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Sociologia dell'acqua

di Carlo Gambescia - 14/02/2006

Fonte: carlo gambescia

 

Lo scorso 30 gennaio in Campania l'assemblea dei sindaci di Napoli-Castelvolturno ha deciso, per l'area di propria competenza, il ritiro di una precedente delibera (del 23 novembre 2004) che apriva le porte alla privatizzazione di 136 comuni campani.
Si è trattato di una decisione importante, frutto soprattutto di una pressione dal basso, di quella che Padre Zanotelli, in un articolo sul "Manifesto" (del 31-1-05) ha definito "società civile organizzata" . Ma purtroppo i grandi giornali non ne hanno parlato.
Il problema della proprietà pubblica dell'acqua (ma sarebbe preferibile definirla "collettiva"), come del resto altri grandi questioni "ambientaliste", sta assumendo un'importanza strategica, per un capitale privato, sempre più affamato di profitti. E questo spiega il silenzio del "Corriere della Sera", "Repubblica", "Stampa", per non parlare dei giornali della destra conservatrice e liberale. Tutti dipendono finanziariamente, chi più chi meno, da quei "poteri forti", non solo italiani, che vogliono appropriarsi di un "bene comune", come l'acqua, per trasformarlo, in una ennesima fonte di lucrosi guadagni.
Di qui la necessità di opporsi. Ma anche di una spiegazione sociologica del processo in corso.
L'idea economicistica di fondo è che non esistono beni collettivi, ma solo beni privati e acquisibili, sul mercato, pagando un "prezzo". L'assioma sociologico sottostante è che l'individuo è tutto e la collettività nulla. Attenzione, si crede nell' individuo autosufficiente in grado di lavorare e acquistare i beni di cui ha bisogno. Si dà, insomma, per scontato che tutti siano in grado di farcela da soli. E che chi "non riesce" sia colpevole, perché non si è abbastanza impegnato.
Milton Friedman, uno dei padri del neoliberismo anni Ottanta, ama ripetere nei suoi libri, con autentico sadismo, che nel capitalismo "nessun pasto è gratis": ogni bene ha un prezzo. E soprattutto che nessuno può pretendere di vivere alle spalle dell'altro. Tuttavia, affinché si giunga alla mercificazione totale è prima necessario attribuire al bene un carattere di "fruibilità limitata". La scarsità di un bene, determina il suo prezzo, e proprio perché il bene è scarso, e quindi raro, il suo prezzo non deve essere eccessivamente basso. E comunque, sarà il mercato, attraverso la concorrenza a fissare il prezzo "giusto" per produttori e consumatori.
Questa, in breve, la vulgata liberista. Che, una volta compresa nelle sue linee di massima, consente però di distinguere le tre principali fasi di un processo "idealtipico di privatizzazione" : 1) si dichiara l'acqua un "bene scarso";"2) si danno per scontate l'autosufficienza dell'individuo e la bontà dei meccanismi concorrenziali; 3) si è dà il via alle privatizzazioni ( su questi aspetti processuali si veda il post del 29-11-2005).
Fortunamente, grazie alla "società civile organizzata", almeno in Campania, il processo è stato, per il momento, fermato. Ma occorre una decisa inversione di rotta.
L'acqua non è un bene scarso. Ma è un risorsa mal distribuita e poco condivisa (soprattutto tra Nord e Sud del mondo). E anche se lo fosse, in quanto risorsa necessaria alla riproduzione della vita, andrebbe messa gratuitamente a disposizione di tutti, evitando sprechi e razionalizzandone, con investimenti pubblici, la rete di produzione e distribuzione.
L' uomo non è un'isola: l' individuo non sempre è autosufficiente, e dunque ha bisogno di un sostegno pubblico e di un rete di solidarietà. E soprattutto di non essere mai privato di quelle risorse, come l'acqua, necessarie alla sua riproduzione fisica.
I mercati, oltre a essere imperfetti, escludono coloro che non possono "accedervi", perché privi di lavoro, e dunque di reddito spendibile.
Privatizzare il settore significa avviare un processo di concentrazione monopolistica e di conseguente assorbimento delle imprese più piccole da parte di imprese più grandi, e probabilmente straniere.
Sono verità "sociologiche" semplici, direi quasi luoghi comuni. Eppure...