La crisi globale sposta le aspettative nei confronti della propria ricchezza e del proprio stile di vita. Il mondo è rapidamente e drasticamente cambiato perché non si è potuto più nascondere che la “crescita” era un fenomeno drogato e che l’Occidente, America in testa, vive ormai da tempo sopra i propri mezzi e saturo di cose e di desideri.
Ma le ricette indicate rischiano di perseverare nell’errore. Ha detto bene il sociologo Zygmunt Bauman (l’autore di “Modernità liquida”): “Oggi ci viene proposta una via d’uscita apparentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicomani che gli spacciatori: riprendere (con auspicabile regolarità) la fornitura di droga” (Repubblica 8.10).
I governi ondeggiano e anche divergono sulle declinazioni di questa ricetta. Si è infatti provato di tutto: riduzione dei tassi, inondazione di liquidità, acquisto di titoli ” tossici” (appunto), incerte nazionalizzazioni, promesse per tutti, super garanzie ai risparmiatori, alle banche, alle imprese.
Ma già tutto appare ormai sulle spalle del “debitore di riferimento”, lo Stato nazione.
Saranno spalle abbastanza forti? Qualche nazione rischia già di saltare. Il rischio peggiore che si profila è proprio la decostruzione dello stato nazione a livello planetario. Potrebbe essere allora la fine e non il ritorno delle politiche pubbliche. Il trionfo, non il declino, dell’iper-impero finanziario, sufficientemente potente ormai da imporre in pochissimo tempo la deroga a molte delle pratiche pubbliche internazionali così faticosamente costruite, come il patto di stabilità, la valutazione al fair value, la precauzione sui crediti, lo stop alle emissioni inquinanti, persino il processo democratico delle decisioni. Sintomatica la dichiarazione di chi appare incarnare lo spirito dello stato, Sarkozy: “il nostro compito è consentire che le banche continuino a prestare…”.
In questa società del cerino acceso, del rischio trasferito, il cittadino trova sempre più difficile gestire in proprio le sue strategie di salvezza.
L’uomo occidentale già vive di rendita, ma lo fa spesso inconsapevolmente, senza trarne un impegno, un desiderio, una strumentazione per rivalutare i fini del proprio vivere, produrre e consumare. Michele Serra riprende bene questo tema su Repubblica 22.10: “La grande prevalenza di spiegazioni “tecniche”, nel corso di questa crisi, fa capire meglio di ogni altra cosa , cosa significhi “pensiero unico”…Rifare ordine nei bisogni, nelle priorità, nei consumi, appare quasi impossibile nel caos allucinato di una civiltà...”.
Ho provato a riflettere su questo nel mio libro “Vivere di rendita” (Intra Moenia 2008).
“Cominciare a vivere di rendita per cominciare a evitare la catastrofe”: così il politologo Giorgio Galli riassume, nella sua prefazione, il mio contributo.
Nel libro per “vivere di rendita” si intende la volontà di promuovere le relazioni e gli “assets” che si possiedono, senza ostinarsi a voler accumulare le cose. Cito la conclusione: “Per l’Occidente pensare alla decrescita non è solo inevitabile. È anche desiderabile, in quanto unica prospettiva non conflittuale e non distruttiva …. Ho cercato di portare gli strumenti del financial planning al servizio di questo progetto individuale e collettivo. Uscire dal debito, controllare i propri consumi, gestire consapevolmente i propri beni, godere delle tecniche finanziarie del non-agire, creare capitale sociale in famiglia e nella comunità: questi gli strumenti suggeriti per quell’obiettivo“.
Cesare Valentini http://viveredirendita.blogspot.com
Vivere di rendita. Strategie e soluzioni per il mestiere più desiderato del mondo”