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Una pagina al giorno: necrologio onesto del fascismo, di Giuseppe Prezzolini

di Francesco Lamendola - 24/11/2008


Dal «Manifesto dei Conservatori» di Giuseppe Prezzolini, Rusconi Editore, 1972, pp. 137-144:

«Sul mio atteggiamento verso il fascismo  molte son le leggende e poche le letture.
Il fascismo durò circa trent'anni fra incubazione, esplosione, conflagrazione, estinzione. Modificai il mio atteggiamento a seconda di queste vicende. Ma non in vista di appetiti sociali o finanziari, come accadde a molti.
Ero meglio informato di moltissimi italiani. Vivevo all'estero, oltre gli americani leggevo giornali italiani, e periodici antifascisti di Parigi. Però non credevo molto né a quelli né a questi. C'erano silenzi e bugie, cecità e fantasie da ambo le parti. Passavo le vacanze in Italia e parlavo in confidenza con pochi amici fascisti e antifascisti fidati. Visitavo Croce e Mussolini.
Non è il caso di seguire le mie previsioni. Non sempre sarò stato indovino come quando nel 1920 dissi a Gobetti, quasi col cronometro,  che il fascismo sarebbe durato venticinque anni.
Ci son due punti sui quali voglio fare il punto.
Il primo è la guerra d'Etiopia., Fu il culmine del fascismo. Persino molti antifascisti si commossero per le sanzioni. Molte loro spose regalarono gli anelli alla patria.
A me l'impresa non piaceva. La conquista dell'Etiopia aumentava il numero di sassi che si dovevano raccattare per poter coltivare quelle terre; e poi una colonia separata dal mare e da Paesi nemici non si sarebbe potuta difendere, come accadde infatti, nonostante il valore delle truppe e del Duca d'Aosta.
Ma mi stizzivano le lezioni di morale di inglesi, americani e francesi. Avevano commesso, anche recentemente, le stesse rapine e ne stavano godendo la gloria ed i benefici, senza pensare un momenti di restituire le terre rubate, secondo le loro idee umanitarie e democratiche, ai popoli ai quali le avevano portate via.
Il secondo punto è il giudizio storico sul fascismo. Sono stato uno dei primi a considerare il fascismo come un fenomeno naturale che ha avuto ragioni profonde e uno svolgimento che rientra nei limiti della storia di tutti i tempi.  Non va giudicato da un punto di vista morale. Il fascismo è un fenomeno degno  di attenzione come il comunismo.
In Italia ci fu un tentativo di rinnovare un Paese scosso dalla guerra, e farlo più orgoglioso, più energico, più virile, più avventuroso, e introdurlo nel gioco delle grandi potenze; Mussolini sbagliò l'ultima carta nel calcolare il nemico e anche la capacità del popolo italiano, e portò alla sconfitta e al disastro.
In Russia ci fu dopo la guerra perduta una rivoluzione che voleva presentare al mondo una nuova civiltà, in cui gli uomini non sarebbero stati più sfruttati, avrebbero goduto il benessere, la giustizia,  l'affratellamento; ma dopo aver distrutto l'aristocrazia e aver ucciso alcuni milioni di "coltivatori diretti", la popolazione viene sfruttata da una burocrazia lenta e incapace a dirigere l'economia in modo soddisfacente, le spese militari sono le più alte del mondo, le truppe sono impiegate nel reprimere un altro Paese amico che vuole cambiar di governo, oppure ammassate ai confini di un altro Paese comunista.
Non so perché si voglia fare una differenza morale fra i due.  Ambedue i sistemi hanno usato sistemi simili di illusione, di repressione, di eccitamento, di crudeltà, di ragion di Stato che furon usati per secoli, salvo che in proporzioni maggiori di quelle dei tempi passati. Dunque studiamo questi fenomeni per quello che furono, sena far differenza fra i due.
Oggi c'è una tendenza generale a considerare il fascismo con occhio da storico ed a questa tendenza dirò che io mi attenni anche prima che esso avesse compiuto il suo corso e appartenesse al cimitero dei tentativi di dare alla nazione un'organizzazione capace di conservare nella lotta l'indipendenza e i propri caratteri nazionali.
Il fascismo poté vantarsi di essere idea italiana che trovò imitatori in altri Paesi, e parve, per un certo tempo, soddisfare i bisogni di alcuni Paesi europei e cercare una via di mezzo tra il comunismo e l'economia liberale. Da questo punto di vista il fascismo corrispondeva ad uno sviluppo generale verificatosi in tutto il mondo, caratterizzato dall'espandersi delle funzioni economiche dello Stato. Gli episodi di soppressione della libertà individuale, l'arricchimento dei capi, la corruzione pubblica e la crudeltà politica che resero odioso il fascismo non erano che avvenimenti superficiali, in nessun modo nuovi nella vita italiana, ma capaci di oscurare la realtà che aveva dato origine all'esperimento fascista.
Il fascismo fu un movimento sociale e politico di notevole importanza, se poté durare ventidue anni. Non poté sorgere senza ragioni profonde, del resto facili a vedersi.  Infatti, esso fu principalmente la conseguenza di una guerra, non voluta dalla maggioranza della popolazione, imposta ad essa da piccoli gruppi e da una circostanza di politica estera che non interessava profondamente la popolazione italiana. Tale guerra portò uno sconquasso nelle istituzioni liberali, che erano state appiccicate al  Paese piuttosto che nate da esso. Ed in quel disordine una minoranza di veterani, di demi-solde, che erano stati abituati dalla guerra a comandare, a rischiare la vita ed a toglierla agli avversari, ebbe il sopravvento  sopra timidi parlamentari, avvocati chiacchieroni, e organizzazioni operaie abituate alle transazioni ed agli scioperi politici, ma non alla lotta violenta.
Il fascismo fu una delle più italiane creazioni politiche  che ci siano state. Poiché se guardiamo alla storia d'Italia, quali forme originali di Stato si trovano? Prima di tutto il Papato, universale monarchia in principio, ma storicamente in grande parte formata e nutrita da menti e volontà italiane, poi i Comuni, oligarchie cittadine mercantile, quindi le Signorie, dittature di fatto e bellicose che diventarono ereditarie e conservatrici col tempo, e poi si salta fino al fascismo, che venne imitato in parecchie parti del mondo.
Esso fu concepito da italiani, fatto da italiani, tenuto in vita da italiani ed accettato, finalmente, con esaltazione ed apparente entusiasmo, dalla maggioranza degli italiani; i quali si adattarono ad alzare la mano in segno di saluto, a marciare col passo dell'oca, a radunarsi ad ore esatte gridando gli stessi motti, insomma a comportarsi come non si eran mai comportati "collettivamente" in nessuno dei momenti della loro storia, anche quando furono dominati da stranieri.
Il fascismo fu l'apice del Risorgimento italiano, ed anche l'ultimo atto del Risorgimento nazionale ed il più disperato tentativo, non riuscito, di dare unità ai popoli della penisola italiana costituendovi uno Stato forte.  Il fallimento di questo tentativo, dovuto a forse estranee al Paese, ha condotto l'Italia a cercar di diventare una provincia dell'Europa, come unico mezzo di salvare e di far valere  entro un organismo politico più forte ed ampio le qualità del suo popolo artistico,  individualistico e abile; poiché l'alternativa sarebbe la sudditanza alla Russia.
Una cosa è ferma: si può dire molto male del fascismo e di Mussolini; ma chi ne duce male dovrebbe sempre ricordarsi che non avrebbero avuto il buon successo che ebbero per ventidue ani, se non avessero trovato l'appoggio , l'entusiasmo, le dedizioni, le imitazioni  la complicità e il benestare, almeno a segni e parole, del popolo italiano. Il fascismo fu una situazione storica che il popolo italiano, salvo eccezioni, tutto quanto, plebe e magnati, clero e laici, esercito e università, capitale e provincia, industriali e commercianti e agricoltori fecero propria, nutrirono col proprio consenso ed applauso, e che, se fosse continuata, oggi essi continuerebbero ad applaudire e a sostenere.
Fascisti e antifascisti hanno collaborato alla rovina dello Stato italiano e si son dati la mano per distruggerlo. Il fascismo, col dichiarare la guerra, l'antifascismo facendo sapere agli alleati che l'Italia era disunita, e indicandola quindi come il punto più debole da attaccare. I fascisti consegnarono l'Italia ala Germania, gli antifascisti agli alleati; tutti insieme prepararono la schiavitù politica sotto lo straniero, che essi preferivano alla vittoria dell'avversario politico interno. Le distruzioni e le rapine sono per metà dei tedeschi e per metà degli alleati. I fascisti non capirono che la Germania non lavorava per il fascismo, ma per sé; e gli antifascisti non capirono che gli alleati non lavoravano per l'antifascismo, ma per se stessi.»

Della onestà intellettuale di Giuseppe Prezzolini e della sua straordinaria capacità di giudicare uomini e cose con lucidità spassionata, uscendo fuori dal coro angusto dei conformismi e delle mode interessate, abbiamo già avuto occasione di parlare nel precedente articolo «Forse Prezzolini fu il solo a comprendere, e Del Noce fu il solo a capire che aveva compreso», consultabile anch'esso sul sito di Arianna Editrice).
Tali qualità, invero non frequenti nel panorama degli intellettuali italiani del Novecento, anzi, decisamente anomale, appaiono in piena luce in questo «Necrologio onesto del fascismo», che è il capitolo conclusivo del suo «Manifesto dei conservatori».
Apriamo una parentesi per ricordare con gratitudine la Casa Editrice Rusconi, che, da posizioni francamente di destra, ma intelligenti e stimolanti, portava una ventata di aria fresca nel mefitico duopolio culturale di allora (democristiano e socialista). Una ventata d'aria fresca che sarebbe tanto più necessaria oggi, quando sembra che sia scomparso ogni spazio possibile per una critica al Palazzo e al suo sistema di potere,  e i posti a tavola rimasti sono solo ed esclusivamente quelli dei pennivendoli prezzolati e senza un'ombra di dignità morale e intellettuale.
Era possibile leggere, presso quella casa editrice, libri come «Difesa della Luna» di Guido Ceronetti, «Storia di una eresia»di Giacomo Noventa, «Il crepuscolo dello scientismo» di Giuseppe Sermonti», «Il mito del mondo nuovo»di Eric Voegelin»o «Filosofia della reazione» di Armando Plebe. Libri buoni, densi, provocatori, impietosi, scomodamente intelligenti; libri come di rado è possibile leggerne oggi, quando dominano le banalità grossolane dei due opposti estremismi: quello populista-berlusconiano e quello post-comunista psueudo-democratico.
Ma torniamo a Prezzolini.
In fondo, qualunque discorso intorno al fascismo - ad onta di sessant'anni e più di retorica antifascista - si riduce a una seria riflessione intorno alla definizione togliattiana di esso come di un «movimento reazionario di massa»; perché, se un movimento politico è «di massa», allora - sia esso reazionario quanto si vuole - è un frutto genuino e popolare di quella data società, in quel dato momento storico.
Insomma, delle due l'una: o si nega che il fascismo sia stato un movimento di massa, e si tenta di spiegarlo in chiave di pura e semplice dittatura reazionaria; oppure si ammette che sia stato un movimento di massa, e allora bisogna rivedere il concetto di «reazionario». Nella cultura politica attuale, reazionario é un sinonimo di borghese e padronale; ma, evidentemente, questa è una interpretazione del tutto inadeguata, perché il fascismo - o, quanto meno, il fascismo delle origini, quello di Piazza San Sepolcro (e con la «coda» della R. S. I.) - era antiborghese quanto lo era il socialismo: del quale, in effetti, costituisce una specie di "eresia". Che, poi, durante il Ventennio, il «fascismo regime» abbia prevalso sul «fascismo movimento», venendo a un accomodamento con i tradizionali poteri 'forti' (monarchia, finanza, grande industria, agrari e Chiesa cattolica), questo è un altro discorso; non perciò ne ebbe a risentire la sua natura di massa: ché, anzi, durante il ventennio, e specialmente dopo la stipulazione dei Patti Lateranensi e poi, con la conquista  dell'Impero, esso acquisì il massimo del consenso.
Dunque: se il fascismo fu un fenomeno di massa, esso fu meno reazionario di quel che oggi si sia disposti ad ammettere; o, quanto meno, bisogna ammettere che in esso esisteva un'anima popolare, antiborghese e di sinistra, che traeva origine dal sindacalismo rivoluzionario di matrice soreliana, la quale non si spense mai del tutto; e che, negli ultimi anni del regime, si fece strada per riemergere, come fu particolarmente evidente nella vicenda della R.S.I.
Ora, Giuseppe Prezzolini ha visto con chiarezza il "peccatum originalis" sia del fascismo che dell'antifascismo: l'essere un hegelismo senza dialettica, una deificazione della storia che, però, non riconosce e non vuol fare proprie le ragioni dell'avversario, in nome di un superamento di ciò che è parziale e contingente, in vista dell'assoluto.
Per il fascismo, l'Italia è stata vittima della politica imbelle dei liberali e della demagogia dei socialcomunisti; per il liberalismo e il socialcomunismo, essa è stata vittima di una truce dittatura imposta soltanto con la forza. Entrambi non possono sopravvivere alla scomparsa del proprio antagonista, né accoglierne le ragioni storiche per dare sostanza alla propria proposta politica.
Questo è stato l'intimo dramma dell'antifascismo italiano, preso in una inestricabile contraddizione con se stesso: perché, hegelianamente,  ha identificato il reale con il razionale, cioè ha identificato se stesso con la storia; ma poi, poco hegelianamente, ha rifiutato di operare una sintesi rispetto alle istanze del proprio avversario.
L'antifascismo, così, è divenuto uno storicismo senza dialettica, una guerra dichiarata contro qualche cosa di cui si negava la reale consistenza; anzi, di cui si negava la stessa storicità, trasformandolo in un evento metafisico e mitologico.
Giuseppe Prezzolini ha intuito o visto tutto ciò, e si è spinto - nel «Manifesto dei conservatori», ancora più in là; e questo spiega il suo atteggiamento fortemente critico nei confronti dello scientismo dominante, allora non meno di oggi.
Il carattere della scienza moderna è quello di trasformare il mondo in un oggetto, di ridurlo a una cosa, o un insieme di cose, manipolabili a piacere. Essendo venuta a mancare un'istanza di ordine superiore, una istanza basata sui valori del vero e del falso, del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto, tutti gli uomini sono diventati cose per ogni altro uomo: o strumenti di piacere e di potere, oppure ostacoli da abbattere.
Ora, Prezzolini rivendica il suo diritto ad essere un conservatore proprio in base alla constatazione che la cultura di sinistra privilegia la categoria dei diritti rispetto a quella dei doveri: dunque, essa va nella direzione dello scientismo, ossia nella riduzione degli enti a cose da sottomettere e strumentalizzare. Scientismo e idealismo hanno un elemento fondamentale in comune, nonostante le apparenze: pretendono di ridurre gli enti a oggetti manipolabili a piacere:  l'uno in nome della Scienza, l'altro in nome dell'Idea (che s'incarna nella Storia).

Dobbiamo dire un grazie a Giuseppe Prezzolini per averci aiutati a comprendere questi meccanismi culturali e queste dinamiche nascoste della società italiana moderna.
La sua lucida intelligenza, manzonianamente pura così da servo encomio come da vile oltraggio, poté permettersi di dire alcune verità sgradevoli che, nell'Italietta repubblicana e antifascista, suonarono come intollerabili eresie e vennero coperte dal chiasso assordante degli intellettuali militanti; magari gli stessi che, qualche decennio prima, avevano militato con eguale intransigenza sotto il simbolo del Fascio.
Già, perché l'Italia è il Paese dove la vittoria ha cento amici e la sconfitta, nemmeno un cane che l'abbia mai conosciuta.
Non aveva scritto meraviglie dell'esercito italiano, durante il Ventennio, quel Luigi Barzini che poi, nel suo libro «Gli Italiani», avrebbe definito Mussolini un grande illusionista, capace di lanciare il Paese in una guerra mondiale cui era assolutamente impreparato, credendo davvero alle frottole della sua stessa propaganda?
E quel che vale per Barzini, vale ugualmente per tanti altri intellettuali che, nel 1945, fecero il salto al di là del fosso, passando armi e bagagli nell'antifascismo militante e sostenendo che, loro, avevano sempre saputo e sempre messo in guardia contro le pericolose illusioni e l'aberrante megalomania mussoliniana.
Prezzolini ci mostra una chiave interpretativa del fenomeno fascista sulla quale si dovrebbe tornare a lavorare: quella dell'ultimo, disperato tentativo di tracciare una via nazionale verso la modernità. Poi, nel 1945, la modernità è arrivata dal di fuori, al seguito dei «liberatori» angloamericani, scambiati per campioni dell'antifascismo; mentre erano solo e unicamente gli ennesimi stranieri occupanti.
Un tentativo che ebbe certamente degli aspetti odiosi ed erronei, che sarebbe fazioso cercar di negare; ma che non fu solo una montatura e una pagliacciata, come i suoi avversari vorrebbero far credere.
Basti dire che, nel campo della cultura, non si è più vista una operazione culturale di altissimo livello come quella che portò alla pubblicazione della «Enciclopedia Italiana» - una delle migliori del mondo - per volontà di un filosofo fascista, Giovanni Gentile, che chiamò a collaborarvi i miglioro ingegni dell'epoca, antifascisti compresi.
Lo stesso corporativismo fu un tentativo serio, anche se disperato e, di fatto, abortito sul nascere, per trovare una risposta al grande problema della globalizzazione dell'economia, evidenziata tragicamente dalla grande crisi del '29, e della necessità di un più largo intervento dello Stato nelle singole economie nazionali.
Solo se avesse riconosciuto gli aspetti propositivi e progressisti del fascismo, accanto a quelli anacronistici e reazionari, l'antifascismo avrebbe potuto aspirare a superarlo veramente, tracciando una strada nuova davanti al Paese. Diversamente, non poteva che votarsi - come di fatto è avvenuto - ad una estinzione ingloriosa, al termine di una pura e semplice occupazione del potere, al servizio di un padrone esterno (Gli Stati Uniti e l'Alleanza Atlantica) che, quanto al perseguimento dei propri interessi, non certo coincidenti con quelli nazionali italiani, non differiva da quello cui s'era appoggiato il fascismo (la Germania hitleriana).
Insomma, fra gli Anni Venti e gli Anni Quaranta la posta in gioco fu la possibilità, per l'Italia, di effettuare una transizione verso la modernità (economica, sociale, culturale) guidata dalle forze nazionali e realizzando - nello stesso tempo - l'integrazione reciproca fra Stato e società civile. Il tentativo fallì; e, se l'Italia è sopravvissuta come Stato nazionale, ha dovuto però puntare tutte le sue carte sull'integrazione europea, riconoscendo implicitamente la propria incapacità di assolvere la sua funzione storica e delegandola a un'istanza superiore.
Ecco perché la politica italiana è sempre stata convintamente europeista: perché solo in una Europa integrata l'Italia avrebbe potuto sopravvivere come Stato. E la sua classe politica e intellettuale - una delle più arretrate e cialtrone del mondo - avrebbe potuto continuare a godere dei benefici della struttura burocratica nazionale, aggiungendovi pure quelli del Parlamento europeo.
Insomma, per una classe dominante che non riesce nemmeno a preservare la ragione formale della propria esistenza e dei propri privilegi - la costruzione di uno Stato efficiente, moderno e di una burocrazia onesta -, l'Unione Europea è una insperata ciambella di salvataggio, grazie alla quale essa tenterà di riciclarsi come classe dominante, non più di uno Stato indipendente, ma di una provincia di un super-Stato che sia moderno, efficiente e burocraticamente non corrotto.
Ma anche questa non è che l'estrema illusione dei nostri potenti.
Perché, in una Europa moderna, efficiente e burocraticamente onesta, per loro non ci sarà più posto; come non ce n'era più per i dinosauri, dopo i mutamenti climatici del Terziario.
Anche questa volta - come nel 1940 e come nel 1945 - quei signori hanno sbagliato i loro calcoli per un eccesso di furbizia. Non si rendono conto che, in un moderno super-Stato efficiente e meritocratico, nessuno saprà più che farsene di loro. Potevano prosperare solo nell'Italietta degli scandali, della corruzione, della mafia e della 'ndrangheta.
Oppure questa volta la loro furbizia si è fatta un po' meno rozza, e cominciano ad annusare odor di bruciato?
È in questo senso che dobbiamo interpretare il raffreddamento, sopraggiunto nell'ultimo decennio, degli entusiasmi europeisti della nostra classe dominante?
Possiamo immaginarci un Bossi, un Berlusconi, un Gasparri, un Cicchitto, un senatore Villari come parte attiva e stimata della futura classe dirigente europea? E, per converso, un Bertinotti, un D'Alema, un Rutelli?
Ma per carità; quelli non li vorrà nessuno. In un super-Stato efficientista e meritocratico conteranno i fatti, non le chiacchiere; e quei signori sono bravi solo a parole - oltre che, naturalmente, nella difesa delle loro poltrone e dei loro interessi privati.
Perderemo la nostra classe dominante, come stiamo perdendo la compagnia aerea di bandiera; come stiamo perdendo le nostre banche, i nostri supermercati, le nostre case automobilistiche e tutto il resto. Saremo governati e amministrati da stranieri.
Non sarà un gran male.
Forse essi saranno un po' meno classe dominante e un po' più classe dirigente. Forse faranno perfino viaggiare i treni in orario, limiteranno gli incidenti sul lavoro, elimineranno la piaga dell'evasione fiscale, debelleranno la criminalità organizzata, restituiranno alla gente un minimo di fiducia nelle istituzioni pubbliche.
E intanto i nostri cervelli, ancor più di quanto accada oggi, se ne andranno a lavorare in qualche università o in qualche laboratorio un po' più seri di quelli di casa nostra.
L'aspetto poco simpatico è che tutto questo avverrà contemporaneamente alla distruzione del nostro spirito nazionale: proprio quello che il fascismo cercò di rinsaldare o, per dir meglio, di creare: per questo Prezzolini lo definisce, secondo noi a ragione, il culmine del Risorgimento.
E sarà un peccato.
Perché, se noi Italiani non siamo stati bravi nel creare una classe dirigente seria e, di conseguenza, nel costruire uno Stato nazionale, siamo però bravi in tante altre cose, dall'arte alla scienza, dalla spiritualità al "made in Italy".
Ed è un peccato che questo grande patrimonio debba andare perduto, sommerso nel gran mare della Coca-Cola e dei Mc Donald's.