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La strana coppia che inventò l’Atlante

di Daniele del Giudice - 21/11/2008

   
 
 
In occasione della riedizione, a cura di Stephan Füssel, del Civitates orbis terrarum di Georg Braun e Franz Hogenberg, Daniele del Giudice ricostruisce la vicenda editoriale dell’opera e il clima culturale imperante fra XVI e XVII secolo in cui è nata. Il Civitates orbis terrarum, composto fra il 1572 e il 1617, costituisce la più importante raccolta di immagini di città della terra dell’età moderna. L’opera è pubblicata negli stessi anni in cui nasce la cartografia moderna e i primi atlanti geografici, ma, pur se partecipe di quel clima scientifico, il suo fine non è solo l’‘utile’ dei portolani e delle mappe, bensì anche il ‘dilettevole’ della rappresentazione di città lontane. Per del Giudice, il Civitates rappresenta difatti un’opera di geografia umana dato che ha come scopo far conoscere gli usi e i costumi degli abitanti, oltre all’urbanistica, delle città raffigurate.

Con il titolo Cities of the World, a cura di Stephan Füssel, direttore dell’Istituto di storia del libro nell’Università Johannes Gutenberg di Mainz, e con una prefazione di Rem Koolhaas, la Taschen ripropone dopo più di quattro secoli l’edizione completa di un’opera bellissima, una raccolta di 363 tavole a colori commentate rappresentanti le civitates orbis terrarum.
Nel 1572 Georg Braun, topografo, geografo e rettore della chiesa di Santa Maria ad Gradus di Colonia, e Franz Hogenberg, editore, incisore e forse ideatore dell’impresa, diedero alle stampe a Colonia il primo volume che compone l’edizione originale e terminarono il sesto e ultimo nel 1617 con un centinaio di collaboratori. Braun e Hogenberg non rifecero il lavoro già fatto, usarono anche carte esistenti come quelle del tedesco Sebastian Münster, autore della Cosmographia nel 1544, o dell’olandese Jacob Roelofs van Deventer [...] e chiesero al danese Heinrich van Rantzau, più noto come Rantzovius, di occuparsi delle città nordeuropee.
Sono decenni importantissimi e naturalmente non solo per le discipline cartografiche; si leggeva molto e ci si entusiasmava, testi greci prima sconosciuti circolavano in discreta quantità e tra questi la Cosmografia di Claudio Tolomeo, traduzione latina della Geografia curata da Jacopo Angelo da Scarperia, e si navigava, si scriveva e si stampava, lo spazio si offriva percettibile e rappresentabile fino al più curioso dettaglio, lo si temeva di meno. E si temevano meno le città, quelle degli altri, lontane o lontanissime, basta guardare Il Cairo o Gerba o Cuzco nelle stampe di Münster, città egualmente ordinate, armoniose, serene e forse felici, c’è solo un po’ di giallo in più a distinguerle da Berna o da Friburgo. Segnatamente l’“atlante di città” conosce già una sua tradizione, come scrive Füssel nel saggio di apertura a Cities of the World. Quanto al primo atlante vero e proprio, raccolta coerente e sistematica di carte geografiche, è del 1570, il Theatrum Orbis Terrarum di Abraham Ortelius, uno dei collaboratori in Civitates Orbis Terrarum; ma forse il più antico atlante risale al 1507, è quello di Martin Waldseemüller, prima opera a mostrare chiaramente che l’America è separata dall’Asia, prima opera che attesta il nome “America” in onore di Amerigo Vespucci. Dopo Ortelius, nel 1578, il fiammingo Gerhard Kramer, Gerardo Mercatore, riprendeva la raccolta di Tolomeo e nel frattempo ideava la proiezione cilindrica isogona, costruiva astrolabi, modellava globi terrestri e celesti, e anche lui inventava parole. È di Mercatore l’idea di intitolare le raccolte di carte geografiche al titano Atlante, condannato da Giove a sorreggere la volta del cielo, o il mondo come si è pensato più tardi (Atlas sive cosmographicae meditationes de fabrica mundi è del 1595).
Tornando a Civitates Orbis Terrarum, fa parte di questo panorama intellettuale ma al tempo stesso è una novità, perché è letteratura di viaggio per immagini. Il fine dell’opera non è l’utile, come per i portolani e gli isolari, cioè quei portolani specialmente pensati per la navigazione tra il continente e le isole, ma il dilettevole. In pieno Rinascimento e agli inizi dell’età moderna, l’età della conoscenza finalizzata, della meccanica, dei fini sufficienti a giustificare tutto, Braun e Hogenberg sono sicuri che non esista cosa più piacevole dell’osservare la forma universale della terra rimanendo comodamente in casa propria, al sicuro da ogni pericolo. [...]
Per dilettare il lettore con serietà, Braun e Hogenberg cercano le immagini veritiere delle cose. Non vogliono alludere o idealizzare ma rappresentare fedelmente sulla carta, riprodurre con esattezza e in tempo reale quello che l’occhio vede [...]. Braun e Hogenberg avrebbero voluto fotografare le città del mondo e sarebbero stati degli ottimi fotografi. Dunque, sotto gli occhi del lettore, i cannoni dell’antica Neuhäusel situati sul lato est della fortezza esagonale hanno caricato e sparato, e la polvere incendiata lascia a pelo d’acqua un grosso sbuffo di fumo; poco lontano un cavaliere si è tolto il copricapo piumato e sfiora la mano di una gentildonna in gorgiera apprestandosi a baciarla. Uno scudiero è fermo alle spalle di lei; un servo appoggiato al suo piccone guarda curioso e altrettanto curioso è lo stalliere che sta porgendo un tino d’acqua al cavallo ma si è distratto dalle sue mansioni.
Spara anche l’unico cannone di un’imbarcazione a remi che naviga sul Danubio a Plindeburg, situato a prua; la fortezza montana a oriente risponde con una raffica di colpi, di sicuro sono armati meglio dei naviganti, e vinceranno, e intanto sulla riva del fiume ci sono tre figure, incuranti della battaglia e del frastuono che assorda, dato che si spara contemporaneamente da est e da ovest, più i due cavalieri che accorrono a rapido galoppo e percuotono forte il terreno con gli zoccoli ferrati. Tre figure distratte che vivono la quotidianità delle loro vicende, ma guardando meglio le figure sono quattro, un uomo che apostrofa con durezza una donna velata, alle spalle di lui un’altra donna a capo coperto, e dietro questa, seminascosta, si intravede una bambina intimidita. In fondo c’è un patibolo deserto, lì non sta accadendo nulla, ma delle teste di Turchi simili a enormi bacche di mirto sono infilzate ai rami secchi degli alberi.
A Siviglia è in corso la execution de justitia de los cornudos patientes: l’uomo è a dorso di mulo, l’espressione incredula, porta sul capo due enormi corna di cervo ingigantite da una ghirlanda di foglie e campanelli e rese ancora più umilianti da quattro bandierine rosse. Anche la sua innamorata avanza a dorso di mulo, si protegge il volto con i capelli. Squilli di tromba annunciano il loro passaggio. Qualche metro più in là un’altra esecuzione, una pettegola calunniatrice coperta di melassa e vespe, e sullo sfondo la cinta delle mura, la Giralda, il palazzo reale, gli orti, l’acquedotto, e tutto a sinistra a margine del foglio il Quemadero de Tablada, luogo di esecuzione pubblica voluto dagli inquisitori nel 1481 il cui architetto, un ebreo, fu tra i primi giustiziati.
Le immagini di Civitates Orbis Terrarum nascono quasi sempre da uno sguardo obliquo, un’angolatura più o meno acuta che mostra gli edifici interi a partire dai loro basamenti, un modo di guardare le cose che non è mai piatto e dall’alto. La rappresentazione a linee e segni, la mappa mundi che vuole il mondo in piano è scardinata, e alla pura geografia inerte e sottratta al movimento è sostituita la visione “a volo d’uccello”, non troppo in alto da annullare i particolari e non troppo in basso da perdere di vista l’insieme, con una vivacità straordinaria. Si viaggia comodamente e al sicuro tra le civitates orbis terrarum e le loro varie umanità, perché questa è anche un’opera di geografia umana. Qui si porta a compimento l’intenzione di far conoscere gli usi e i costumi e non solo le coordinate geografiche e le viabilità che aveva annunciato, per esempio, il miniaturista e cartografo di Padova Benedetto Bordone [...].
In alcune città soffia un vento impetuoso, come nel porto di Vlissingen dove le vele si gonfiano ai venti di levante, ponente e anche tramontana, ma in tutte c’è il sole, è l’ottimismo rinascimentale; edifici, figure e piante hanno la loro ombra, anche il sole è obliquo, alla definizione degli spazi segue l’attenzione ai tempi. Sono i tempi della giornata e i tempi della storia come a Gerusalemme dove tutto sembra immobile e composto, anche il poveraccio messo alla gogna, gli spazi si intersecano regolari, la città sembra un antico alfabeto o una partita di monopoli; perfino gli accampamenti fuori le mura sono una presenza calibrata. Però il tempo corre ed è tutto in simultanea, il Cristo procede sulla via crucis, sono rappresentate tutte le dodici stazioni, e anche la morte, e anche la resurrezione perché sul margine sinistro la tomba è vuota.

Georg Braun e Franz Hogenberg, Cities of the World, a cura di Stephan Füssel, Taschen 2008.