Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Quando muore l'anima di un uomo e un demonio s'insedia nel suo corpo: il caso di frate Alberigo

Quando muore l'anima di un uomo e un demonio s'insedia nel suo corpo: il caso di frate Alberigo

di Francesco Lamendola - 29/10/2008


Nella seconda parte del XXXIII canto dell'«Inferno» (quello, famosissimo, del conte Ugolino), Dante incontra l'anima del frate gaudente Alberigo da Faenza, della famiglia dei Manfredi, personaggio suo contemporaneo,  tristemente noto per aver fatto assassinare due parenti da cui era stato offeso, Manfredi e suo figlio Alberghetto, dopo averli invitati nel suo castello di Cesate, nel maggio del 1285, con la scusa di una riconciliazione.
Verso la fine del pasto, alle parole convenute in precedenza: «Vengan le frutta!», alcuni sicari avevano trucidato i due malcapitati; il fatto era così noto che «far venire le frutta» aveva assunto il significato di «far ammazzare qualcuno a tradimento», e lo stesso Alberigo era stato sinistramente soprannominato, nel gergo popolare, «quello delle frutta».
Siamo in Romagna, del resto: si ricorderà del tristo episodio Cesare Borgia nel perpetrare il famoso massacro di Senigallia, minutamente descritto da messer Niccolò Machiavelli.
Ora, Dante si meraviglia di incontrare proprio quel dannato, perché gli risulta che costui è ancora nel mondo dei vivi; ma quello che viene a sapere da frate Alberigo è, al tempo stesso, incredibile e spaventoso.
Ingannata dalla falsa promessa di vedersi liberare gli occhi dalle lacrime ghiacciate che la tormentano (siamo nel lago gelato di Cocito, nella zona dei traditori degli ospiti - o Tolomea -, che vi giacciono immersi, senza poter adoperare le mani), l'anima di Alberigo svela a Dante che lassù, nel mondo terreno, il suo corpo sembra ancor vivo, ma, in realtà, esso è abitato da un demonio. Lei, l'anima, è stata precipitata all'Inferno nel momento stesso in cui si macchiava di un delitto così enorme, come quello del tradimento ai danni dei propri ospiti; doppio tradimento, perché essi erano anche dei parenti. Alberigo, quindi, ha commesso un duplice peccato di inaudita gravità: ha spezzato i vincoli più sacri che legano fra loro gli esseri umani, regredendo allo stato di una belva feroce e irragionevole.
Del resto, nel quarto libro del «Convivio» (VII,  10-14; in Dante, «Tutte le opere», a cura di Luigi Blasucci, Firenze, Sansoni Editore, 1965, p. 170), lo stesso Dante aveva osservato - sulle orme di Aristotele:

«[…]  Ultimamente, quando si dice "E tocca a tal, ch'è morto e va per terra", a maggiore detrimento dico questo cotale vilissimo  essere morto, parendo vivo. Onde è da sapere che veramente morto è lo malvagio uomo dir si puote, e massimamente quelli che da la via del buono suo antecessore si parte. E ciò si può così mostrare. Sì come dice Aristotile nel secondo de l'Anima, "vivere è l'essere de li viventi": e per ciò che vivere è per molti modi (sì come ne le piante vegetare, ne li animali vegetare e sentire e muovere, ne li uomini vegetare, sentire, muovere e ragionare, o vero intelligere), e le cose si deono denominare da la più nobile parte, manifesto è che vivere ne li animali è sentire - animali, dico, bruti - vivere ne l'uomo è ragione usare. Dunque, se 'l vivere è l'essere [dei viventi e e vivere ne l'uomo è ragione usare, ragione usare è l'essere] de l'uomo, e così da quello uso partire è partire da essere, e così è essere morto.»

Ma ecco i versi nei quali Alberigo, parlando anche a nome di un altro dannato, il nobile genovese Branca Doria - che tradì l'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo -, svela a Dante e Virgilio (da lui creduti anime dannate, dirette verso l'ultima zona del Cocito) i particolari della sua raccapricciante dannazione (vv. 109-147):

«E un de' tristi de la fredda crosta
gridò a noi: "O anime crudeli,
tanto che data v'è l'ultima posta,

levatemi dal viso i duri veli,
sì ch'io sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna,
un poco, pria che 'l pianto si raggeli".

Per ch'io a lui: "Se vuo' ch'i' ti sovvegna,
dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna".

Rispuose adunque: "I' son frate Alberigo;
i' son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo".

"Oh!", diss'io lui, "or se' tu ancor morto?".
Ed elli a me: "Come 'l mio corpo stea
nel mondo su, nulla scienza porto.

Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l'anima ci cade
innanzi ch'Atropòs mossa le dea.

E perché tu più volentier mi rade
le 'nvetriate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l'anima trade

come fec'io, il corpo suo l'è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto.

Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l'ombra che di qua dietro mi verna.

Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch'el fu sì racchiuso".

"Io credo", diss'io lui, "che tu m'inganni;
ché Branca Doria noin morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni".

"Nel fosso su", diss'el, "de' Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancor giunto Michel Zanche,

che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che 'l tradimento insieme con lui fece.

Dante, dunque, immagina che il peccato del tradimento sia così atroce, da causare l'immediata morte dell'anima (la morte "secunda", nel linguaggio di San Francesco); mentre nel corpo - che pare ancor vivo, ma in realtà è come morto -, entra un diavolo a prenderne il posto.
Dal punto di vista teologico e morale, è una ipotesi agghiacciante: significherebbe che esistono dei peccati così tremendi, da rendere impossibile ogni pentimento e ogni perdono; e che, nel mondo dei vivi, si muovono delle persone che non hanno più niente di umano, tranne le fattezze; mentre, in realtà, sono divenute dei diavoli.
Notiamo, per inciso, che lo storico bizantino Procopio di Cesarea, nella sua «Storia segreta», aveva affermato qualche cosa di molto simile, a proposito dell'imperatore Giustiniano e dell'imperatrice Teodora, in una pagina enigmatica della sua opera (al capitolo XII: Procopio, «Carte segrete», traduzione italiana di Lia Raffaella Cresci Sacchini, Milano, Garzanti Editore, 1977, pp. 69-71):

«Così [Giustiniano e Teodora] compivano le loro atrocità con un potere non umano, ma di diversa origine. Correva voce che la madre stessa di Giustiniano avesse confidato a qualche intimo che lui non era figlio di Sabazio, suo marito, e nemmeno di un altro mortale. Nell'atto di concepirlo, le si era accostato un demone: non lo aveva visto, ma ne aveva avvertito la presenza e aveva sentito che si accoppiava con lei proprio da uomo; e poi era svanito come in sogno.
Tra coloro che rimanevano a Palazzo e si trattenevano con Giustiniano fino a tarda notte (e avevano lucido intelletto), ci fu chi credette di scorgere al posto di lui un fantasma, un diavolo dallo strano aspetto. Uno di loro riferì di Giustiniano  che si era alzato di scatto dal trono imperiale e si era messo a passeggiare avanti e indietro (non gli riusciva mai di restare tanto seduto): da un momento  all'altro era sparita la testa e pareva che fosse il resto del corpo a camminare su e giù; lui aveva pensato a un b rutto scherzo dei suoi occhi ed era rimasto sbigottito» e disorientato a lungo. Dopo un po', la testa  era tornata sul collo, e inaspettatamente , gli era parso, aveva ricompletato le membra abbandonate.  Un altro che stava accanto a Giustiniano seduto, si accorse che il volto dell'imperatore all'improvviso era diventato un pezzo di carne informe: sopracciglia, occhi non erano più al loro posto, non c'era un solo lineamento riconoscibile; dopo un po' di tempo il viso aveva ripreso la sua forma.
Si sussurra anche che un monaco [forse, Zosimo di Licia] molto caro a Dio, in seguito alle suppliche dei suoi confratelli nel deserto, si recò a Bisanzio per intercedere a favore della gente che abitava vicino all'eremo, vittima di prepotenze ed angherie insopportabili.  Appena arrivato, fu ammesso alla presenza dell'imperatore: quando stava per entrare e aveva già un piede sulla soglia, si ritrasse di colpo. L'eunuco che lo aveva introdotto  e tutti gli astanti insistevano perché si facesse avanti, ma lui, senza aprir bocca, quasi paralizzato, se ne rientrò nella stanzetta dove alloggiava. A chi lo aveva seguito e si informava del perché si era comportato così,  rispose con franchezza di aver visto nel Palazzo, seduto sul trono, il Signore dei demoni, al quale non voleva assolutamente accostarsi o chiedere nulla.  Del resto, come faceva a non essere uno spirito maligno uno che non mangiava, non beveva, non dormiva mai a sazietà, ma si limitava ad assaggiare le vivande imbanditegli e si aggirava per la reggia, nel cuore della notte, pur trovando modo di dedicarsi satanicamente ai piaceri del sesso?
Alcuni amanti di Teodora ai tempo delle sue esibizioni sulla scena ricordano di essere stati assaliti a tarda ora da un essere diabolico e cacciati via dalla stanza, dove passavano la notte con lei. C'era, tra gli Azzurri di Antiochia, una ballerina, macedonia, che aveva raggiunto un grande potere.  Già ai tempi dell'imperatore Giustino, bastava una sua lettera a Giustiniano per spacciare tranquillamente chiunque voleva, tra le personalità delle regioni orientali,  o per farne confiscare i beni. Una volta questa Macedonia andò a salutare Teodora, appena tornata dall'Egitto e dalla Libia: la trovò molto abbattuta per i torti subiti da Ecebolio e per le somme perdute in quel viaggio; Macedonia allora la confortò e le fece coraggio, pronosticandole una sorte tale da portarle di nuovo molti quattrini. A quanto si racconta, Teodora a questo punto confessò che durante la notte, in sogno, si era sentita invitare a non preoccuparsi del denaro; arrivata a Bisanzio, sarebbe andata a letto col Signore dei demoni; ricorrendo ad ogni astuzia, ne sarebbe diventata la legittima sposa e da quel momento sarebbe stata padrona di ogni ricchezza.»

Procopio aveva poi ribadito il concetto in un secondo passo della sua opera segreta (al cap. XVIII: op. cit., p. 97):

«Che Giustiniano non fosse un uomo, ma un diavolo, come ho già sottolineato, in aspetto umano, lo si può dedurre sulla base degli enormi danni da lui inflitti alla umanità. Dalla dismisura dei fatti balza chiara la potenza di chi agisce. Nessuno, credo, se non Dio, sarebbe in grado di fornire la cifra esatta delle sue vittime.»

La differenza con la teoria esposta da Dante per bocca di frate Alberigo consiste nel fatto che, mentre per Procopio, Giustiniano sarebbe stato da sempre un demonio (o, quanto meno, da quando era giunto al potere), per il sommo poeta l'ingresso del demonio nel corpo dei malvagi più infami, e la morte della loro anima, avrebbero luogo nel momento del peccato. Ma è una differenza di quantità, e non di qualità; senza contare che, sempre a detta di Dante, un uomo può continuare a vivere anche per molti anni, dopo che la sua natura umana ha ceduto il posto a una invasione diabolica permanente e definitiva.
Quest'ultimo particolare rende la teoria di Dante diversa anche dal "normale" concetto di possessione demoniaca. Nella possessione, infatti - e perfino nei casi più gravi -, l'ingresso del demonio, o di più demoni, nel corpo di un essere umano, non equivale alla morte spirituale della vittima, né alla distruzione della sua anima. Al contrario, secondo i teologi cattolici, l'anima del posseduto rimane immune dalle colpe commesse dal corpo - bestemmie, atti osceni o qualunque altro crimine - mentre esso è in balia del demonio.
In altre parole, la possessione demoniaca, anche nei casi più gravi - quelli in cui neppure l'esorcismo si mostra capace di liberare la vittima - non implica la dannazione dell'anima del posseduto; anche se, generalmente, si ammette che la possessione stessa è stata resa possibile da un tacito invito, o da un tacito assenso, da parte della persona in questione (altra cosa sono, evidentemente, le vessazioni demoniache di cui sarebbero oggetto alcuni individui, in genere in fama di santità, come il curato d'Ars o padre Pio da Pietrelcina; vessazioni che possono assumere anche l'aspetto di aggressioni fisiche).
Nondimeno, si prova un senso di raccapriccio, anzi, di profondo orrore, davanti alla teoria esposta da frate Alberigo: perché, se fosse vera, significherebbe che esistono peccati per i quali non esiste alcuna possibilità di remissione; cosa che lo stesso Dante, specialmente nel «Purgatorio», nega  esplicitamente.
Nel III canto del «Purgatorio», ad esempio, il re Manfredi di Svevia, morto scomunicato, dice a Dante (dopo avergli narrato di essersi pentito dei propri peccati giusto in punto di morte, sul campo di battaglia di Benevento, invocando il nome della Vergine Maria):

«Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.»

Come conciliare l'infinita misericordia divina, pronta ad accogliere anche l'anima di un peccatore che si pente in extremis, con la tremenda rivelazione di frate Alberigo?
In effetti, vi è un passo biblico, nel Vangelo di Giovanni (XIII, 21-27), che può aver ispirato Dante nella concezione di quella strana, paurosa teoria:

«Gesù parlò così, ed era molto turbato. Poi disse: "Io vi assicuro che uno di voi mi tradirà".
I discepoli si guardarono gli uni gli altri, perché non capivano di chi parlava. Uno di loro, il discepolo prediletto di Gesù, era vicino a lui a tavola. Simon Pietro gli fede un cenno come per dire: "Chiedigli di chi sta parlando".
Il discepolo si voltò verso Gesù e appoggiandosi sul suo petto gli domandò: "Chi è, Signore?".
"Gesù rispose: "È quello al quale darò un pezzo di pane inzuppato. Poi prese un boccone di pane, lo intinse nel piatto e lo dette a Giuda, figlio di Simone Iscariota. Appena Giuda ebbe preso quel pezzo di pane, Satana entrò in lui.. Allora Gesù gli disse: "Quello che devi fare, fallo presto".»

Tuttavia, ci sembra un po' difficile che si possa interpretare questo passo nel senso che un demonio può insediarsi nel corpo di un peccatore, mentre l'anima di questi precipita automaticamente nell'Inferno.
Giuda, infatti - come è noto - dopo essere andato nel Tempio a gettare i trenta denari ai piedi dei sacerdoti, accusandosi di aver venduto un innocente, corse ad impiccarsi: cosa che non avrebbe fatto se la sua anima, e sia pure in preda alla disperazione, non fosse rimasta nel corpo. Altrimenti, bisognerebbe pensare che quello di Giuda non sia stato un vero suicidio, ma l'inutile accanimento contro il suo corpo senz'anima, perpetrato dal demonio che era entrato in lui.

Osservano E. Pasquini ed A. Quaglio (Dante Alighieri, Inferno, Milano, Garzanti, 1988) a proposito di questa singolare invenzione poetica di Dante:

«I due pellegrini hanno ormai ripreso il loro cammino attraverso Cocito e passano indifferenti fra i dannati come se il vento gelato li avesse privati di ogni sensibilità. Ma non possono non sentire la preghiera […] implorante con disperazione e violenza insieme un aiuto impossibile. Apparentemente il pellegrino si mostra disponibile a concedere il momentaneo ("un poco": v. 114) sollievo: ma a una condizione così subdolamente ambigua (vv. 116-117) che annulla la sostanza del patto formale. Mentre Dante ha già anticipato con sardonico sprezzo il proprio rifiuto, Alberigo cade nella trappola di una deprecazione formalmente autentica, ma sostanzialmente ingannevole. Credulo e illuso, Alberigo si denuda senza sospetto ("i' son" è ribattuto con foga ai vv. 118-119) nel riferimento alla propria colpa, piuttosto che denunciata, sottolineata con fortunata metafora in due tempi, amaramente ironici se non scherzosi, di peccato e castigo.
Ed èqui che per la prima volta (v. 121) insorge Dante con stupita meraviglia, più scopertamente esposta, e fornita di crescente diffidenza, poco oltre (vv. 139-141), il quale per la sorpresa di tanto stimola l'interrogato a proseguire, di quanto assicura il lettore sull'originalità della sorte decretata a questa specie di traditori, dannati nell'anima, che scende all'Inferno, quando ancora vive il corpo, del quale prende possesso un diavolo, appena hanno commesso il loro grave peccato.  Le figure dei traditori tolemaici s'iscrivono difatti in un'invenzione fantastica che non trova persuasivi riscontri o precedenti letterari: arbitraria rispetto alla dottrina cristiana (che contempla la possibilità di pentimento e perdono in chi pecca sino alla fine della vita terrena), essa s'appoggia forse alle credenze popolari sul demonio che abita nell'uomo, più o meno direttamente suffragata dal passo scritturale ("Iohann. XIII, 27) che narra dell'entrata del maligno nel corpo di Giuda, avvenuta non appena egli tradì Cristo. Ma nei due momenti di cui si compone essa è soluzione personale di Dante,: la dannazione di un'anima prima della morte corporale, parallela all'intrusione diabolica nella persona, viva, del traditore, consente al poeta di condannare personaggi del proprio tempo ancora in vita senza ricorrere agli strumenti più soliti, e perciò ovvi, della profezia e del malaugurio.  Difatti è proprio in Dante ("Conv". IV, 7, 10-14) che si ritrova la distinzione teorica tra il bestiale e l'umano e si afferma la possibilità di "essere morto, parendo vivo", con la conseguenza che "veramente morto lo malvagio uomo dir si puote". Sullo sfondo etico e religioso della "Commedia" la teoria è materializzata figurativamente, a significare che il tradimento dell'ospite, giacché recide delittuosamente il fondamento dei più sacri vincoli umani, causa nel responsabile l'anticipata esclusione dalla società dei vivi nel momento stesso del delitto, lasciandolo in vita come bestia, cioè rimpiazzandolo con un demonio. Dinnanzi all'incredulità del pellegrino, Alberigo ostenta la propria ignoranza circa le condizioni del corpo lasciato vivo nel mondo (vv. 122-123); si arresta, pago, ad una constatazione tetramente allegra (vv. 124-126) del sarcastico "vantaggio" (v. 124), adoperandosi in cambio, sempre in vista del miraggio delle lacrime (vv. 127-128), a puntualizzare le fasi dell'agghiacciante morte nell'anima e vita diabolica nel corpo (vv. 129-132).  Come trascinato dalla furia espositiva, nell'ebbrezza di fornire referenze che meritino, quale ricompensa, il mantenimento della promessa strappata al pellegrino, fornisce le prove di quanto afferma, sopravanzando i limiti della stessa richiesta (vv. 133-138). La menzione del collega in tradimento e castigo, Branca Doria, ben orientata a questo egoistico fine, è pur sempre maligna delazione, tanto più che non nasconde nelle sue pieghe (v. 135) l'intento canzonatorio della spia frivola e cinica.»

Che altro dire, circa la teoria esposta da Dante per bocca di frate Alberigo?
A nostro parere, è insostenibile la tesi di quanti vi vedono solo un artificio letterario, escogitato dal sommo poeta per giustificare la collocazione all'Inferno delle anime di persone che, mentre egli  scriveva la «Commedia», erano ancora vive.
In Dante, lo scrittore non prevarica mai sul teologo nella sostanza delle questioni (con l'unica eccezione, forse, di Catone Uticense, un suicida, posto quale custode dell'isola del Purgatorio): nessuna libertà poetica avrebbe potuto spingerlo a formulare una teoria gravemente eretica, solo per ragioni artistiche.
Quando parla del destino dell'anima, Dante non scherza affatto: pensare diversamente, vorrebbe dire ridurre la «Divina Commedia» a una specie di gioco della fantasia.
E allora?
A nostro avviso, il peccato del tradimento era da lui considerato così grave, da indurlo a pensare che un essere umano capace di commetterlo decade immediatamente dal proprio statuto ontologico, e cessa non solo di essere umano, ma addirittura - come spiega nel «Convivio» - cessa di essere. E tuttavia, l'esperienza ci mostra che vi sono traditori i quali continuano a vivere dopo aver commesso il loro odioso peccato: e quella loro vita sembra quasi un oltraggio alla giustizia divina.
Solo l'idea di una morte repentina dell'anima poteva essere proporzionata a un misfatto così grave; e solo quella dell'ingresso di un demonio al suo posto, poteva spiegare il prolungarsi quella vita, che nulla più aveva di umano.

Quanto alla possibilità che un fatto del genere avvenga realmente, è una cosa che fa rabbrividire al solo pensarci.
Certo, davanti a persone così indurite nel male, da non sembrare più neanche umane - e sia la storia che la cronaca ce ne offrono svariati esempi - verrebbe da pensare che, forse, l'intuizione dantesca possa racchiudere almeno un nocciolo di verità.
E il ghiaccio del Cocito, in cui sono immerse le anime più malvagie di tutte, ci fa tornare alla mente la frase, pronunciata da un personaggio che, giunto al governo di una nazione potente, ha causato al mondo enormi sofferenze: «Noi non arretreremo d'un passo, non ci lasceremo turbare da nulla. Il nostro cuore, qualunque cosa accada, rimarrà freddo come il ghiaccio».