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Di che Stato parliamo?

di Giovanni Petrosillo - 31/10/2008

Quest’oggi vorrei proporvi due editoriali tratti da Il Giornale. Il primo è di Geronimo, alias Pomicino, il quale fa una disamina attenta della situazione italiana, nell’attuale fase di crisi mondiale. In sostanza, la tesi dell’ex andreottiano è che l’Italia, a prescindere dalla debacle finanziaria in corso, in ogni caso, non avrebbe raggiunto risultati soddisfacenti di crescita poiché l’economia è ferma al palo da qualche anno, a causa di un totale “impallamento” sistemico.

Anche se la crisi non fosse scoppiata in maniera così virulenta, l’Italia non sarebbe andata oltre dei miseri “0 virgola qualcosa”, in termini di crescita, come già attestato dalla previsioni, fin troppo ottimistiche, del documento di programmazione finanziaria del Governo. Denunciando questa situazione di sbandamento del paese, Pomicino se la prende con lo stesso Governo di centro-destra che, a suo modo di vedere, avrebbe agito con la solita mentalità da breve periodo, concentrandosi sui tagli e sui risparmi alla spesa pubblica, non incardinando i vari interventi approntati in una valutazione più strategica di politica economica (al fine di dare alla nazione un nuovo slancio vitale sul medio e lungo periodo). Su questo non gli si può dare certo torto ed è quello che, del resto, abbiamo più volte ripetuto anche noi da questo modesto blog. La recessione che si profila all’orizzonte è figlia, dunque, di una congiuntura internazionale non favorevole la cui gravità viene approfondita dall’incapacità delle nostre classi dirigenti di sostanziare provvedimenti  a sostegno dello sviluppo.

In questa situazione, con il profilarsi all’orizzonte di un terremoto finanziario di portata generale, il nostro sistema-paese non avrà la possibilità di parare i colpi della crisi ed, anzi, andrà incontro ad una fase, più o meno lunga, in cui la crescita zero (che bel ossimoro!) o, addirittura, i dati negativi per i vari settori di cui si compone la nostra economia, porteranno l’Italia ad una decrescita reale che non sarà certo pagata dalle classi dominanti.

Si può prevedere che tutto il peso di questo affossamento sistemico graverà sui ceti medi, i quali andranno sempre più assottigliandosi, e sulle classi sociali più basse, già abbondantemente tosate sia dalla sinistra che dalla destra.

Il secondo editoriale è di Geminello Alvi. Quest’ultimo è interessante perché mette sul piatto della storia attuale il dato secondo il quale i problemi che si materializzano a livello mondiale non sarebbero esclusivamente di natura economica e finanziaria. Alvi non arriva direttamente alla conclusione che quest’ultimi seguano e non precedano lo squassamento geopolitico (sebbene a livello fenomenico le cose appaiano come pensa il giornalista), con perdita progressiva di dominanza da parte degli USA ed entrata in una fase policentrica. La sua “ideologia spontanea” gli impedisce di esplicitare essotericamente quello che avverte esotericamente. Diciamo che egli, pur cogliendo il legame tra tali fattori, li considera interdipendenti e non strutturati verticalmente. In questo senso viene auspicato un intervento statale più deciso al fine di riportare su binari di maggiore equilibrio l’economia mondiale. Ma, in verità, è lo scompaginamento geopolitico e geostrategico che determina il caos economico e non il contrario. Insomma, sia Pomicino che Alvi si augurano un recupero di potere da parte degli Stati per uscire dalla gravità della crisi, ma pensano tale rafforzamento entro una riproducibilità sistemica internazionale che ormai è saltata. Non si tratta di agire a fini di riequilibrio quanto piuttosto con l’obiettivo, molto più lungimirante, di slegarsi velocemente dai vecchi rapporti di forza che ormai sono deleteri per il nostro paese e per l’Europa intera. Solo così si eviterà il rischio di pagare il prezzo elevato che seguirà all’iniziativa americana di riordino del sistema mondiale (prevedendo, da parte di questa, anche qualche prova di forza militare, qui e là nel mondo, condita da provocazioni sempre più pressanti nei riguardi delle potenze emergenti)  rifiutando decisamente la prospettiva devastante di mettersi a rimorchio degli USA a condizioni peggiorate.

 

Vendiamo gli immobili pubblici
di Geronimo

C’era bisogno che piovesse per imboccare consapevolmente la strada del sostegno alla crescita. L’idea circolata in queste ultime settimane in verità era che la crisi dell’economia reale nel nostro Paese fosse figlia della turbolenza dei mercati finanziari. Un’idea sbagliata e in fondo ottimistica. L’Italia, infatti, ballava sul ciglio della crescita zero già alla fine del primo trimestre di quest’anno. La tendenza si accentuò nel secondo trimestre quando nel mese di giugno arrivò la manovra economica con il decreto legge 112 trasformato poi nella legge 133. Una manovra tutta zeppa di tagli nel triennio che aveva un forte potenziale recessivo assolutamente non compensato da interventi di segno contrario e cioè mirati per sostenere la crescita, la vera emergenza del Paese da 15 anni a questa parte.
Lo spiegammo quasi in tempo reale da queste colonne basandoci, peraltro, sui dati forniti dallo stesso governo che indicava nel suo documento di programmazione finanziaria un obbiettivo programmatico di crescita dello 0,9% nel 2008, dell’1,2% nel biennio successivo. Insomma la nostra speranza, se tutto andava per il verso giusto, era quella di crescere di 1 punto-1 punto e mezzo meno della media dei Paesi della zona euro. Previsioni, già di per sé inidonee per tirare il Paese fuori dalle secche e per giunta sbagliate per ottimismo. Se a questa tendenza di basso profilo già evidenziatasi nel primo semestre dell’anno si aggiungono tagli per altri 25 miliardi nel triennio di cui 15,6 per le sole amministrazioni centrali dello Stato, la frittata recessiva è bella e servita, rapida e calda. Così dicemmo per tempo inascoltati.
Il rallentamento dell’economia mondiale e la manovra governativa dello scorso giugno, dunque, ci avevano già portato in recessione, mentre le altre economie europee, pur rallentate, superavano e superano nel 2008 l’1% di crescita cristallizzando ancora una volta quella differenza tra noi e gli altri che ci perseguita dal 1996. Dicemmo pure che con quel tipo di manovra il deficit di bilancio sarebbe risalito al 2,6-2,7 perché una verità spesso dimenticata è che senza crescita il disavanzo aumenta. Fummo facili profeti visti gli ultimi dati della Banca d’Italia.
La crisi finanziaria sta ora mettendo, come si dice, sul cotto acqua bollente. I suoi effetti recessivi saranno infatti aggiuntivi a quelli già maturati e si faranno sentire da oggi in poi lasciandoci prevedere nel 2009 un ulteriore drammatico scasso dell’economia reale. Ciò che già ieri si doveva fare insomma è imperativo che si faccia oggi senza perdere più tempo. Le linee di fondo sono quelle più volte descritte e cioè interventi a favore delle famiglie e delle imprese. Tra i tanti provvedimenti possibili ve ne sono alcuni fondamentali: a) un aumento del reddito disponibile delle famiglie attraverso detrazioni fiscali; b) il ritorno a una deducibilità degli interessi delle aziende e il ripristino di un ammortamento accelerato delle spese di investimento con misure a tempo ma sufficienti a stimolare la domanda privata che fu colpita proprio con queste misure dalla manovra di Padoa-Schioppa; c) azzeramento del costo del denaro mediante contributi in conto interessi per le piccole e medie imprese per tutti gli investimenti decisi e avviati nei prossimi 12 mesi.
A tutto ciò va aggiunta un’impennata degli investimenti pubblici chiamando a un ruolo centrale la Cassa depositi e prestiti che ha le risorse necessarie e la struttura adeguata come da mesi andiamo sostenendo per farla diventare in piccolo ciò che fu l’Iri nella infrastrutturazione del Paese sino alla metà degli anni ’80. Le risorse necessarie possono essere reperite, come ormai andiamo dicendo da oltre quattro anni da queste colonne e in tutte le altre sedi, attraverso una vendita degli immobili di Stato utilizzati dalle pubbliche amministrazioni che mai come ora potrebbero offrire un porto sicuro a investitori privati nel comune naufragio borsistico. L’operazione potrebbe far incassare almeno 30 miliardi nel prossimo biennio con i quali finanziare una crescita diversa per qualità e quantità da quella avuta negli ultimi 15 anni facendo respirare così famiglie e imprese. L'alternativa è l'esplosione della cassa integrazione e il dilagare di nuove e vecchie povertà. 

 

Finanza ko Ora il mondo riscopre la forza degli Stati
di Geminello Alvi

Il rialzo dello yen completa lo smontarsi un pezzo dopo l’altro di quella macchina delle meraviglie che pompava denaro dall’Oriente nelle speculazioni dell’Occidente. I debiti sottoscritti a tassi lillipuziani con le banche giapponesi vengono chiusi, e la pompa che aveva nutrito i poveri mutui in Transilvania o i vampiri degli hedge fund funziona ormai all’incontrario. Ed è ovvio chiedersi quanto durerà la Cina.
Viene meno la seconda Bretton Woods, non dichiarata, e che però usava i surplus di merci esportate e i capitali dell’Oriente, per drogare la Borsa, i consumi, e i mutui degli americani. Un altro nesso globale si dissolve. E mentre gli analisti disputano se gli hedge fund che chiuderanno saranno un quarto o un terzo del totale, persino i fondi sovrani arabi scelgono di ritirarsi in patria. Quell’onda che sommergeva gli Stati con tutti i globalismi sovranazionali pensabili, sta cadendo su se stessa, e ne riaffiorano i singoli Stati. La situazione d’eccezione li ha confermati in un potere maggiore. Addirittura il governo laburista ha nazionalizzato le banche della City, costretto ai propri argomenti Paulson. A Berlino, come a Parigi, o a New York, gli Stati stimano loro i valori bancari e li allocano. Non hanno spesso né i talenti e neppure gli uffici per farlo; ma ci si stanno attrezzando. Chi avrebbe mai pensato che la Cassa depositi e prestiti in Italia potesse forse un giorno evolvere a una specie di Mediobanca? Eppure è tra gli esiti possibili, forse inevitabili, di questa crisi generale di tutto quanto è globale e sovranazionale.
Come infatti si può dire che il G7 abbia funzionato bene, se ognuno alla fine ha fatto alla sua maniera? E il Fmi? Perso in commediole erotiche fatica persino a salvare l’Islanda. La Bce reagisce, coi ritmi letargici di un panda, a una crisi estrema che richiederebbe la rapida ferocia di una pantera. E i parametri degli accordi di Basilea II? Lecito il dubbio che abbiano fatto più male che bene dimagrendo troppo i capitali delle banche nelle fasi positive del ciclo. E la Federal Reserve? Da ogni calare di ciglia e di tassi di Greenspan dipendeva, anni che paiono secoli fa, il ritmo del mondo. Ma adesso non c’è calo dei tassi che basti: il povero Bernanke pare sempre più il grigio professore che è.
E infine per quanto sia sovranazionale non è poi che le cose vadano male solo in economia. Si pensi alla Nato. L’avventura georgiana ha incrinato l’alleanza ben più delle minacce sovietiche per gli euromissili. La Germania se ne è andata per suo conto: non c’è stata a rischiare il gas russo, tanto meno a tornare una frontiera della guerra fredda. Italia, Francia, ognuna poi ha avuto qualcosa di diverso da dire. E lo Stato russo? Ma chi meglio dello zar Putin procurerà che sia la Russia ad avvantaggiarsi della grave crisi degli oligarchi.
Insomma il mondo sta girando, ormai in ritmo tragicomico, al contrario di come andava da almeno vent’anni. La qual cosa riguarda anche lo Stato più potente, quegli Stati Uniti intenti a una manutenzione straordinaria col mulatto Obama. Il quale con le sue pose assonnate, da cantante melodico scaltro, dovrà reimpostare tra l’altro anche il nesso economico con l’Oriente. E per quanto detto sopra giudicherei del tutto improbabile che si tratterà di un accordo globale. Cina e Usa giocheranno stavolta allo scoperto, i loro interessi non saranno più stavolta mascherati dalla globalizzazione. Si avvertirà palesemente quanto il rapporto tra le loro monete sarà deciso dal potere statale. E quanto poi alla Germania, a Parigi, persino all’Italia conteranno più di quella greve entità burocratica ch’è la Ue.