrati, triangoli, cerchi, sfere e cubi che potevano essere disegnati sulla sabbia o costruiti con legno o pietra) ma a certe entità idealizzate, o idee. Egli immaginò che queste entità ideali abitassero in un altro mondo, distinto dal mondo fisico. Oggigiorno possiamo fare riferimento a questo mondo come al mondo platonico delle forme matematiche. Le strutture fisiche, come i quadrati, i cerchi o i triangoli ritagliati dal papiro o tracciati su una superficie piatta, o forse i cubi, i tetraedri o le sfere scolpiti nel marmo, potrebbero essere rigorosamente conformi a questi ideali, ma soltanto in modo approssimato.  I reali quadrati, cerchi, cubi, sfere, triangoli matematici non farebbero parte del mondo fisico, ma risiederebbero nel mondo matematico delle forme idealizzate di Platone.
Questa fu un'idea straordinaria per quell'epoca, e si è rivelata molto potente. Ma il mondo matematico platonico esiste effettivamente, in qualsiasi senso? Molti tra filosofi e persone comuni potrebbero ritenere un simile «mondo» una perfetta finzione, un esclusivo prodotto della nostra sfrenata immaginazione. Tuttavia il punto di vista platonico ha davvero un immenso valore. Ci dice di prestare attenzione a distinguere le esatte entità matematiche dalle approssimazioni che vediamo intorno a noi nel mondo delle cose fisiche. Inoltre ci fornice lo schema in base al quale la scienza moderna ha proceduto da allora. Gli scienziati suggeriscono modelli del mondo - piuttosto di certi aspetti del mondo - e questi modelli possono essere testati contro osservazioni precedenti e contro i risultati di esperimenti accuratamente progettati. I modelli sono ritenuti appropriati se superano questi rigorosi esami e se, oltre a ciò, sono  strutture internamente coerenti.  Per la nostra attuale discussione, il punto importante riguardi questi modelli è che essi sono fondamentalmente modelli matematici puramente astratti. La questione stessa della coerenza interna di un modello scientifico, in particolare, richiede che il modello sia esattamente specificato. Questa precisione esige che il modello sia matematico, perché altrimenti non si può essere sicuri che tali questioni abbiano risposte ben definite. Se al modello in sé viene assegnato qualsiasi genere di «esistenza», allora questa esistenza è collocata nel mondo platonico delle forme matematiche. Naturalmente, si potrebbe assumere un punto di vista opposto: e precisamente che il modello in sé esista soltanto nelle nostre menti, invece di ritenere che il mondo di Platone sia in un qualsiasi senso  assoluto e «reale». Tuttavia si possono raggiungere significativi risultati postulando che le strutture matematiche abbiano una propria realtà. Le nostre menti individuali, infatti, sono notoriamente imprecise, inaffidabili e incoerenti nei loro giudizi. La precisione, l'affidabilità e la coerenza, che le nostre teorie scientifiche richiedono, esistono qualcosa che vada oltre ciascuna delle nostre labili menti individuali. Nella matematica troviamo una consistenza decisamente maggiore rispetto a quella che può trovarsi in una qualunque mente particolare. Tutto ciò non si rivolge a qualcosa al di fuori di noi e a una realtà che si trova al di là di ciò che ciascun individuo può raggiungere?
Nonostante ciò, si potrebbe ancora assumere il punto di vista alternativo che il mondo matematico non abbia alcuna esistenza indipendente e consista soltanto di certe idee, distillate dalle  nostre menti, talmente degne di fiducia che hanno conquistato il consenso di tutti. Ma anche questo punto di vista è manchevole sotto molti riguardi. Il «consenso di tutti», per esempio, significa veramente questo o significa il «consenso di quelli che sono saggi» o «il consenso di tutti quelli che hanno un dottorato in matematica» (non di grande utilità al tempo di Platone) e che hanno il diritto di azzardare un'opinione «autorevole»? Sembra che qui vi sia un pericolo di circolarità: infatti, per giudicare se qualcuno è o no «saggio», occorre  basarsi su qualche criterio esterno.  E lo stesso avviene per il significato di «autorevole», a meno che si adotti qualche criterio di natura non scientifica, come «l'opinione della maggioranza» (e si dovrebbe chiarire che l'opinione della maggioranza, per quanto possa essere importante, per un governo democratico, non dovrebbe assolutamente essere impiegata come il criterio di accettabilità scientifica). Sembra proprio che la matematica abbia una forza che va ben al di là  di ciò che qualsiasi singolo matematico è capace di percepire. Quelli che lavorano in questo campo, siano essi attivamente impegnato nella ricerca matematica o usino risultati ottenuti da altri, hanno di solito la sensazione di essere soltanto esploratori in un mondo che giace oltre loro stessi, un mondo che possiede un'obiettività che trascende la semplice opinione, sia che tale opinione sia loro o la congettura di altri, non importa quanto esperti.
Può essere d'aiuto sistemare in una maniera differente le argomentazioni a favore dell'esistenza del mondo platonico. Ciò che intendo con il termine «esistenza»è realmente solo l'obiettivo della verità matematica. L'esistenza platonica, a mio modo di vedere, fa riferimento all'esistenza di un oggettivo modello esterno che non dipende dalle nostre opinioni individuali e neppure dalla nostra particolare cultura. Una simile «esistenza» potrebbe anche riferirsi a oggetti diversi dalla matematica, che sembra essere una questione molto più chiara.
Lasciatemi illustrare tale questione prendendo in considerazione un famoso esempio di verità matematica, e lasciatemi collegarlo alla questione dell'obiettività. Nel 1637 Pierre de Fermat fece la sua famosa asserzione ora nota come «ultimo teorema di Fermat» (nessuna potenza ennesima positiva3  può essere la somma di due altre potenze ennesime positive, se n è un numero intero più grande di 2), che poi trascrisse sul margine della sua copia di Arithmetica, un libro scritto nel terzo secolo dal matematico greco Diofanto. Su questo margine Fermati scrisse anche: «Ho trovato una dimostrazione veramente notevole che questo margine non può contenere». L'asserzione matematica di Fermat rimase non confermata per più di 350 anni, nonostante i grandi sforzi di molti eccellenti matematici. Solo nel 1995 Andrew Wiles ha trovato una dimostrazione (che dipende da precedenti lavori di altri matematici) che è stata accettata come un valido argomento dalla comunità scientifica.
Ora dobbiamo considerare che l'asserzione di Fermat sia sempre stata vera, ancora prima della reale formulazione dello stesso Fermat, oppure che la sua validità sia una questione puramente culturale, dipendente dagli standard soggettivi della comunità dei matematici? Tentiamo di supporre che la validità dell'affermazione di Fermat sia, in effetti, una questione soggettiva. Non sarebbe stata allora un'assurdità per un matematico per un matematico X presentarsi con un effettivo e specifico controesempio all'asserzione di Fermat, purché X avesse fato questo prima del 1995. In tali circostanze la comunità matematica avrebbe dovuto accettare la correttezza del controesempio di X.  Da allora in avanti qualsiasi sforzo da parte di Wiles di dimostrare l'asserzione di Fermat sarebbe stato infruttuoso, per il motivo che X è arrivato per primo e, a causa di ciò, l'asserzione di Fermat sarebbe ora falsa! Inoltre potremmo chiederci  ulteriormente se, in conseguenza della correttezza dell'imminente controesempio di X,  lo stesso Fermat avrebbe dovuto necessariamente essere in errore nel credere alla fondatezza della sua «veramente notevole dimostrazione, quando scrisse la sua nota a margine.  Dal punto di vista soggettivo della verità matematica, probabilmente Fermat aveva una valida dimostrazione (che sarebbe stata allora accettata dai suoi pari, se l'avesse rivelata) e fu la sua riservatezza a consentire che X ottenesse iù tardi un controesempio! Io penso che virtualmente tutti i matematici, a prescindere dagli atteggiamenti professati rispetto al «platonismo», considererebbero simili possibilità palesemente assurde.
Potrebbe anche darsi, naturalmente, che l'argomento di Willes contenga in realtà un errore e che l'asserzione di Fermat sia davvero falsa. O vi potrebbe essere un errore fondamentale nell'argomento di Wiles, ma nonostante ciò l'asserzione di Fermat sarebbe vera. O potrebbe essere che l'argomento di Wiles sia essenzialmente corretto pur contenendo «passaggi non rigorosi» che non sarebbero all'altezza dello standard di qualche futura regola di accettabilità matematica. Tali questioni però non si applicano al punto che qui sto trattando. Il problema è l'obiettività dell'asserzione di Fermat in sé e per sé, non se la particolare dimostrazione di essa (o della sua negazione) da parte di qualcuno possa risultare convincente alla comunità matematica di qualunque particolare epoca.
Si dovrebbe forse precisare che, dal punto di vista della logica matematica, l'asserzione di Fermat è effettivamente un'affermazione matematica di tipo particolarmente semplice, la cui oggettività è piuttosto evidente.  Soltanto una piccolissima minoranza di matematici riterrebbe  che la verità di simili affermazioni sia in qualunque modo «soggettiva» (anche se vi potrebbe essere un po' di soggettività sul genere d'argomento che sarebbe ritenuto convincente.  A ogni modo, vi sono altro tipi d'affermazione  matematica la cui verità potrebbe plausibilmente essere ritenuta una «questione d'opinione». L'affermazione di questo tipo meglio conosciuta è forse l'assioma di scelta. Al momento non è importante per noi sapere che cosa sia l'assioma di scelta. Qui è citato solo come esempio. La maggior parte dei matematici considererebbe probabilmente l'assioma di scelta come «ovviamente vero», mentre altri lo possono ritenere un'asserzione alquanto discutibile, che potrebbe persino essere falsa (io personalmente sono orientato, in una certa misura, verso questo secondo punto di vista). Altri ancora la riterrebbero un'asserzione la cui «verità» è una pura questione d'opinione o, piuttosto, qualcosa che può essere trattato differentemente, in base a quale sia il sistema d'assiomi e di regole di procedura (un «sistema formale») a cui si sceglie di aderire. I matematici che sostengono quest'ultimo punto di vista (ma che accettano l'oggettività della verità d'affermazioni matematiche particolarmente evidenti, come l'asserzione di Fermat appena discussa)sarebbero dei platonici relativamente deboli. Quelli che aderiscono all'oggettività, per quanto riguarda la verità dell'assioma di scelta, sarebbero più fortemente platonici. (…)
Le asserzioni matematiche che possono appartenere al mondo platonico  sono quelle oggettivamente vere. In verità, io riterrei che l'oggettività matematica sia il reale argomento del platonismo matematico.  Dire che un'asserzione matematica ha un'esistenza platonica significa soltanto affermare che è vera in senso oggettivo. Una discussione simile si applica a nozioni matematiche - come il concetto del numero 7, per esempio, o la regola di moltiplicazione dei numeri interi o l'idea di un insieme contenente un numero infinito d'elementi - che hanno tutte un'esistenza platonica perché sono nozioni oggettive. L'esistenza platonica, secondo il mio modo di pensare, è semplicemente una questione di oggettività e, di conseguenza, non dovrebbe essere ritenuta qualcosa di «mistico» o «non scientifico», nonostante alcune persone la pensino in questo modo.
Tuttavia, come nel caso dell'assioma di scelta, la questione se qualche particolare proposta di un'entità matematica debba o non debba essere considerata come dotata di un'esistenza oggettiva può essere delicata e qualche volta tecnica. Nonostante ciò, non è certamente necessario essere matematici per apprezzare la generale robustezza di molti concetti matematici. (…)
Mi rendo conto che vi sono ancora molti lettori che hanno difficoltà ad assegnare alle strutture matematiche qualche genere di reale esistenza; a questi chiedo solo di allargare la loro nozione di ciò che intendono per «esistenza». Le forme matematiche del mondo platonico non hanno evidentemente lo stesso tipo di esistenza dei comuni oggetti fisici, come tavoli o sedie. Non hanno una posizione spaziale e non esistono nel tempo. Si deve pensare che le nozioni matematiche oggettive siano entità atemporali, che non devono essere considerate come esistenti soltanto nei momenti in cui sono percepite dagli esseri umani per la prima volta.

I rapporti reciproci che esistono fra questi tre mondi - il mondo degli oggetti fisici, il mondo degli oggetti mentali e il mondo delle realtà ideali ed eterne - sono di natura complessa e, in parte, misteriosa.
Vi è una mescolanza fra il primo e il secondo; perché, contrariamente a quello che pensava Cartesio, res extensa e res cogitans non sono rigidamente separate. Il mondo della realtà fisica coesiste con quello della realtà spirituale: se essere è l'essere percepito, allora nessun oggetto fisico è soltanto fisico, ma possiede anche un certo grado di realtà spirituale. Un oggetto che sia soltanto fisico non potrebbe percepire nulla; e un oggetto che sia soltanto spirituale non potrebbe percepire che altri oggetti spirituali.
Se noi possediamo una certa percezione e, quindi, una certa conoscenza della realtà esterna, ciò avviene perché possediamo una natura mista, spirituale e materiale; e poco importa, ai fini della nostra presente riflessione, se quest'ultima è - come siamo portati a credere - fondamentalmente illusoria. Finché perdura un sogno i cui contenuti appaiono fortemente realistici, essi, per il sognatore, sono la realtà; e, all'interno dell'esperienza onirica, non fa alcuna differenza tra una realtà di primo, di secondo o di terzo grado (come sarebbe il fatto di sognare che si sta sognando: e così via, ad infinitum).
Del resto, secondo certe dottrine mistiche indiane, specialmente induiste, il mondo intero quale noi lo conosciamo - cose, persone, situazioni, pensieri - non è forse un sogno di Dio? E, similmente, l'esperienza della nostra vita - luoghi, persone, eventi, emozioni - non potrebbe essere tutta un sogno, sognato da qualcuno che ci sta sognando? Ma, finché il sogno dura, esso non è affatto qualcosa di inconsistente: esso è realtà. E le vicende che in esso vengono vissute, le scelte che vengono fatte, gli incontri e i distacchi, tutto questo non è illusorio: è reale, e ha un significato tremendamente serio.
Lasciamo stare, per ora - perché esulta dalla nostra presente prospettiva - quale possa essere il significato e quale lo scopo di un simile gioco di specchi tra enti sognanti ed enti sognati. Noi pensiamo che, appunto, esso rivesta una funzione che non è quella di un semplice gioco divino - līlā, in sanscrito -, se alla parola «gioco» attribuiamo un significato puramente ludico e del tutto estemporaneo. Ma il gioco non è solo questo; il gioco, specialmente in certi contesti e in certe fasi della vita - particolarmente nell'infanzia - è una modalità di rapporto col mondo che è piena di poesia, di serietà e di significato. Di tutto questo, però, parleremo in altra sede; ora ciò esula dal nostro ragionamento.
Se il mondo degli oggetti fisici e quello degli oggetti mentali sono interconnessi, va da sé che il secondo contiene il primo, ma non viceversa; ammesso e non concesso, come dicevamo poc'anzi, che possa darsi un mondo fatto soltanto ed esclusivamente di realtà fisica.
Il mondo delle realtà ideali ed eterne giace, al contrario, in un altrove che eccede radicalmente la misura dei primi due mondi; è un mondo totalmente altro, che - come già abbiamo detto - supera di gran lunga i confini dello spazio e del tempo.
D'altra parte, bisogna ammettere che una qualche forma di relazione deve esistere, benché a noi risulti pressoché ignota, fra questo terzo mondo e i primi due.
È chiaro che vi è una qualche partecipazione fra il mondo ideale e quello mentale, altrimenti noi, ora, non potremmo nemmeno parlare di simili cose. Ed è altrettanto evidente che si dà anche una partecipazione fra il mondo ideale e quello fisico, dato che esistono in natura delle copie approssimative degli enti di quello, a cominciare dalle figure della geometria.
Si prenda il caso di un triangolo.
Noi possiamo concepire tre livelli di realtà per un simile ente:
a) il livello materiale, ossia quello del triangolo disegnato da una mano umana;
b) il livello mentale, ossia quello del triangolo concepito dalla nostra mente, per via d'immaginazione;
c) il livello ideale, ossia quello del triangolo in sé, che ci è dato intuire per via di astrazione, come qualcosa che esiste indipendentemente dai primi due e che, in qualche modo, ne costituisce il fondamento ontologico, conferendo loro un certo grado di realtà contingente. Ma che continuerà ad esistere anche dopo che l'ultima mente avrà smesso di pensarlo, così come esisteva prima; e che nessuno potrebbe pensare, se già non esistesse in un altrove assoluto.»

Pirandello sosteneva che un autore non crea veramente i suoi personaggi, ma si limita a dar loro espressione; essi, però, esistevano già, così come continueranno ad esistere per moltissimo tempo anche dopo che il loro autore sarà stato dimenticato.
Pirandello, però, riteneva che ai personaggi manchi l'esistenza, così come alle persone mancherebbe  l'essenza.
Non potrebbe darsi, invece, che possedere una essenza - così come, ad esempio, il nostro triangolo ideale ed eterno - implichi anche possedere l'esistenza, anzi, l'esistenza nel suo grado più alto, ossia l'esistenza assoluta: che non ha un principio e una fine, perché è qualche cosa di simile a un sogno divino, eterno e infinito?