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Pennacchi e Pennacchi. Intervista ad Antonio Pennacchi

di Susanna Dolci - 24/10/2008

 

 

 

 

La prima volta che sentii parlare di Antonio PennacchiW non me la ricordo. Ricordo però che andai alla biblioteca locale, ben fornita, e mi feci dare tutto quello che era reperibile sullo scrittore in questione. Tornai a casa con Mammut (Donzelli, 1994), “Palude: storia d’amore, di spettri e di trapianti” (Donzelli, 1995) ed una serie di articoli dalla rivista “LimesW” editati tra il 1998 ed il 2003. Mi chiusi in casa un intero fine settimana e lessi tutto. Rimasi di stucco o, a miglior scelta in alcuni casi, mi sganasciai dalle risate sino a piangerne. Non era possibile, mi dicevo, questo è un genio della penna, uno stregatto dello spirito, un illuminato del rocambolesco e dell’assurdo, de che te pare. Ma è uno che sa scrivere. E questo mi bastava. 2003 esce il suo di lui “Il fasciocomunistaW vita scriteriata di Accio Benassi” da cui, nel 2007, il contestato film “Mio fratello è figlio unico” di Daniele Lucchetti.

 

A seguire, nel 2006, arriva in libreria un vero e proprio capolavoro “Shaw 150: storie di fabbrica e dintorni“. Lo presi e me lo portai ad una noiosa conferenza di fisici e matematici. Stavo là, come un pesce fuor d’acqua, per mere questioncelle di lavoro. Tatticamente mi accomodai nel fondo della sala ed iniziai a leggere il volumetto di racconti. Lo divorai in meno di un’ora. Era perfetto, concluso in se stesso, stilisticamente intoccabile e contenutisticamente divino. Solo alla fine dellultima riga, tronfia sulla poltrona per la prelibatezza appena mangiata, mi accorsi che un signore accanto a me si era segnato su un foglio l’autore ed il titolo. E che rideva, sornione, sotto i baffi.
Quando posso, dico alle mie vittime in libreria: “Ehi leggiti un Pennacchi. Ti fa bene!”. Qualcuno lo fa e se ne innamora (come l’amico Mario Grossi). Altri storcono un po’ il nasin. Ma non c´è tema: tanto poi gli rifilo, la volta dopo, un pappone da suicidio. Vendetta, dolce vendetta… Non ho mai riletto un libro di Antonio. Non ce n’è bisogno. Non è necessario. Non lo si deve fare.

 

Una volta sola è per tutta la vita. Punto e basta. Intanto, se il nostro me lo permette, di seguito una piccola spigolatura sulla sua persona, tratta dal Catalogo dei Viventi (5062 italiani notevoli), AA.VV., ed. 2007, terza edizione, Marsilio ed.: ‘Pennacchi Antonio: Latina 1950. Scrittore. tra i suoi libri: Mammut (94), Palude (95), Una nuvola rossa (98), tutti pubblicati da Donzelli. ‘Uno scrittore operaio. Fratello di Gianni (ex Servire il popolo, giornalista prima della Stampa e adesso del Giornale), fratello anche di Laura (ex sottosegretario al Tesoro), usa un italiano piuttosto colorito’.

 

«Quando vado a un convegno, non riesco a star zitto. A un certo punto devo per forza alzarmi e dire il contrario di quello che è stato detto fino a quel momento. Mia madre diceva che parlo a vanvera. Mia moglie che sono un incontinente verbale. Ho fatto lotte politiche e sindacali. M’hanno espulso dal MSI, dalla CGIL, dal PCI. Sono stato in Servire il popolo con Brandirali, nel PSI, nella UIL. Mi sono iscritto all’università a 40 anni, mentre ero in cassa integrazione. Avrei voluto fare l’esame di Letteratura Italiana con Asor Rosa. Pensavo: ‘Scrive sull’Unità, bravo compagno’. Poi ho sentito la prima lezione, ho detto: ‘Ma vaffanculo’ (cur. Claudio Sabelli Fioretti)».

 

… Concordando con il ‘saluto’ finale al di cui sopra ‘magnifico’ docente della Facoltà di Lettere che sono riuscita ad evitare come la peste negli ormai lontanissimi anni universitari, trovo sempre più calzante per il Pennacchi l’immagine simbolica di un mortale di stampo a ‘fu’ fascio&martello… Chi lo amerà od odierà adesso? Nell’attesa di sciogliere il dubbio ci siamo rivolti proprio a lui, all’Uomo dell’Agro Pontino per rompergli un po’ le scatole con qualche domandina. Ma ci perdonerà, perché in fondo in fondo ci vuole bene…. Spero!

 

Il dubbio nasce subito spontaneo… Ma ad Antonio Pennacchi piace essere intervistato?
No, non mi piace.

 

Altrimenti possiamo tranquillamente restare in silenzio.
Eh!

 

Prima fascio, poi comunista… Dunque alla fine chi? Forse il tanto atteso essere umano della terza via (poi non ho mai capito ‘sta storia de ‘sta via). Ed ancora “Pennacchi narratore per nascita. Storico per necessità…”. Chi è Antonio Pennacchi per Pennacchi Antonio? Che altro o chi ulteriormente?
È
uno che cerca. Che cerca e non trova.

 

Pennacchi o lo si ama o lo si odia o…
Io non so se m’amo, ma certe volte m’odio.

 

Fascio e Martello viaggio per le città del Duce è la sua ultima fatica. Ma prima Mammut, Palude, Una nuvola rossa, L’autobus di Stalin e altri scritti, Il fasciocomunista, Shaw 150, storie di fabbrica e dintorni. A quale di questi Pennacchi è più legato? Quale cambierebbe e quale rinnegherebbe? Quale vorrebbe ri-scrivere?
Tutti uguali, e riscritti più volte.

 

Che tipo di reazioni hanno i di Lei lettori?
E io che ne so? Lo chieda a loro.

 

Ma poi, in verità, Lei consiglierebbe la letta dei suoi libri? Ed a chi?
Senta, è vero che ogni tanto soffro di carenze d’autostima, ma mo’ ci manca pure che dica proprio: “non leggete i miei libri”? Ma vada un po’ affanculo va’, a tutto c’è un limite. E che cazzo li scrivo a fare, allora?

 

 

Pennacchi di una cosa sono assai lieta. Lei ama profondamente sua moglie. Non mi dica di no altrimenti non capirei la splendida dedica a piè di V pagina di Fascio e Martello (Questo libro è anche un po’ - anzi parecchio - di Ivana Busatto, che oltre che fotografo è stata il vero ufficiale navigatore di questo viaggio. E non solo di questo, essendo pure mia moglie) e sarei costretta a prenderla a sberle… metaforiche… per carità. Dunque… Una santa donna? La Musa ispiratrice? Martire…
Il dramma però è che io quella dedica non l’ho messa per convincere lei, ma mia moglie, che invece continua a non crederci. Dice che è una martire e che prima o poi mi pianta, e tutte le volte che litighiamo, a un certo punto strilla: “Fascista! Sei un fascista! È inutile che vai in giro a dire che sei comunista, puoi imbrogliare gli altri ma a me no, io lo so che dentro l’anima sei proprio un fascista”…

 

Senta un po’, una curiosità, ma Lucio Caracciolo che ha scritto la presentazione aggratis al suo ultimo nato editoriale, è proprio così “originale” di natura? Perché se sì, lo candido subito al Nobel dei Nobel…
Lo candidi, lo candidi, lucio è una bella persona. E romanista.

 

Glielo devo proprio dire… Io odio le note a piè di pagina ed in fondo ai capitoli, in tutte le maniere in cui sono confezionate. Nun je la fo´ proprio.. Eppure Lei è riuscito a rendermele simpatiche quelle nel suo nuovo libro ed a farmele leggere senza dovermi legare alla sedia. Mi confessi la natura del suo dono di scrittura e di stile (lei lo sa che c’ha ’sta rara qualità, già je l’ho scritto) e, soprattutto, se sia trasmissibile…
“Rem tene, verba sequentur” dice catone, è tutto qua. E poi parla come magni. Le note però servono, non si fidi mai di chi spara le puttanate senza fornire le pezze d’appoggio. Spesso sono puttanate uguali, ma almeno hanno dovuto faticare a costruirsi le pezze. Faccia così: non si fidi mai di nessuno e stiamo meglio ancora. vada a verificarsi tutto di persona.

 

Parliamo delle città del Duce. Perché un libro-viaggio tutto per loro ed anche per la Buonanima, in fondo in fondo?
Senta, ma io sarò padrone di scrivere quel cazzo che mi pare a me, senza doverne per forza rendere conto agli altri? A me hanno interessato quelle cose, quando mi interesserà cappuccetto rosso, scriverò di cappuccetto rosso. Ma che cazzo di domande. A uno che nasce a Latina, figlio di bonificatori e di coloni, di che cazzo deve scrivere, della lega lombarda?

 

 

 

A quale di questi centri urbani è maggiormente legato. Quale elemento l’ha più colpita? Io ad esempio sono rimasta fulminata dalla torre serbatorio littoria di Borgo Montenero a pag. 225.
Segezia in Puglia e i Borghi di Sicilia, in particolare Borgo Riena e Borgo Cascino. ma anche Pontinia, Salinas e Monterey, che non le ha fatte il fascio e stanno in California e manco le ho mai viste, ma sono l’universo intero in cui si muovono tutti i romanzi di Steinbeck.

 

Cosa direbbe Sua Eccellenza se potesse parlare… In riferimento, ovvio, alla sua produzione letteraria (sul resto ognuno ha libertà di immaginare)?
Ah, non lo so cosa direbbe lui, ma so cosa gli direi io: “Testa de cazzo, ma non ti potevi fermare alle bonifiche?”.

 

 

 

A chiusura, ‘sto poro Fascismo (quello vero però) era di destra o di sinistra? Ma poi che cos’era, in verità?
A questa domanda credo d’avere risposto prima e soprattutto nel libro. Ho però anche il dovere di dirle che non considero definitiva nessuna delle mie acquisizioni. Il processo di riflessione e ripensamento continua, e potrei forse arrivare un giorno a dire anche cose diverse da quelle di oggi. i fattori sono tanti e troppi. Bisognerebbe davvero poterli valutare tutti. Io ho studiato un aspetto solo, specifico e delimitato, e quello era di sinistra. Ma il fascismo non è stato solo quello, non è stato solo bonifiche e welfare, è stato soprattutto altro. E questo non credo fosse di sinistra.

 

Ancora un attimo. Qual è la domanda che vorrebbe sentirsi porgere e nessuno le ha mai fatto? E Perché?
Di domande mi bastano le mie: “non chiedermi la parola / che mondi possa aprirti”. Io vorrei delle risposte. Quelle sì, vado cercando. Ma chi vuoi che ti risponda? A proposito: anche su Asor Rosa sto man mano mutando posizione. Fui troppo rigido allora, ingeneroso ed esigente. È uno che ha lavorato duro, ha prodotto ed ha cercato. Che vuoi di più da un uomo?

 

 

 

 

 

 

Io, invece, no… ma “Anyway”… direbbero i perfidi albionici. Sor Pennacchi, grazie e riverenze…
Grazie a te Susa’, però chiamami che ne parliamo meglio per telefono. Saluta Miro. Ciao…

 

a cura di Susanna Dolci

 


 

FASCIO E MARTELLO/1
Corpo a corpo sul ring delle Città del Duce

Mario Grossi

 

Ne ha parlato diffusamente Pietrangelo Buttafuoco sul Foglio. Ne ha parlato anche Luciano Lanna sul Secolo d’Italia. Ne ha parlato succintamente Nicola Villa nella sua rubrica Fanfole sul Sole 24 ore. Ne ha parlato in maniera telegrafica nella sua In venticinque parole Antonio D’Orrico sul Magazine del CorSera. Ne ha parlato Lucio Caracciolo nella presentazione al libro. Ne avranno parlato altri di cui non ho notizia. Poi arrivo io e mi sento un po’ un pisquano. Sai che bella figura parlare di Pennacchi dopo che in tanti e così qualificati lo hanno fatto.

 

 

E poi rispetto alla loro tempestività io sono stato una lumaca; magari, penso acido, non se lo sono manco letto il libro (o avevano letto l’altra edizione o gli articoli di Limes). Io invece quando mi va di scrivere qualcosa su un libro me lo devo leggere tutto dall’inizio alla fine. Non sono un recensore, sono un lettore.

 

Comunque Fascio e martello me lo sono tracannato tutto d’un fiato, come quella volta che, da ragazzino, dopo una visita a Micene (che “quello scriteriato” di mio padre, così lo chiamava mia madre, aveva previsto alle 2 del pomeriggio in pieno Agosto e che costò un’insolazione a mia sorella Bianca), mi scolai due aranciate di fila che furono assorbite completamente dai miei giovani tessuti prima che il liquido dolciastro arrivasse al gargarozzo e senza che una sola goccia si spingesse fino allo stomaco. Sensazione paradisiaca di godimento lieve ed impalpabile che si completò solo quando, in aggiunta, mi ingollai una bottiglia d’acqua.

 

Ecco così ho letto Fascio e martello di Antonio Pennacchi (forse lui non gradirà che un suo libro sia paragonato ad una bibita, ma io non trovo metafora migliore). Bevevo, bevevo e non dicevo mai basta. Mi reidratavo con voluttà: la pancia non si riempiva mai, ma provavo un piacere leggero senza sentire il peso della bevuta.

 

Così mi sono detto: tutti hanno diritto di esprimere il proprio parere, il mio sarà solo meno autorevole. Fa niente, scriverò quello che sento, per quello che sono. Fa niente, perché io voglio rendere omaggio all’autore e chi se ne frega del resto!

 

Da lettore illetterato mi accingo dunque a parlare di Fascio e martello di Antonio Pennacchi che Laterza ci dona (si fa per dire visto che il libro costa 18€).

 

Gong! Primo round!
Per fortuna che c’è Pennacchi che fa lo scrittore.

 

Pennacchi è uno scrittore (bella banalità per un inizio). Io, folgorato sulla via di Damasco non più di un paio d’anni fa (miracolato da un consiglio che ancora benedico), gli ho dato una mia definizione. Pennacchi è uno scrittore pugile. Il suo stile ruvido, talvolta violento, pieno d’energie al limite della rissa mi fa pensare alle palestre, dove schiere (sempre più esigue ahimé di aspiranti boxeur sudano, faticano, si scazzottano, consumano energie che convogliate nella nobile arte diventano poesia pura. Una scrittura sempre in bilico (come la Boxe) tra la fine arte schermistica e il tafferuglio sanguinolento, sempre in tensione nel tentativo di indirizzare le energie che potrebbero esplodere inconsulte, verso una disciplinata danza e finalizzate al bello. In Fascio e martello ci sono esempi vistosi di quanto vado dicendo. Ascoltate qua a proposito dell’eucalyptus: «volevano piantarlo anche nelle aiuole di Piazza Venezia a Roma, quelle tra il famigerato palazzo e l’altare della Patria, ma Mussolini ha detto:”No. Lì mi rovinano la piazza quando faccio le adunate. Poi magari la gente invece di stare a sentire me, si mette a pisciare addosso all’albero». Beccati ’sto gancio destro! Doppiato da un montante sinistro:«Aprilia è bella? - gli ho scritto su La Piazza. - Ma ci dovrebbero mettere le bombe, altro che bella. L’hanno rovinata a più non posso. Non bastava la guerra. Quel poco che era rimasto di bello lo hanno buttato giù loro. Dagli anni Settanta agli Ottanta. Ne hanno fatto carne di porco».

 

Il lettore va KO! Gli rimane nella testa rintronata la bellezza di un testo che, manipolando grezze materie prime, le trasforma in pura bellezza. Sentite ancora: «Ogni eucalyptus …. È un segno permanente e tangibile del fascismo e dell’Era Fascista… Orme, quindi. Tracce. Anche olfattive, come abbiamo visto, e sicuramente più consistenti delle merde di cane, peraltro abbondantemente olfattive anche queste». Nel passato mi era venuto in mente di scrivere un elogio della merda (poi ho messo da parte l’idea), la cui tesi di base era che il fetido rifiuto in realtà era di importanza somma non solo per il genere umano (come è dimostrato in Tibet dove lo sterco di Yak è usato per fare il fuoco, o in Africa dove viene utilizzato per fare mattoni) ma anche per il regno animale (come dimostra lo stercoraro che ci fa vivere i figli appena nati). Con Pennacchi mi sono convinto che questo eietto (reietto) può essere utilizzato per produrre poesia (altro che la merda d’autore esposta nel Paleozoico alla Biennale di Venezia).

 

Pennacchi, non solo per questa comunanza della sua scrittura con la boxe (forse è solo una mia fissazione), mi ricorda il mio autore preferito di sempre: Jack London (e chi mi dice per l’ennesima volta che è un autore per ragazzi, lo prendo a schiaffi). Non tanto ovviamente per i temi trattati, anche se il Grande Nord non è dissimile da certe afose pianure meno fredde, ma ugualmente difficili da vivere, quanto per lo spirito, secondo me analogo che ispira i due: la consapevolezza che la vita è una dura lotta cui non ci si può sottrarre e cui animalescamente non è giusto sottrarsi, lotta che, Darwin insegna, seleziona i più adatti. Ma in questa, forse cupa, constatazione c’è, se non una via d’uscita, almeno un sostegno nel solidaristico aiuto tra uguali (nel senso pugilistico: che stanno sullo stesso ring). Nel freddo Klondike, Malamute Kid ed i suoi sodali si scaldano al fuoco, bevendo tè bollente, si raccontano strane storie di pellerossa e fantasmi, si aiutano vicendevolmente ad accudire i cani da slitta che si preparano per la gelida notte artica. Nella pianura pontina «fin da subito i nuovi coloni hanno cominciato a scambiarsi le giornate e i mezzi agricoli. Lavori come la mietitura - ma anche il diserbaggio con la zappa - la raccolta del cotone quando s’è piantato e soprattutto della barbabietola da zucchero, si sono sempre fatti insieme. Prima si andava in un podere - tutte le famiglie - poi si passava in quell’altro…. Poi s’erano portati dal Veneto la tradizione del filò, cioè quella di riunirsi tutti a sera, dopo cena, in un podere - ora uno, ora l’altro - a raccontarsi le fòle e roba varia al lume di candela o di petrolio: d’inverno in stalla, assieme alle bestie perché ci faceva più caldo; d’estate in strada, seduti sulle spallette dei ponti in pietra viva con cordolo di cemento che ancora punteggiano il panorama».

 

Gong! Secondo round!
Per fortuna che c’è Pennacchi che si mette a fare lo storico.

 

Nell’introduzione al libro, Pennacchi dice: «Io nasco narratore. Storico mi ci sono dovuto fare perché non c’era nessun altro. Ho dovuto studiare documentarmi. E più mi documentavo, più m’accorgevo che gli altri - gli storici di professione - ci avevano messo tutti più inventio di me. Ma a te pare che uno storico di professione possa continuare a dire per quarant’anni che il Duce ha fatto 12 città, senza accorgersi invece che ne ha fatte almeno 147, tra grandi e piccole?»

 

Alcuni giorni fa è apparso un articolo sul Corriere della Sera di non mi ricordo chi, nel quale l’autore riprende un’antica e mai sopita polemica che talvolta gli storici accademici sollevano, forse perché invidiosi della gloria altrui. Vi si sostiene che la Storia deve essere fatta dagli storici accademici e non da giornalisti o scrittori che si improvvisano tali e l’articolista, per sostenere la sua tesi (del resto assai nota e noiosa oltre che piagnucolosa), si scaglia contro i vari Montanelli, Cervi, Vespa, Pansa che da giornalisti hanno fatto l’indebito salto. Polemica veramente strumentale e Pennacchi col suo Fascio e martello lo dimostra da par suo. Ma andiamo con ordine. L’articolista, nel citare Vespa a fianco di Montanelli e nel sottacere altri esempi, fa il furbo per tirare acqua al suo mulino. Il problema è che gli storici di rado sanno scrivere, rendendo mortalmente noioso (talvolta anche incomprensibile) il loro pensiero. E il non saper scrivere gli impedisce poi di trasporre in una visione complessiva ed incisiva i fatti che hanno studiato. Invece, più spesso di quanto si creda, giornalisti e scrittori sono in grado di cogliere più compiutamente il senso globale del flusso degli eventi che si susseguono. Classico esempio di quanto sto dicendo è la Storia del Terzo Reich di William Shirer (un giornalista) che ha scritto uno dei testi più incisivi sulla Germania hitleriana pur non essendo storico di professione. Un esempio negativo invece del modo di scrivere degli storici è, ahimè, costituito da Franco Cardini, per me uno dei più grandi medievisti in circolazione, ma che quando ha tentato o tenta di prendere la via del romanzo diventa involuto, brutto e noioso da leggere.

 

Pennacchi con il suo stile puglistico e ruvido invece riesce ad innervare la narrazione storica (nelle mani di qualsiasi altro, questo libro sarebbe diventato un repertorio tipo Guida Michelin) ed a costruire una vera e propria epopea di uomini, luoghi e tempi.

 

Ma dalla sua, e questo libro lo testimonia in pieno, ha la fortuna di potersi dire (lui non lo dice, lo dico io) storico dilettante. Nel senso proprio del termine storico per diletto, per passione, per amore, aggratis. È questo che lo differenzia totalmente dagli storici di professione. Non deve proteggere una posizione acquisita, se ne frega di contraddire i colleghi (per lui non vale il detto cane non morde cane), non deve piegarsi alle mafie accademiche per sponsorizzare qualche suo portaborse. Può liberamente andare al punto della faccenda senza muoversi con passi felpati, timoroso di irritare qualcuno od offenderne la sensibilità pelosa. Non fa parte di nessuna scuola di pensiero, di nessun filone di ricerca, non deve rendere conto a nessuno (se non a se stesso). Può solo dilettarsi e liberamente scoprire o riscoprire. Non deve mantenersi il posto o far buon viso a cattivo gioco (”se no quelli non mi fanno vincere la cattedra!”).

 

Gong! Terzo round!
Per fortuna che c’è Pennacchi che racconta il mito di fondazione.

 

Pennacchi lo sa bene che nelle sezioni del vecchio MSI circolavano strani tipi impettiti del tipo “Quando c’era Lui caro Lei!” o qualcosa di simile, che per lodare le glorie passate arrivavano a dire che con Mussolini i treni arrivavano in orario e che il Duce aveva bonificato l’Agro Pontino. Lo facevano in modo tanto ridicolo da apparire patetici. Una barzelletta. Nessuno ci credeva più alle opere realizzate e così era nata l’idea che se il Duce aveva solo bonificato una pianura in realtà non aveva fatto un granché.

 

Pennacchi fa piazza pulita di tutti i “Fascistoni” descritti da Luciano Lanna nel suo Fascisti immaginari. Personaggi simpatici, incredibili (nel senso di non credibili), che avevano ridotto la storia dei treni e della bonifica ad una barzelletta.

 

Dimostra con il Fascio e martello che esisteva un’idea, una visione, uno spirito soggiacente alla costruzione dei poderi, delle città, dilata il raggio di questo intervento alla sua naturale dimensione (non vuole certo difendere un millantatore). Dimostra che l’impresa fu grande proprio perché si basava su una rivoluzione. Il tutto acquista i contorni del mito. La nascita di una Nazione, di una civiltà nuova, contadina, rurale, povera ma orgogliosa. Ed il Duce almeno nei racconti dei testimoni delle varie inaugurazioni delle città è la Divinità fondatrice che compare in un’aura di luce che dirada le tenebre e i temporali. Così ad Aprilia «Irene Corradi Grossi, colona parmense trapiantata alla Bella Farnia vicino Borgo Grappa, dice: …”ricordo anche che il diluvio smise appena arrivò il Duce, un fatto che è difficile commentare, ma vero. E quello che è strano è che pure a Pomezia due anni dopo, il 28 ottobre 1939, secondo Dino Bartolini: “era una giornata piovosa con il cielo intensamente plumbeo. Dopo mezzogiorno arrivò Mussolini su una macchina scoperta e di lì a poco cominciò ad uscire il sole”. Secondo Oscar Gaspari sono leggende autocostruite… Sarà, però questi sono ancora tutti vivi - almeno spero - e che stava sul trattore ci stanno le fotografie, è ottobre inoltrato, alcune foto lasciano vedere il cielo scuro, i filmati Luce gli ombrelli ripiegati, quando lui sta lì, stanno tutti a capo scoperto e non c’è una goccia d’acqua. Mo’ saranno mitomani pure le foto, che ti posso dire?»

 

 

Gong! Quarto round!
Per fortuna che c’è Pennacchi che si trasforma in un’icona pop.

 

 

Popolare in tutti i sensi, perché scrive, parla, sente in modo popolare e con i suoi schietti modi va diretto. Ma popolare anche perché il suo stile è diventato un marchio di fabbrica inconfondibile. Additato e ripetuto, quel suo “Dice: vabbè….” è un colto cult dei nostri giorni. È diventato un tormentone linguistico che tutti coloro che parlano di lui riutilizzano, in deferente omaggio all’estro della star. Mi viene in mente a tal proposito e in tutt’altro contesto un’altra delle invenzioni linguistiche pop che più hanno avuto successo negli anni settanta. Quel “Bravo sette +” che Cochi rivolgeva a Renato in uno dei tanti sketch che dal Derby milanese si traghettarono in televisione.

 

Gong! Quinto round!
Per fortuna che c’è Pennacchi che funziona come un moltiplicatore.

 

Fascio e martello costa 18 €, anche se a me è costato meno visto che godo di uno sconto del 10% che mi concede il mio libraio, a fronte del mio pesante contributo, con tutto quello che gli ho comprato, all’acquisto della sua casa (e adesso anche di una macchina nuova). La cifra sembrerebbe un po’ alta, in realtà il libro non costa praticamente niente rispetto ai 144 € che dovrebbe costare. Sì: 144€, non un soldo di meno e senza sconto.

 

Il perché è presto detto. Dove lo trovate un libro così? Può essere letto come un testo di narrativa, come una raccolta di novelle, come un romanzo a puntate, come un saggio storico, come un testo di archeologia ed urbanistica, come un resoconto di viaggio, come un diario, come una guida turistica (se Pennacchi mi indicasse qualche posticino dove mangiare a sbafo ringrazierei sentito).

 

Ma può essere letto anche in modi diversi dall’inizio alla fine, la sola presentazione ed introduzione, un capitolo alla volta dal primo all’ultimo e dall’ultimo al primo, saltellando da un capitolo all’altro così a casaccio, guardando le figure, leggendo le didascalie.

 

Insomma io conto almeno 8 modi diversi di leggerlo, (ma potrebbero essere 15) che fanno se non sbaglio 18€ x 8 = 144€.

 

Otto libri in uno al prezzo di 18€. Una vera strenna natalizia! Una pacchia per le esangui tasche di questo periodo.

 

Gong! Sesto round!
Per fortuna che c’è Pennacchi che chiude il cerchio.

 

Così il viaggio si chiude. Partiti dall’Agro Pontino, passando per mezza Italia, si torna all’Agro Pontino. Uno strano viaggio geografico in giro per lo Stivale da parte di un personaggio che, radicatissimo nei suoi luoghi, sceglie lo strumento più sradicato che c’è (il viaggio) per tornare esattamente da dove era partito. E anche se sostiene che è stato un vero e proprio viaggio - un viaggio a tappe - in cui uno parte e chissà che s’aspetta; poi arriva, vede, gira e si rende conto che le cose stanno in un’altra maniera. Parti in un modo e arrivi in un altro, in realtà, sotto la scorza del cambiamento, si resta immutati. Viaggio non solo geografico ma viaggio nel tempo, alla ricerca del mito che si attualizza nelle terre redente seppur sfigurate e deturpate. Viaggio al di sotto di queste scorie moderne all’interno del proprio sentire. Viaggio iniziatico che attraversa tutti i cambiamenti per approdare, dopo il suo percorso circolare, al porto da cui era partito. Viaggio che ricorda Ulisse, navigatore omerico fotografato nella sua verità più vera da Kavafis nella sua Itaca.

 

Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
fa voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.
Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi

 

o Posidone incollerito: mai
troverai tali mostri sulla via,
se resta il tuo pensiero alto, e squisita
è l’emozione che ti tocca il cuore

 

e il corpo. Né Lestrigoni o Ciclopi
né Posidone asprigno incontrerai,
se non lo rechi dentro, nel tuo cuore,
se non li drizza il cuore innanzi a te.

 

Fa voti che ti sia lunga la via.
e siano tanti mattini d’estate
che ti vedano entrare (e con che gioia
allegra!) in porti sconosciuti prima.

 

Fa scalo negli empori dei Fenici
per acquistare bella mercanzia,
madrepore e coralli, ebani e ambre,
voluttuosi aromi d’ogni sorta,

 

quanti più puoi voluttuosi aromi.
Recati in molte città dell’Egitto,
a imparare imparare dai sapienti.

 

Itaca tieni sempre nella mente.
La tua sorte ti segna quell’approdo.
Ma non precipitare il tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni, che vecchio

 

tu finalmente attracchi all’isoletta,
ricco di quanto guadagnasti in via,
senza aspettare che ti dia ricchezze.
Itaca t’ha donato il bel viaggio.

 

Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.
E se la trovi povera, Itaca non t’ha illuso.
Reduce così saggio, così esperto,

 

avrai capito che vuol dire un’Itaca.

 

Così Pennacchi/Ulisse nel suo viaggio circolare, sembra quasi immoto, fermo con le sue radici in quel centro di gravità permanente fatto di pianura redenta, di torri littorie, di umanità e di orgoglio, lasciatemelo dire, fascista.

 

Perché come Ulisse, Pennacchi sa che la sua Itaca non l’ha illuso e carico di onori e di glorie ora che riapproda a quel porto, che in verità non ha mai abbandonato, non ne rimane deluso e ce lo dice.

 

Che ti sia lunga la via! O Ulisse!

 

Mario “vox clamans in deserto” Grossi

 

 

 

 

 

 

 



FASCIO E MARTELLO/2
Se non è socialismo nazionale questo…
Adriano Scianca

 

 

Per le bonifiche delle pianure pontine, lo confesso, non avevo una gran passione. Del Ventennio avevo letto qual cosina, s’intende, ma veleggiando tra San Sepolcro e i 18 punti di Verona, abbeverandomi a Ricci, Giani, Pavolini. Le epiche scazzottate degli esordi, l’epopea che sfocia in tragedia della fine. Ma le bonifiche, quelle no. Non che le schifassi, per carità, solo che sapevano troppo, per il mio palato “nazionalrivoluzionario”, di “opera pubblica”, “infrastruttura”, roba magari fondamentale ma che un qualsiasi governicchio democratico minimamente efficiente avrebbe potuto replicare da par suo. Il minimo sindacale, insomma, tanto più che le bonifiche erano il piatto forte, insieme all’ordine nelle strade e ai treni in orario, dei fascistoni da operetta, quelli fieramente agghindati made in Predappio. Sbagliavo. Sbagliavamo tutti.

 

Già perché lo sguardo di sufficienza verso quel tipo di realizzazioni è stato tipico di tutto un certo estremismo schizofrenico che del “socialismo nazionale” tanto blaterato aveva in fondo un’idea adolescenziale, che vibrava per il proclama, le teorizzazioni, i j’accuse lanciati in faccia ai plutocrati, ma che poi moriva lì. La nazione veramente socializzata si era soliti snobbarla. Dio, quanto sbagliavamo. Non foss’altro che per questo, non si può non benedire l’ultimo libro di Antonio Pennacchi (Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, pp. 342, euro 18). Un libro agile, nervoso, ironico, provocatore. Di certo ben scritto, di sicuro necessario. Anche se poi sulla singola interpretazione, sulla frase decontestualizzata, sul giudizio particolare si possono avere legittime obiezioni. Su qualche passaggio pennacchiano circa Mussolini, la guerra, il fascismo come fenomeno d’insieme, le ragioni della sua caduta e i presunti benefici che essa avrebbe avuto per noi, ad esempio, ho non poche perplessità. La descrizione dell’epopea delle città di fondazione è tuttavia talmente potente, talmente accurata, talmente sentita che una volta arrivato all’ultima pagina del libro sai che il messaggio è arrivato. Il messaggio giusto, intendo. Non sono le minuzie, le spigolature, i dettagli che fanno un libro e un autore. E’ la capacità di cogliere l’anima di un’epoca e di darne un ritratto fresco, originale, originario. E quando leggi Fascio e martello, tu quell’anima la cogli in pieno. Sei lì.

 

Lì, in mezzo alle palude pontine, a prosciugare acquitrini malarici, a dare la terra ai contadini, a pensare e ripensare la civitas del nuovo secolo. Lì, con gli architetti trentenni cui politici quarantenni hanno affidato il compito di tramutare in pietra e luce e vita la poesia del XX secolo. Lì, con le famiglie contadine che dal Veneto si trasferivano a Littoria, con le donne che senza ancora aver scaricato i bagagli accendevano subito il fuoco per dar vita alla casa, in un rituale popolare pagano e solare. Lì, con il marmo che vince la palude, nel cuore della nuova mistica della terra. Mistica che non ebbe mai nulla di brumoso, di regressivo, di oscuramente naturalistico, ma che fu sempre espressione cristallina e positiva di uno spirito fondativo, in quanto «la natura, nel culto del littorio, è la natura domata, redenta e fecondata dal lavoro dell’uomo» (Emilio Gentile, Il culto del littorio, Laterza, pp. 157-158).

 

Un’epopea, appunto, che fu autenticamente romana in quanto seppe riportare alla luce lo stesso spirito di conquista - quello che all’epoca si sarebbe chiamato “genio italico” - da cui nacquero gli acquedotti e le strade, il foro e il diritto, l’Ara Pacis e l’Imperium. Ecco, tutto questo riviveva in pieno Novecento, in un’atmosfera di eccitazione e mobilitazione collettiva volta a plasmare quotidianamente il futuro.

 

Non c’è da stupirsi, allora, che poco tempo fa anche un santone della cultura progressista italiota come Carlo Lizzani possa aver ricordato la sua giovinezza degli anni ‘30 rammentando la sensazione di «sentirsi parte di un processo più ampio, cioè la modernizzazione dell’Italia operata dal fascismo. Per noi ragazzi si aprirono le porte di pubblicazioni come “Primato”, con Bottai e altri gerarchi che offrivano la possibilità ai giovani di scrivere per le principali riviste. Il Centro sperimentale di cinematografia, un’invenzione fascista, proiettava i film sovietici. Ci sentivamo promossi come nessun’altra generazione prima di noi. Le parole d’ordine erano “largo ai giovani” e “la borghesia la seppelliremo”, mentre i nostri padri venivano da società gerontocratiche, bloccati». E’ lo stesso orgoglio che, sul fronte del nord, sotto le insegne della Rsi, porta i militi di Littoria ad accogliere festanti e orgogliosi ogni nuovo arrivato della loro stessa città. Eppure si tratta di persone non nate lì, concittadine da una manciata di anni, freschi immigrati calati in un contesto nuovo che a molti potrebbe apparire artificioso.

 

Come spiegare, allora, quel forte senso identitario, quel legame profondo? «Cos’era - si chiede Pennacchi - che li faceva sentire “di Littoria”? Era, evidentemente, il solo fatto di: “Essere stati facitori di storia. Non capita a tutti di bonificare le paludi e fondare una città. A noi è successo”, così si dicevano, da vecchi, il professor Tasciotti e il povero mio padre poco prima di morire». Il contadino che si sente “facitore di storia”. Altro che era delle masse, regime spersonalizzante, conformismo alienante. E’ questo il vero e unico “socialismo nazionale”, checché ne abbia mai pensato io e tutte le teste di legno neofasciste come me.

 

Torna in mente un illuminante brano di Sottofasciasemplice: «Io sono il contadino / nel tuo alto medioevo / una vita miserabile / io mi spezzo e poi mi piego / ma la rivoluzione mi ha dato la terra / un acquedotto ed un trattore / un’educazione per i miei figli / un ospedale e una stazione / ha lanciato una bonifica / se aspettavo il mio signore / starei ancora in una bettola / a scacciare le zanzare. / Io non ho Signore / io ho una Nazione». E vadano a quel paese le nostalgie medievaleggianti.

 

No, il fascismo non fu la prosecuzione del feudalesimo con altri mezzi, come per anni hanno sostenuto congiuntamente neo- e antifascisti. Fu piuttosto un’epopea modernizzatrice, basata su un «mito del “costruire”, in cui il fascismo simbolizzava la sua “romana” determinazione a durare contro la sfida del tempo, dando l’assalto alla storia per creare un ordine nuovo» (Emilio Gentile, op. cit. pp. 212-213). Non fu la difesa dei vecchi valori, delle vecchie gerarchie, dei vecchi potentati. Fu la creazione di una nuova eticità di popolo basata su nuovi rapporti e nuove concezioni. Fu, persino, l’anelito verso una nuova dimensione sacrale. Abbiamo già detto del rituale dell’accensione del “fuoco di Vesta” di cui parla Pennacchi da parte dei nuovi arrivati nei poderi pontini. Ma andrebbe anche citata l’assoluta preminenza, in tutte le città di fondazione, della torre littoria rispetto al campanile, elemento su cui Fascio e martello insiste molto. Religio laica, civitas moderna. Fondazione di uno spazio pregno di sacralità. Meglio: fondazione come atto in sé sacrale. Non è un caso, del resto, che nel gergo burocratico dell’italietta del dopoguerra il termine “fondazione” stia a indicare nient’altro che un ente parassitario e clientelare. Già, chi ha più coraggio di “fondare” alcunché, oggi? Chi può ancora tracciare il solco, seguendo il rituale sacro di Romolo? Chi può prendersi sulle spalle il fardello della storia e della civiltà? Ed ecco che se il fascismo sarà ricordato per Littoria e Segezia e il Foro italico e la città universitaria, la democrazia antifascista passerà alla storia per Scampia e il Laurentino 38. Questi sono. Null’altro che questo.

 

Adriano Scianca

 

 

 

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