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Tecniche di ordinaria manipolazione

di Pasquale Rotunno - 14/02/2006

Fonte: Rinascita




Come ci ricordano gli psicologi sociali e i romanzieri, le persone mentono ampiamente agli altri. Li ingannano, o danno loro impressioni false, in circostanze di amicizia e fiducia. Lo scopo è non ferire, non esporsi, o anche testimoniarsi stima reciproca. In società molto sofisticate, come nei salotti parigini del diciottesimo secolo, così detestati da Rousseau, nessuno si aspetta che si creda a qualsiasi cosa venga detta. In questi casi l’affidabilità diventa quasi un capriccio. All’opposto, l’onore che disprezza l’inganno rappresenta una forma d’arroganza; un’attitudine a non sentirsi costretti a preoccuparsi degli accomodamenti assicurati dall’inganno. Nietzsche sostiene che la verità può essere non soltanto inutile ma distruttiva. E chiede: “quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo? questa è diventata la mia vera unità di misura, sempre di più. L’errore – la fede nell’ideale – non è cecità, l’errore è viltà”. Il messaggio di Nietzsche non è un invito a rinunciare del tutto al valore della verità. Nell’Anticristo, egli scrive: “ogni briciola di verità abbiamo dovuto strapparcela a furia di lotta; in compenso abbiamo dovuto sacrificare quasi tutto ciò cui di solito sono attaccati il cuore, il nostro amore, la nostra fiducia nella vita. Per questo occorre grandezza d’animo: servire la verità è il più duro dei servizi”. Conclude con una domanda: “che significa essere onesti nelle cose dello spirito? Significa essere severi contro il proprio cuore, disprezzare i ‘bei sentimenti’, farsi un caso di coscienza di ogni sì e di ogni no!”.
A dispetto di Nietzsche, nella vita quotidiana ci comportiamo con maggiore leggerezza. A tutti sarà capitato almeno una volta di spendere la propria credibilità per ingannare l’altro a fin di bene; di dire una bugia pietosa per consolare una persona in difficoltà o per semplice gentilezza. Appellarsi al dovere della sincerità, in queste situazioni, sembra esagerato. Diverso è il caso di una condotta insincera dettata dall’interesse personale. Perché tradiamo la fiducia dell’altro. Conduciamo l’altro a fare affidamento su quello che diciamo, nel momento in cui l’altro ha buone ragioni di farlo. Nell’abusare di questa fiducia abusiamo della relazione che su essa si basava. Non diamo all’altro l’opportunità di formarsi le sue reazioni nei confronti dei fatti. Il che è qualcosa che avremmo permesso loro di fare se avessimo parlato sinceramente. Gli abbiamo dato invece un quadro del mondo che è il prodotto della nostra volontà. Sostituendo il mondo, e l’impatto che esso avrebbe avuto su di loro, con la nostra volontà, in una certa misura li abbiamo posti in nostro potere; abbiamo limitato la loro libertà. Abbiamo infranto l’equilibrio di una fondamentale relazione umana.
Credibilità dell’emittente (per il destinatario) e fiducia del destinatario (nell’emittente) sono, infatti, due facce della stessa medaglia; due dimensioni della stessa relazione comunicativa e due concetti complementari. L’emittente ha il problema della credibilità (che fare per essere creduto) e il ricevente ha il problema della fiducia (posso credergli? mi posso fidare?). Il sociologo Guido Gili, preside della Facoltà di scienze umane e sociali all’Università del Molise, indaga la questione nel suo nuovo saggio “La credibilità. Quando e perché la comunicazione ha successo” (edito da Rubbettino). Il libro è un esempio (raro nel nostro Paese) di come un’opera accademica, approfondita e rigorosa dal punto di vista scientifico, possa validamente ambire a una fruizione più larga. Chiarezza ed essenzialità di scrittura lo rendono godibile anche per il lettore non specialista, ma desideroso di capire le dinamiche più rilevanti della comunicazione nel mondo contemporaneo.
Gili individua tre radici della credibilità: la radice cognitiva, cioè la credibilità basata sulla competenza e la conoscenza; la radice etico-normativa, legata alla condivisione di valori; la radice affettiva, basata sull’attaccamento e l’affettività. Nelle relazioni sociali concrete esse s’intrecciano variamente. Tuttavia quando comunichiamo, non comunichiamo come individui generici, ma sempre vestendo ruoli specifici: il padre, l’insegnante, lo scienziato, il politico, il giornalista. I diversi ruoli sociali e professionali dispongono di un patrimonio più o meno grande di credibilità. Il ruolo esercita una influenza positiva o negativa sul comunicatore, a seconda che i ruoli possano contare su una immagine consolidata di credibilità o non credibilità. Accanto alla “credibilità del ruolo”, vi è però anche una “credibilità nel ruolo”. Cioè il modo in cui una persona interpreta un certo ruolo, risultando più o meno credibile. Questa dialettica tra credibilità “del” ruolo e credibilità “nel” ruolo spiega, tra l’altro, l’investimento di aziende private e amministrazioni pubbliche sulla comunicazione interna, la formazione e la motivazione del personale.
La credibilità, proprio in quanto relazione, può essere trasferita da un agente sociale all’altro o da un contesto all’altro. Un esempio è costituito dai “testimonial”, che fungono da garanti di persone, prodotti, eventi, situazioni. Questo meccanismo di trasferimento funziona anche quando è frutto di una finzione. Attori che interpretano figure di pediatri o medici in famose fiction televisive diventano efficaci testimonial di prodotti sanitari o farmaceutici. Pur non avendo alcuna competenza specifica in campo medico. Vi sono poi situazioni in cui la credibilità di un emittente deve confrontarsi con quella di un emittente rivale. Si determina così una lotta, una concorrenza per la credibilità presso il pubblico. Ciò spinge ad adottare una strategia di discredito dell’avversario. In primo luogo costruendo un’immagine negativa, odiosa o caricaturale dell’avversario (costruzione del nemico). Oppure negando l’avversario, non prendendolo in considerazione (disconferma). È quello che avviene nella lotta politica quando il candidato in vantaggio non accetta i duelli televisivi faccia a faccia con l’avversario. O, ancora, creando o avallando voci false che lo squalifichino (calunnia e insinuazione). I mass media raccogliendo e amplificando queste insinuazioni giocano, più o meno consapevolmente, un ruolo fondamentale. Poiché anche solo ventilare la compromissione di un personaggio pubblico in affari illeciti o casi di corruzione utilizzando la forma interrogativa ha un potere distruttivo della credibilità, quasi pari a quello ottenuto da un’accusa diretta ed esplicita.
Non mancano i rischi. Anche l’inganno non può che basarsi sulla credulità e la fiducia dell’ingannato. Costruire la credibilità (dell’emittente) e la fiducia (del destinatario) è perciò parte integrante di ogni azione manipolativa. Inoltre, qualsiasi sistema normativo o di controllo sociale deve poter contare sui valori interiorizzati della sincerità e dell’attenersi ai patti. O almeno, secondo un approccio più “realista”, l’individuo deve “apparire” sincero, cioè agire “come se” fosse sincero. La parvenza della sincerità o della conformità è un meccanismo che consente l’adozione di un codice di comportamento comune e di un linguaggio di comunicazione standardizzato. Tale linguaggio non esprime tutta la ricchezza interiore dell’individuo, ma permette una qualche regolazione sociale.
Un altro uso manipolatorio della credibilità si verifica quando l’emittente parla a nome di un altro, si fa forte del suo prestigio per trarne vantaggio, come ben sanno i truffatori. La pratica del “parlare a nome di altri” è utilizzata a livelli più alti nelle grandi battaglie di opinioni e di interessi. È la strategia definita di “espansione” o “restrizione” dei simboli. Quando un’opinione o una posizione su un tema di interesse pubblico incontra opposizione, i sostenitori di tale posizione possono cercare di “accreditarla” in due modi. Il primo è quello di “universalizzare la domanda”, presentandola come la conseguenza inevitabile del diritto naturale e della logica. Questa strategia comporta una “trivializzazione” dell’ideologia: si pretende che sia in gioco la democrazia in una disputa assai più concreta tra sindacati o tra partiti. Oppure che sia in gioco la “libertà di stampa” in controversie che riguardano la difesa corporativa degli interessi dei giornalisti. Il secondo modo è l’allargamento del consenso al di là del gruppo particolare che avanza la domanda o è portatore di uno specifico interesse. Il meccanismo è quello della trasformazione dell’io in “noi”; o dell’allargamento di un “noi” ristretto ad un “noi” assai vasto. In tal modo un gruppo d’interesse si presenta come portavoce di un più vasto raggruppamento di persone: una classe, un più ampio gruppo funzionale o territoriale, fino a invocare identificazioni ancora più allargate come “tutti i democratici”, la “nazione” o “l’umanità”. È la strategia retorica per cui un sindacato o una particolare categoria pretenderanno di parlare a nome di tutti i lavoratori; un politico meridionale a nome “del Sud”; o uno settentrionale a nome “del Nord”; un gruppo femminista a nome di tutte le donne; un’associazione di omosessuali a nome di tutti i “diversi” e gli emarginati; un movimento confessionale a nome di tutti gli appartenenti a una religione.
All’inverso chi si oppone a questa strategia tenderà invece a restringerne i simboli e il consenso sociale: formulerà i valori domandati in termini speciali e particolaristici, dissociandoli dalle prospettive generali e universali con cui invece sono presentati dai loro sostenitori. Oggi sono soprattutto i mass media ad assolvere un ruolo fondamentale nei processi di espansione o restrizione dei simboli e lo fanno in base alle loro opzioni ideologiche e ai loro “legami” preferenziali con determinate istituzioni, gruppi o categorie sociali.
Esiste un altro tipo di credibilità: quella che gli individui attribuiscono alle idee, alle opinioni, alle credenze della “maggioranza”. E’ una forma paradossale di credibilità, rimarca Gili. Poiché non si rivolge a nessuna fonte identificabile, ma a un’entità anonima. È una forma di credibilità senza alcun soggetto “credibile”. Le persone tendono insomma ad allinearsi alle posizioni della maggioranza (conformismo). Ciò vale sia al livello delle relazioni interpersonali, sia nei processi di formazione dell’opinione pubblica. La sensazione di condividere l’opinione “vincente” o, al contrario, di far parte di una minoranza “perdente”, influisce sulla possibilità di esprimere con più o meno forza la propria posizione nelle relazioni quotidiane. I mass media sono anche in questo caso decisivi. Perché offrono una rappresentazione della “forza” delle tesi in campo. L’orientamento dei mass media finisce per apparire come l’orientamento dominante nell’opinione pubblica, a prescindere dal fatto che lo sia realmente. Esperti di sondaggio ed elettori sono avvertiti.