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"Fu Craxi a salvare Gheddafi"

di redazionale - 31/10/2008

Lo si sospettava, lo si sussurrava, ma nessuno lo aveva mai detto a chiare lettere: nonostante i pesanti contenziosi che avevamo con Gheddafi, nell'aprile del 1986 fu il governo italiano a salvargli la vita, avvertendolo in anticipo dell'imminente bombardamento americano su Tripoli. Non sappiamo se il ministro degli Esteri libico Abdel Rahman Shalgam abbia fatto questa rivelazione (subito confermata dall’allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti) con l'intento costruttivo di consolidare ulteriormente i rapporti tra i due Paesi dopo il recente trattato di amicizia, o per cercare maliziosamente di seminare zizzania tra l'Italia e gli Stati Uniti in un momento in cui filano d'amore e d'accordo. Certo, non è stata una mossa ortodossa, ma dato che sono passati più di vent'anni e le circostanze politiche sono radicalmente mutate, la rivelazione è d'interesse più per gli storici che per le Cancellerie, anche perché si inquadra benissimo nella politica estera dell'Italia di allora, così sintetizzata da Montanelli e Cervi, ne «L'Italia degli anni di fango»: «Fedeltà generica e costante all'Occidente, però con sbandamenti terzomondisti e una inguaribile riluttanza ad approvare senza riserve i gesti di forza degli amici (nella fattispecie, l'incursione aerea americana, ndr) e a deplorare senza riserve i gesti di forza degli avversari (cioè l'appoggio che allora Gheddafi dava al terrorismo internazionale, per cui Reagan voleva punirlo)». Per quanto riguarda l'area mediterranea questa specie di doppio gioco ebbe due fasi distinte. La prima, risalente agli anni Settanta, ebbe soprattutto la regia di Aldo Moro, che a causa delle sue aperte simpatie per il mondo arabo venne soprannominato Al Domor e che, attraverso il famoso colonnello Giovannone si assicurò una specie di immunità dal terrorismo palestinese in cambio di non sempre confessabili favori. La seconda, che segnò gli anni Ottanta, ebbe come protagonisti Bettino Craxi e Giulio Andreotti, entrambi terzomondisti, grandi amici di Arafat e pieni di riguardi anche per la Libia, se non altro in quanto grande fornitrice di petrolio. L'alleato americano storceva il naso, ma dal momento che apprezzava Craxi per le sue posizioni anticomuniste e gli era grato per avere accettato di installare i missili a Comiso, chiudeva gli occhi. Finché, nell'ottobre '85, arrivarono il dirottamento della «Achille Lauro» e la successiva crisi di Sigonella a rovinare tutto. Quando un commando palestinese si impadronì della nave italiana, Craxi e Andreotti attivarono la filiera dei loro amici arabi e riuscirono effettivamente a risolvere la situazione senza blitz militari. Ma, prima di arrendersi, i terroristi avevano commesso un delitto che gli Stati Uniti non potevano lasciar passare impunito: l'assassinio a sangue freddo dell'invalido, americano ed ebreo, Leon Klinghofer. Perciò, quando dopo varie vicende un aereo decollò dal Cairo con a bordo il rappresentante di Arafat, ma - come certificato poi anche dalla giustizia italiana - mente del sequestro Abu Abbas e i quattro membri del commando, Washington lo fece intercettare dai suoi caccia e, con il permesso italiano, lo costrinse ad atterrare alla base Nato di Sigonella con l'intento di mettere le mani sui colpevoli. Craxi, tuttavia, non stette al gioco: con un gesto senza precedenti nei rapporti tra i due Paesi ordinò ai carabinieri di bloccare la Delta Force e permise ad Abu Abbas di scappare a Belgrado.
«Si preferì» scrissero sempre Montanelli e Cervi «umiliare e deludere l'alleato piuttosto che gli amici arabi e, amico tra gli amici, Arafat». Gli americani si infuriarono, ma la tempesta si esaurì presto, perché l'amministrazione Reagan, allarmata dal consenso che Craxi aveva ottenuto dal Pci, non ritenne opportuno tenerlo troppo a lungo nell'angolo. Tuttavia, a mio avviso, proprio i veleni sprigionati da quella crisi, oltre al proclamato «rifiuto dell'oltranzismo» di Craxi, sono all'origine del «tradimento» italiano. Come ha scritto l'ex ministro della Difesa socialista Lagorio, Sigonella fu interpretata oltre Atlantico come una prova della mancanza di fermezza dell'Italia nella lotta al terrorismo arabo. In questa chiave il governo italiano giudicò il bombardamento di Tripoli e Andreotti ieri l’ha ribadito, «un errore politico». Non potendo impedirlo, cercò almeno - con successo - di limitarne le conseguenze.