10 febbraio 2006
C’è da qualche tempo a sinistra, più o meno dall’inizio della stagione del nostro sconforto, un atteggiamento di sufficienza, di spocchia, se non di aperta irrisione e repulsa, nei confronti di chi continua a vedere, come già negli anni felici della lotta per la decolonizzazione, lotta allora come oggi impregnata di aspirazioni a un pur eterogeneo socialismo, nei popoli proletari del Sud del mondo un elemento, forse l’elemento, decisivo per il rovesciamento dello stato di cose esistente. "Il Vietnam era un’altra cosa", "il contesto era diverso", "c’erano i non allineati", "c’era l’Unione Sovietica", "comunque già allora si trattava di romanticismo anche un po’ piccolo-borghese", "e la classe operaia dove la mettiamo", "Mao (che di classe operaia ne aveva pochina, ma in compenso molti contadini tipicamente Sud. N.d.r.) è finito dove è finito"… Più o meno sono questi i passaggi obbligati della giaculatoria anti-terzomondismo. Rispunta con virulenza l’eurocentrismo, la mitizzazione esclusivista della classe operaia del mondo industrializzato, un certo razzismo biancolatra e, cosa strategicamente criminale, una colonialista avversione al noto "proletari di tutto il mondo unitevi". Sotto sotto c’è anche di peggio. C’è la dannante consapevolezza, da D’Alema a Bertinotti, di essersi accomodati nell’esistente e, dunque, l’inesorabile presa di distanza dalle spurie, ma radicalissime esperienze di cambiamento che sempre più popoli fanno fuori da quella che i nostri sinistri chiamano la loro"innovativa" (profondamente retrograda) portata ideologica e morale; c’è il timore di intellettuali progressisti di perdere il privilegio e l’aura del battistrada ed essere invece accantonati perché scoperti a rimestare tra le polveri delle cose fuori tempo massimo; c’è il terrore di dover mettere in gioco quanto si è acquisito a forza di liquidazionismi e di mediazioni al ribasso con una borghesia in tal modo vasellinata verso un tardivo ricupero; c’è il panico per doversi – e non potersi - confrontare (o piuttosto farsi sputtanare) con la comprovata possibilità-necessità, non del lattiginoso "altro mondo possibile", ma della rivoluzione. C’è poi chi, rispolverando l’accusa di "romanticismo novecentesco", fa un bel transfert e rovescia sui "terzomondisti", cioè su coloro che ritengono degni di studio, condivisione e passione i processi antagonistici del cosiddetto Sud, l’accusa di sognare rivoluzioni altrove, magari fatte dai sentimentalmente cari indigeni, per non doversi sporcare le mani con gli impegni politici di casa. Ricordo un noto e storico leader di movimento, già sessantottino, che, in un’assemblea nazionale di anti-guerra, alla mia sollecitazione di integrare le nostre tematiche con quelle agitate in America Latina da paesi come il Venezuela, Cuba, la Bolivia, l’Ecuador, che, dopotutto, qualcosa forse potevano suggerirci visto che stavano prendendo per la gola l’imperialismo yankee e i suoi subordinati locali, rispose: "Maddai, lasciamo che di quelle cose se ne occupino loro, noi ne abbiamo di merda da spalare a casa nostra…" Provincialismo? Eurocentrismo? Presunzione? O qualcos’altro? Vedremo più avanti.
Su una cosa si può concordare con il compagno citato: la merda di casa nostra. Una melma indistinta di destra dove la discussione è solo su chi puzza di meno. Una sinistra sedicente radicale che, guidata da una sorta di Lecciso della politica, inalbera del tutto sprovveduti candidati no-global a nascondimento delle sue vergogne compromissorie e dei suoi patti leonini con una base opportunamente passivizzata nel corso di tre lustri. Nelle prime si spartisce in anticipo ministeri, presidenze delle camere e dello Stato con quanto di più guerrafondaio, liberista e massonico-opusdeista ha mai inficiato un aggregato "democratico di sinistra"; nei secondi, mentre proclama dalle sue gazzette "basta con la politica dei capi", "tutto dal basso", annichilisce totalmente iscritti e militanti svendendone bisogni, volontà e sogni (falce e martello compresi) in cambio di chioschi e ombrelloni nel deserto capitalista per la nutrita schiera dei propri sicofanti. In cambio però anche di qualche autentico soprassalto rivoluzionario da placare i più sbigottiti: il rigurgito della Tobin Tax, già sepolta dal ridicolo, oltrechè dall’entusiastico gradimento offerto dai briganti della speculazione finanziaria, finalmente del tutto legittimati in cambio di una tassicciuola dello 0,01% per le caramelle ai poveri del Sud; oppure l’inno alle olimpiadi invernali in quanto celebrazione della fratellanza (tra multinazionali del massacro sociale e ambientale), della pace (pax americana dei cimiteri) e della sana competizione (tra dopati dal governo esonerati), notoriamente valori fondanti del movimento operaio, per i quali si può anche dire agli smanierati anti-tedofori cocacolizzati, Vespa plaudente, "adesso basta, avete rotto i coglioni". Mentre gli avallanti della farsa nazisionista "Al Qaida", madre di tutte le guerre globali, da Bertinotti a Contropiano, possono assegnarsi il merito di aver fatto mettere nell’unico fascio "terrorista" no-global, no-Tav, ambientalisti, centri sociali, metalmeccanici, precari a vita e incazzati vari. E in questa sbronza del politically scorregg ecco che le vignette di qualche pennivendolo fascista sguazzante nel notorio marcio in Danimarca diventano a sinistra espressioni, non di volgarissime ingiurie dal netto tratto razzista, ma difendibili espressioni del libero e satirico pensiero: Guzzanti come Calderola, Vauro come Storace, Voltaire come Fallaci. Senza neanche quel po’ di logica e memoria storica che fa riconoscere a distanza stellare una provocazione freddamente pianificata e finalizzata a, in primis, rilanciare la guerra di civiltà contro barbari e infedeli e, in secundis, avvolgere in questo nebbiogeno (come in quello da "Scherzi a parte" di un Osama lanciato in volo nel 2002 contro la torre della Biblioteca di Los Angeles, ma stoppato appunto dalle salvifiche intercettazioni) gli scandali e le porcate della masnada Bush, ultime le intercettazioni illegali di mezzo mondo.
Immersi nel calderone e quasi cotti a puntino dai cannibali dei nostri diritti e del nostro futuro, ecco che proprio il Terzomondo, ancora una volta, ci viene in soccorso con una serie di belle novità. Hamas ha vinto in Palestina. E ne gioisce gente che all’antica ancora pensa che la religione sia l’oppio dei popoli e che dio sia la più grande truffa mai inventata dal potere. Gente che però, pur tra le emergenti priorità transgender di Leccinocchio, ha ancora salda la nozione di contraddizione principale e contraddizioni secondarie. In questo caso della contraddizione fondante: la liberazione nazionale e la battaglia antimperialista e anticolonialista condotta da una cinquantennale avanguardia del riscatto umano e che una congrega di parassiti dell’occupazione e del genocidio avevano da tempo abbandonato. Gente che sa ancora di lotta di classe e, perciò, valuta nei suoi giusti termini la differenza tra chi ruba alla grande e in combutta con l’occupante genocida (e perlopiù all’ombra delle gloria sottratta agli indimenticabili fedayin) e chi, perlopiù con forze endogene, si occupa del soddisfacimento dei bisogni delle masse, oltrechè della loro dignità, indissolubilmente legata alla resistenza in tutte le sue legittime forme. Del resto, è cognizione comune che i palestinesi per Hamas hanno votato più che per turbinoso trasporto religioso, per un’ intelligenza politica maturata in una lotta secolare mai domata e che percepisce perfettamente quali sono i fattori che propiziano la sconfitta del nemico. Che non sono quelli sostenuti da una dirigenza di microfeudatari disposti a far sparire il proprio popolo dalla carta geografica in cambio di un loro ruolo di valvassini nelle marche imperiali (proprio come il PRC nel regno massonico-confindustriale), ma piuttosto coloro che hanno saputo, nel corso di due intifade, rendere impraticabile il progetto sionista e irrealizzabile quella sicurezza israeliana che allo Stato occupante garantisce la sopravvivenza economico-sociale e, nel lungo corso, politica.
Viene in mente, a proposito, il dibattito svoltosi intorno alla manifestazione per la Palestina del 18 febbraio 2006. Dibattito concluso autoritariamente da un settore determinante degli organizzatori che dalla piattaforma ha espunto, fatta salva una minuscola parentesi, ogni riferimento all’Iraq e alla sua epocale resistenza armata. Resta la consolazione che diversi gruppi partecipanti hanno tenuto il punto e, come maggioranza degli interventi nell’assemblea nazionale preparatoria aveva voluto, partecipano all’evento con parole d’ordine che sottolineano l’indiscutibile e indissolubile legame tra partigiani iracheni e militanti palestinesi, tra i due popoli e tra questi e le masse arabe tutte, occupate dall’invasore o soggiogate nel di lui nome da fetecchiose oligarchie tiranniche e oscurantiste che, al confronto, Hamas sta tra Voltaire e Stargate. La vittoria di Hamas, parallela all’inesorabile avanzata della Resistenza irachena (25% di operazioni in più nel 2005 rispetto all’anno prima), esprime un sentire e un volere comune degli arabi e sostituisce agli artificiali frazionismi confessionali ed etnici, necessari alla strategia espansionista di sionisti e imperialisti, come anche alla fuga nei localismi con cui i boss palestinesi pensavano di salvare la borsa e la vita, la rinnovata percezione dell’unità araba nella battaglia per un comune destino. E’ semplicemente il colmo (della pigrizia, dell’ignoranza, della fifa, dell’antisaddamismo di marca bushiana?) che, alla luce di lotte di popolo che, seppure separate da qualche centinaio di chilometri di sabbia, sono politicamente e culturalmente intrecciate come i rami di un unico vitigno e da questa unione traggono la parte precipua della loro forza, si vada nelle manifestazioni a isolare la Palestina da questo suo contesto umano, da questo prezioso retroterra strategico.
Sfruttando l’efferata invenzione della guerra al terrorismo, un terrorismo tutto di matrice imperialista per quanto sinistri ignavi vogliano fallaciamente accreditarlo come islamico e antioccidentale, il nemico ha ben chiaro il proprio progetto. Un progetto necessariamente unitario perché per uno scenario di cui si riconosce l’intima unità storica, politica e culturale. Quello che il sionismo-imperialismo si propone è la costruzione del famigerato "Grande Medio Oriente", di boniniana e condoleezziana memoria. Un piano PNAC (Programma per il Nuovo Secolo Americano della cosca nazisionista di Washington) formulato sul finire del secolo scorso e che si propone il dominio imperiale sull’area omogenea dall’Atlantico marocchino al Golfo arabo-persiano e, forse, oltre. Un dominio militare ed economico che faccia di Israele, nella massima estensione vaticinata dai fondatori, una volta annegata la questione nazionale palestinese in bantustan collaborazionisti e l’identità nazionale irachena nella tripartizione confessionale, lo Stato-guida della regione del petrolio e la piattaforma di lancio per la penetrazione in Asia centrale e l’assalto a Russia e Cina. Non comprendere che di fronte a un piano di tale portata geopolitica e geostrategica si devono formulare risposte di equivalente dimensioni, ostinarsi nello stereotipo di una Palestina caso a parte, da non confondere con una lotta di liberazione nazionale irachena, magari ohibò a guida baathista-islamica, oppure con i sussulti e le tensioni nelle satrapie arabe (sapientemente fatte passare per terrorismo integralista quando si tratta di rivolte nazionali ispirate dall’esempio iracheno), significa non vedere il bosco per l’albero. La giusta solidarietà che Arafat offerse all’Iraq nella prima guerra del Golfo, nel segno dell’unità panaraba per la quale l’Iraq era stato da sempre il massimo sostenitore materiale e politico della causa palestinese, solidarietà criminalizzata in Occidente in parallelo con la demonizzazione di Saddam Hussein, ha fatto refluire gli epigoni dei fedayin verso le deboli posizioni particolaristiche, fuori da ogni contesto storico, geografico e geopolitico, che hanno portato al farsesco inganno degli accordi di Oslo (oggi felicemente morti e sepolti, non più dai suoi scaltri propugnatori, ma dalle sue vittime) con tutto il loro seguito di menzogne, cedimenti e sconfitte. Oggi non ci sono più solo tre milioni e mezzo di palestinesi dei territori occupati. Oggi si inseriscono in un fronte panarabo, l’unico in grado di contrastare e battere il Grande Medio Oriente dei nazisionisti, nove milioni di palestinesi sparsi su una mezzaluna che va da Gaza ai campi profughi di Giordania, Libano, Siria, Iraq, mondo. Esattamente il fronte che Oslo e poi Ginevra avevano tentato di sabotare. Ed è per questo fronte che dobbiamo manifestare. Proprio e soprattutto perché è la sorte dei palestinesi che ci sta a cuore.
L’altra ottima notizia è l’esito del Forum Sociale Mondiale di Caracas. Ce lo conferma la piccata e livorosa reazione di alcuni partecipanti che, più gradatamente che all’improvviso, se si pensa a Mumbai, si sono ritrovati spiazzati e nell’angolo dei comprimari, a dir tanto. La rivoluzione bolivariana, l’esempio cinquantennale cubano, l’eredità rivivente del Che, il travolgente emergere della forza indigena (che tutti guardano alla Resistenza irachena come garante della propria crescita e del proprio spazio e tempo d’azione), le avanguardie di massa in tutto il continente, il trascinante e convincente fascino politico e umano di Hugo Chavez hanno segnato una svolta epocale del movimento planetario di contestazione e rivolta. All’ordine del giorno, insieme a un impeto emotivo ma di più maturo spessore ideologico, non è più quel logoro "altro mondo possibile", ricettacolo di tutte le ambiguità e di tutti i progetti di compatibilità ed entrismo (vedi la Quarta Internazionale, le ONG del presunto no profit, i nonviolenti a tutti i costi, associazioni varie), né lo sono i patetici riduzionismi alla Tobin Tax, o alla bilancio partecipativo, sostenuti dalle grandi Fondazioni finanziarie la prima, da riformisti da cooptazione i secondi. All’ordine del giorno c’è la radicalità irrinunciabile della rivoluzione, del socialismo del XXI secolo, come lo chiamano i bolivariani, della sconfitta del capitalismo imperialista, della riappropriazione di ricchezze, mezzi di produzione distribuzione, della partecipazione non consultiva al bilancio comunale, ma decisionale alla gestione dello Stato finchè c’è, della società per sempre. E, se del caso, dello scontro totale. Insomma si ripercorre, con idee fresche e piedi giovani, quella che tuttora rimane l’esperienza migliore ell’umanità: il deprecatissimo – e pour cause – 1917.
Tutto questo ha fatto di Caracas l’evento più fortemente sentito dai partecipanti e più gravido di effetti a livello planetario. E ha messo in crisi, come da loro irosamente denunciato sui giornali dei sodali, i vari leader delle varie componenti del movimento che, da ormai un decennio, vivevano di rendite di posizione. Personaggi autodeterminatisi dirigenti e strateghi, anche grazie alla passività di masse confuse da indeterminatezze come, appunto, l’altro mondo possibile con le sue coordinate minimaliste, e pensatisi tali in perpetuo, in mancanza di qualunque meccanismo di vaglio elettorale, verifica e conferma o revoca, come quelli pur presenti nei detestati partiti.Una riedizione del meno valido nell’esperienza sessantottina: il leaderismo a priori, un po’ come l’investitura divina, che a metterlo in discussione ci si ritrovava stigmatizzati come politicisti, ambigui, amici del giaguaro. Dopo Caracas, a dispetto del loro risentito rifiuto dei "governi amici", di cui denunciano il presunto intento di egemonizzare il movimento ( senti chi parla!), diventa difficile per questi ex-protagonisti mantenere le proprie redini sul collo del movimento. Soprattutto perché il loro discorso, alla luce di quanto avviene tra America Latina, Palestina e Iraq, si è irrimediabilmente andato deteriorando, invecchiando, obsolescendo. All’ordine del giorno non ci sono più le varie ed eventuali. C’è lo scontro dove finalmente e necessariamente ci si torna a giocare tutto. Socialismo o muerte. Ovviamente per la vita della specie, delle specie e per la vittoria della classe.
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