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I francescani, Weber e il capitalismo

di Dario Antiseri - 14/11/2008

     
 
Lo storico della filosofia Dario Antiseri indaga le origini teoriche del capitalismo, sottolineando che la tesi di Max Weber sul rapporto di filiazione fra riforma protestante ed etica capitalistica ha messo in secondo piano le connessioni fra teologi francescani e capitalismo. Secondo Antiseri Weber con la sua tesi non voleva stabilire un nesso privilegiato fra protestantesimo e capitalismo, ma solo evidenziare gli influssi teologici sulle teorie economiche. I pensatori francescani Pietro di Giovanni Olivi e Alessandro di Alessandria, vissuti nel XIII secolo, attraverso la divulgazione del loro pensiero ad opera di san Bernardino da Siena (1380-1440), sono oggi riconosciuti fondamentali per l’evoluzione in senso capitalistico delle teorie economiche dell’Occidente cristiano.

Non è il caso di soffermarsi sulla insostenibilità della prospettiva marxiana che vede la genesi del
capitalismo in quella accumulazione originaria frutto di violenza politica. D’altro canto, è ben nota la tesi di Weber sulla genesi dello “spirito del capitalismo”. La sete di lucro, l’aspirazione a guadagnare denaro più che sia possibile, non ha di per se stessa nulla in comune col capitalismo.
[...] Ebbene, dice Weber, l’auri sacra fames non è affatto identica col capitalismo, tanto meno corrisponde allo spirito ‘di questo’. Egli identifica il capitalismo con un disciplinamento o per lo meno con un razionale temperamento di un tale impeto irrazionale. In ogni caso, il capitalismo è identico colla tendenza al guadagno in una razionale e continua impresa capitalistica, al guadagno sempre rinnovato, cioè alla risarcibilità.
Scrive Weber: “L’ascesi protestante intramondana agì (...) potentemente contro il godimento spregiudicato del possesso e restrinse il consumo, specialmente il consumo di lusso. D’altra parte, essa liberò nel risultato psicologico l’acquisizione dei beni dagli ostacoli dell’etica tradizionalistica, spezzò le catene dell’aspirazione al guadagno non soltanto legalizzandola, ma considerandola addirittura come voluta da Dio (...). La valutazione religiosa del lavoro professionale, mondano, indefesso, costante, sistematico, come il più alto mezzo ascetico e nello stesso tempo come la conferma più sicura e visibile dell’uomo rigenerato e della genuinità della sua fede, costituiva la leva più potente che si potesse pensare per l’espansione di quella concezione della vita che abbiamo qui definito come spirito del capitalismo. E se noi combiniamo quella restrizione al consumo con questo scatenamento dell’aspirazione all’acquisizione, il risultato esteriore è ovvio: la formazione del capitale attraverso la costrizione ascetica al risparmio. Gli ostacoli che si frapponevano all’uso consumistico di ciò che veniva acquisito, dovevano andare a vantaggio del suo impiego produttivo, ossia del suo impiego come capitale di investimento”. Weber è ben consapevole che è pazzamente dottrinaria la tesi stando alla quale ‘lo spirito capitalistico’ (...) sia potuto sorgere solo come emanazione di determinate influenze della
Riforma o che addirittura il capitalismo come sistema economico sia un prodotto della Riforma. [...] quel che a lui sta a cuore è porre in chiaro soltanto se e in quale misura influenze religiose abbiano avuto parte nella formazione qualitativa e nella espansione quantitativa di quello ‘spirito’ nel mondo e quali lati concreti della civiltà che posa su basi capitalistiche derivino da tali influenze. E, pur tuttavia, per decenni e decenni la tesi di Weber [...] ha spinto nell’ombra della dimenticanza, o, in ogni caso, nel regno dell’irrilevanza quei contributi che qua e là avevano posto l’attenzione sui rapporti tra cattolicesimo e capitalismo.
Nella storia delle dottrine economiche e politiche sono stati trascurati sino a non molto tempo fa gli itinerari aperti dalla Scuola
francescana.
Un solo, comunque importante, esempio. Sull’idea di produttività del capitale monetario – tema indubbiamente centrale delle teorie economiche – Joseph Schumpeter scrive: “Già prima adombrata, essa fu per la prima volta espressa da sant’Antonino, il quale spiega che sebbene il danaro circolante possa essere sterile, il capitale monetario non lo è, perché esso rappresenta una condizione necessaria per intraprendere affari. Ora, è ben vero che il domenicano arcivescovo fiorentino sant’Antonino (1389-1459) accoglie nella sua Summa l’idea della funzione del prestito di danaro sia per i consumi che per gli investimenti vantaggiosi, richiamandosi all’autorevole proposta di san Bernardino da Siena (1380-1440), solo perchè costui, da parte sua, ripeteva le idee di due francescani: Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298) e Alessandro di Alessandria (1270-1314).
Nella Prima Quaestio del Tractatus de emptione et venditione l’Olivi tratta del valore economico. Il valore di una cosa, egli afferma, nasce dalla concorrenza di tre cause che sono: quelle proprietà che la rendono adatta meglio di un’altra a soddisfare i nostri bisogni; la scarsità e quindi la difficoltà ad essere reperita; la preferenza individuale di coloro che intendono usarla.
Nella terminologia di san Bernardino da Siena, nella trascrizione che egli fa dei passi dell’Olivi, il valore di una cosa è data dalla raritas, dalla virtuositas e dalla complacibilitas.
La raritas sta a significare la scarsità del bene economico rispetto alla domanda; la virtuositas “la sua capacità oggettiva di rispondere ad un bisogno”; e la complacibilitas è la preferenza che un soggetto dà ad un bene in vista dell’appagamento di un bisogno piuttosto che di un altro, stabilendo una gradualità tra questi. Con la complacibilitas l’Olivi introduce nella concezione del valore un elemento che risulterà poi nevralgico per il marginalismo e nella successiva e contemporanea teoria economica. In sintesi, annota ancora il Bazzichi, “il valore economico si determina in funzione dell’utilità – sia nella sua forma oggettiva (virtuositas) sia nella sua forma soggettiva (complacibilitas) – e in funzione della rarità. E precisa: è questa veramente la migliore e la più moderna tra le teorie del valore del Medioevo”.