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Compito dell'archeologia è contribuire alla scienza o fornire lustro ai nazionalismi culturali?

di Francesco Lamendola - 24/11/2008


Di chi sono i beni archeologici riportati alla luce, dopo un sonno millenario, dall'intelligenza e dallo sforzo finanziario degli uomini? Dei Paesi in cui si trovano, o dei Paesi che li hanno individuati, dissepolti, restaurati, spesso con grandi sacrifici?
Dopo la seconda guerra mondiale, in accordo con l'ondata nazionalista degli ex Paesi coloniali che stavano accedendo all'indipendenza, si disse ovunque, e sembrò l'unica scuola di pensiero «politicamente corretta», che l'unica risposta possibile  era quella a favore della prima delle due alternative. In base ad essa, i beni archeologi egiziani sono dell'Egitto; quelli mesopotamici, dell'Iraq; quelli greci, della Grecia; e così via.
L'Italia, sia detto per inciso, si trova ad essere interessata ad entrambi i corni della questione; perché, se possiede notevoli beni archeologici di provenienza straniera (si pensi soltanto al Museo Egizio di Torino, che è considerato il più importante del mondo dopo quello del Cairo), ospita nel proprio territorio qualcosa come il 60% del patrimonio archeologico mondiale, e innumerevoli sono i reperti che ogni anno partono illegalmente verso collezioni pubbliche e private straniere, specialmente statunitensi.
Fino a qualche mese fa si sono accese vivaci discussioni intorno alla sorte dell'obelisco di Axum, portato a Roma per volontà di Mussolini nel 1937 e restituito all'Etiopia, con una cerimonia solenne il 4 settembre del 2008, presenti le massime autorità di quel Paese e, per l'Italia, il sottosegretario agli Esteri, Mantica.
Il critico d'arte Vittorio Sgarbi non era d'accordo con la restituzione e tuttora caldeggia il riacquisto del manufatto da parte del governo italiano; ma la sua non era stata l'unica voce di dissenso o, quanto meno, di perplessità, riguardo al ritorno della stele in Etiopia. Ne riparleremo.
Per intanto, se ci domandiamo quando cominciò ad affermarsi la scuola di pensiero secondo cui i beni archeologi sono patrimonio della scienza, e non delle single nazioni;  e, pertanto, lo scopo degli scavi finanziati da governi stranieri non deve essere il trasporto dei reperti nei propri Paesi, ma deve essere una operazione assolutamente disinteressata, scopriamo che essa trova il suo primo esponente in un archeologo e storico tedesco della seconda metà dell'Ottocento: Ernst Curtius (1814-1896).
Nato a Lubecca, figlio di un legale, prima di assumere, nel 1875, la direzione degli scavi di Olimpia, era stato precettore di principi alla corte prussiana, professore di filologia a Berlino e Gottinga, poi direttore del museo e dell'Antiquarium di Berlino,
A quell'epoca, di Olimpia non esisteva che il ricordo, conservato dagli autori classici, fra i quali lo scrittore greco Pausania, vissuto nella seconda metà del II secolo dopo Crist.; ma l'antica città del Peloponneso, famosa per i giochi panellenici, giaceva sepolta sotto la sabbia. Curtius, tuttavia,  era sicuro che la si sarebbe potuta riportare alla luce facilmente, seguendo le precise indicazioni di Pausania.
Curtius era un uomo modesto, riservato, profondamente religioso, che era stato sul punto di farsi pastore; suo figlio ricorda la devozione con la quale recitava le preghiere del mattino. Non lo interessava la gloria, ma la possibilità di restituire al mondo le meraviglie perdute di Olimpia. Nutrito di buoni studi classici, frequentò a Bonn i corsi di filologia di Christian August Brandis, po, a Gottinga, ebbe per maestri Karl Otfried Müller e infine, a Berlino, August Boeckh.
A ventidue anni, mentre lavorava alla tesi di laurea, il professor Brandis gli chiese di accompagnarlo in Grecia, dove era stato invitato dal re Ottone quale consulente per l'organizzazione del sistema universitario,  come precettore dei suoi figli.
Era la fine del 1836 e Curtius si recò per la prima volta in Grecia; ma solo nel 1840 ebbe l'opportunità di recarsi sul luogo ove un tempo sorgeva Olimpia e si sentì afferrare dal sogno di riportare alla luce quella splendida città dedicata al culto di Zeus e di Era, che era stata teatro dei giochi olimpici per più di mille anni, fra il 776 a.C. ed il 393 d. C.
Rientrato in Germania poco tempo dopo, discusse la sua tesi all'Università di Halle, intitolata «Commentatio de portibus Athenarum», indi conseguì la libera docenza a Berlino  e divenne precettore del futuro imperatore Federico III e membro dell'Accademia prussiana delle scienze di Berlino.
Sposatosi con la vedova Besser che era morto dopo solo un anno di matrimonio, lasciandogli un figlioletto, si era risposato con la sorella di questa, ma non aveva mai dimenticato il suo sogno di riportare alla luce i resti di Olimpia; e si ingegnava per trovare dei finanziamenti a tale scopo. Ma la Germania non era ancora uno Stato unitario e nessuno degli Stati tedeschi esistenti, nemmeno la Prussia, sembravano disposti ad investire la somma necessaria.

Ha scritto Philipp Vanderberg nel suo libro «Avventure archeologiche» (titolo originale: «Auf den Spuren unserer Vegangenheit», München, Wilhelm Goldmann Verlag, 1977, 1978; traduzione italiana di Maria Grazia Cocconi Poli ed Elisabetta Dell'Anna, Milano, Sugarco, 1980, pp. 72-77):

«Non dimenticò il suo sogno di Olimpia. Al contrario. Man mano che la sua posizione acquistava importanza, sempre più concretamente Curtius si sforzava di realizzarlo. Il 10 gennaio 1852, all'Accademia di canto di Berlino, Curtius tenne una conferenza su Olimpia. Un migliaio di persone, tra cui il re Federico Guglielmo IV, restarono affascinate dal progetto del professore di riesumare quell'importantissimo centro della civiltà greca. Il re organizzò lì per lì una raccolta di fondi che si estese a tutta la città, ma il risultato fu deludente: 787 marchi. I tempi erano difficili. Anche il ministero prussiano per la cultura non poté entusiasmarsi per quell'impresa colossale: le casse erano vuote.
Deluso, Curtius abbandonò la città. Il 20 marzo 1856 inviò al principe Federico le sue dimissioni, comunicandogli di aver ricevuto un incarico come professore a Gottinga.. In questa città scrisse la sua famosa storia della Grecia in tre volumi, apparsa in sei edizioni fra il 1857 e il 1889. Fino al 1868 insegnò, poi venne richiamato a Berlino come professore di archeologia classica dell'Antiquarium del regio museo.
È difficile scorgere nella carriera professionale di Curtius qualche elemento eccezionale: non era un superuomo e neanche un temerario o un giocatore d'azzardo. Era un uomo di scienza, aperto, comunicativo, consapevole del suo valore, che aspettava il momento giusto per realizzare il suo progetto.
L'occasione capitò quando, con la fondazione del Reich nel 1871, l'Istituto archeologico ormai elevato a ente statuale prussiano, aprì una sua sede all'estero, e precisamente ad Atene, per iniziativa di Curtius. Il professore si recò in quella città a nome del governo tedesco per trattare con le autorità greche l'autorizzazione agli scavi di Olimpia.
Il contratto, discusso da Curtius in ogni particolare, era esemplare, non perché contenesse condizioni favorevoli al Reich tedesco: al contrario, non furono pochi i nazionalisti che trovarono da criticarlo perché pareva troppo poco vantaggioso per i patrii musei. A Ciurtius però non interessava riempire i musei tedeschi di tesori, lui voleva invece dare un contributo alla scienza. E la scienza, pensava, è internazionale. Già allora, negli anni settanta, la costituzione greca proibiva di asportare antichità. Secondo il contratto, ai tedeschi, che si sarebbero sobbarcati tutte le spese dell'impresa, venivano promessi solo gli eventuali doppioni. Un impiegato del ministero greco avrebbe presenziato a tutti gli scavi.. "Abbiamo bisogno di tutto questo?", domandò un uomo a Berlino: si trattava di Bismarck.
Il 4 ottobre 1875 Curtius diede il primo colpo di vanga a Olimpia, circa centocinquanta metri a sud dell'angolo sudoccidentale del tempio di Zeus. Lo strato di sabbia che gli scavatori incontrarono era alto, in certi punti, cinque metri.  Là sotto apparvero fondamenta, strade e muri di confine. All'inizio Curtius scavò profondi fossati attraverso la zona per localizzare costruzioni della cui esistenza egli era al corrente.
Questo metodo, in verità estremamente semplice, seguito dal professore di Berlino, divenne normativo per l'intera archeologia. Curtius, negli scavi di prova che faceva per diritto e per traverso, incontrava sempre lo stesso muro, che doveva essere inusitatamente lungo. In esso erano incastrate numerose sculture. I tedeschi scherzosamente dicevano: "Più lungo è, meglio è".
Curtius aveva portato a Olimpia con sé un amico,  l'archeologo Friedrich Adler. Quando non c'erano né lui né Curtius, la direzione dei lavori passava all'assistente Gustav Hirschfeld, un archeologo ventottenne proveniente dalla Pomerania, al cui fianco lavorava l'architetto Adolfd Bötticher.
Alla fine dell'aprile 12876, dopo un primo periodo di scavi, Curtius poteva dirsi veramente soddisfatto. Oltre ai resti di costruzioni di diverse epoche, era riuscito a portare alla luce i seguenti reperti: 178 oggetti in marmo, 685 reperti in bronzo, 242 oggetti d'argilla, 60 reperti di vetro, corno o osso, 167 oggetti metallici, soprattutto il piombo e ferro, 175 monete, 79 iscrizioni,. Né Curtius né i suoi finanziatori a Berlino, però, cercavano di nascondere la loro delusione. Agli esordi dell'archeologia , infatti, quando la terra, gravida di storia concedeva tesori anche a chi vi frugava casualmente, che cosa potevano mai rappresentare quei rammenti di figure  provenienti dal frontone del tempio di Giove, e altri piccoli reperti? Il fatto che l'antica Olimpia venisse richiamata in vita, seppure con rigore scientifico,  non era sufficiente a destare entusiasmo.
Solo nella terza campagna di scavi Curtius ebbe la fortuna di trovare l'eccezionale reperto, quello che ebbe il potere di placare le smanie di tesori. Curtius, in  verità, non si trovava neppure a Olimpia quando avvenne il miracolo; era a Berlino e fui Gustav Hirschfeld a scrivere, l'8 maggio, 1877, "alla direzione degli scavi di Olimpia a Berlino", la lettera seguente:
"Espongo subito il risultato più felice e importante di questi giorni: siamo certi di avere ritrovato l'antico Heraion, secondo tempio di Olimpia in ordine di grandezza, rappresentato da resti in apparenza molto significativi, Un reperto statuario all'interno della cella ha fornito la prova che si tratta veramente dell'Heraion. Qui, infatti, è stato trovato, un po' a ovest della 'Romana' descritta nella relazione precedente, una statua in marmo pario distesa a viso in giù, così com'era caduta, e un Hermes adolescente, parimenti adagiato fra frammenti di robusti mattoni; non abbiamo ancora trovato le gambe al di sotto delle ginocchia e il braccio destro alzato… Lo stato di conservazione della superficie è ottimo, la parte posteriore sciupata. La testa, soprattutto di profilo, è di grande bellezza e grazia, lo sguardo profondo ricorda le opere di Prassitele. La massa di capelli, evidentemente trascurati e arruffati, è più volte traforata, nella parte superiore appena sbozzata.  L'esecuzione del corpo è disuguale, le cosce molto belle, le forme più delicate di quanto ci si aspetterebbe in un Hermes. Si ritiene che nella destra sollevata il dio tenesse un grappolo d'uva perché è evidente che si tratta di un Hermes con il piccolo Dioniso."
Si trattava proprio di quell'Hermes del quale Pausania scrisse (V, 17, 3): "Più tardi nell'Heraion venne consacrato qualcos'altro, un Hermes in marmo, che porta il piccolo Dioniso, opera di  Prassitele. Nel IV secolo a. C. lo scultore Prassitele era ritenuto l'artista più eminente del suo tempo. Venne considerato come appartenente al periodo tardo-classico ed era conosciuto soprattutto per la raffinata tecnica con cui trattava le superfici. Le sue pere più note, oltre all'Hermes, sono l'Afrodite di Cnosso, l'Afrodite di Arles e l'Apollo sauroctono.
Ernst Curtius fece scattare una fotografia dell'Hermes di Prassitele per farne omaggio al principe ereditario Federico Guglielmo, che era stato suo allievo e che si era adoperato molto per gli scavi. Di Olimpia. In un impeto di orgoglio ritornò anche alla poesia, alla quale era stato così devoto nei suoi anni giovanili e, parlando per bocca di Prassitele, scrisse per il principe ereditario i versi seguenti:
Il mio nome era su tutte le bocche,
dovunque l'arte fosse in onore.
Eppure fu un pallido ricordo quello
che nel mondo restò della mia opera.
Le forme che il mio spirito aveva inventato,
la bellezza che i miei occhi avevano visto,
tutto il mio sforzo creativo era scomparso,
impallidito in un'ombra.
Ora però quello che per lungo tempo era perduto,
è stato liberato dalla profonda notte del sepolcro.
Il mio Hermes, rinato, è
Davanti a voi nello splendore della giovinezza.
Appare così quello che a lungo è rimasto nel sepolcro,
di nuovo splende per me il sole della vita,
e questo mattino di resurrezione
questa nuova vita la devo a te.
La sfortuna di Curtius fui che poco dopo il ritrovamento dell'Heraion olimpico e della statua di Hermes di Prassitele, Carl Humann, il figlio di un albergatore di Essen, portò alla luce l'altare di Pergamo. E la coscienza nazionale, formatasi solo da pochi anni, era naturalmente lusingata dal fatto che Humann si accingesse a portarsi via un capolavoro greco e a trapiantarlo in Germania. "Pergamo è sulla bocca di tutti - scriveva Curtius il 31 dicembre 1879 al fratello Georg (1820-1885) -, si sguazza in questa massa di originali e ci si sente improvvisamente pari a Londra."
A Berlino a quest'epoca si riteneva che i musei reali avessero raggiunto il livello del British Museum di Londra. In ogni caso, gli scavi di Olimpia, i cui preziosi reperti affluivano al museo eretto nel frattempo sul luogo, furono messi in ombra dagli scavi di Humann in Asia Minore.
I lavori di Curtius diventavano sempre più dispendiosi, l'area degli scavi sempre maggiore, si rese necessario un numero sempre più alto di sterratori, in ultimo erano cinquecento. La quinta campagna degli scavi, prevista inizialmente come ultima, e alla quale si arrivò fra il 14 ottobre 1879 e la fine del marzo 1880, si rivelò la più dispendiosa e assorbì circa duecentocinquantamila marchi. "Il cancelliere del Reich, deplorava Curtius, "ha annullato improvvisamente un credito supplementare di novantamila marchi che era stato già autorizzato e che era in attesa di approvazione da parte del Consiglio federale. Ora non abbiamo più niente e in aprile o maggio dovremo sospendere tutto. Io naturalmente faccio quanto è possibile, ma anche l'intervento del principe ereditario presso Bismarck è stato inutile, la cosa viene data come molto difficile, mentre non ci sono affatto difficoltà. Pare che ci si ricordi tutto d'un tratto, paragonandolo a quello di Pergamo, che il nostro contratto è troppo sfavorevole…".
Alla fine l'imperatore spese ottantamila marci del suo fondo personale, gli scavi furono salvati, ma comunque non terminati. Questo succedeva nel marzo 1881.
Ernst Curtius non ritornò a Berlino carico di reperti spettacolari, l'Hermes di Prassitele rimase a Olimpia. Curtius aveva però restituito al mondo, del tutto disinteressatamente, una delle località più significative dal punto di vista storico,. Non aveva considerato i reperti alla stregua di trofei, non li aveva strappati al loro ambiente culturale originario e per questo merita di essere considerato il rappresentante esemplare della moderna archeologia. "Il senso storico - scriveva Curtius poche settimane prima di morire -, ha un carattere positivo: l'essenziale è che non ci si perda solo nei particolari.".
Fu l'ultima frase che Curtius mise sulla carta. Il figlio Federico interpreta le parole del padre: "Un giudizio veramente scientifico della tradizione è possibile solo a chi la consideri nel suo complesso, nel suo spirito e nella sua essenza; chi le si fa incontro dall'esterno, senza partecipazione interiore, si priva del metro per distinguere il possibile dall'impossibile, l'autentico dall'apocrifo e non può quindi assolvere al suo compito scientifico."»

Dicevamo dell'obelisco di Axum e del suoi contestato ritorno in Etiopia.
I soldati italiani lo avevano rinvenuto, frantumato in tre tronconi, alla fine del 1936, e Mussolini aveva deciso di portarlo in Italia per celebrare la conquista dell'Impero.
Così, dopo un viaggio di due mesi, che aveva impegnato centinaia di soldati italiani e di ascari eritrei, tagliato in sei sezioni, esso era giunto nel porto di Massaua il 27 marzo del 1937, ove era stato imbarcato sul piroscafo «Adua». Giunto in Italia, era stato innalzato in Piazza di Porta Capena, di fronte al Circo massimo e al Ministero delle Colonie (oggi adibito a sede della F. A. O.), il 28 ottobre 1937, per celebrare il quindicesimo anniversario della marcia su Roma.
Era alto  24 metri e pesava circa 150 tonnellate; fin da subito erano stati necessari importanti lavori di rafforzamento per garantirne la stabilità.
Al momento della firma dei trattati di pace, il 15 settembre 1947 il governo italiano si era impegnato a restituire all'Etiopia tutto il bottino di guerra, compresa la stele di Axum. Quello che accadde poi, a livello diplomatico, non è del tutto chiaro; si tratta di uno dei tanti, troppi misteri, grandi e piccoli, di cui è disseminata la storia dell'Italia repubblicana.
Sostanzialmente, esistono due versioni: una secondo la quale l'imperatore Hailé Selassié, valutati gli altissimi costi di trasporto, avrebbe rinunciato spontaneamente alla restituzione dell'obelisco, facendone agli Italiani un dono personale, nel 1969; ed una secondo la quale il governo italiano avrebbe comunque pagato la somma relativa ai costi di trasporto; ma quello etiopico, avendo speso altrimenti quel denaro e trovandosi nell'impossibilità di far fronte al trasporto di tasca propria, rinunciò ad esigere la restituzione. Sia come sia, le due versioni concordano su un punto: Hailé Selassié fece dono del manufatto all'Italia.
Ma nel 1974 il Negus venne deposto e il nuovo governo etiopico, insediatosi con l'aiuto di Mosca, tornò a domandare la restituzione dell'obelisco di Axum.
Così, dopo molte discussioni e alcuni rinvii, si giunge al 2002, con il restauro della stele che, poi, viene smontata il 7 novembre di quell'anno. Il 18 aprile 2005 il primo frammento giunge in Etiopia, dove è accolto con grandi manifestazioni di gioia. Però, non si sa come, mano a mano che le varie sezioni raggiungono la prima, esse vengono abbandonate sotto un tettoia nel Parco archeologico di Axum, praticamente esposte alle intemperie e al degrado.
Di nuovo si bussa a quattrini presso il governo italiano; e, di nuovo, i quattrini arrivano. Così, grazie ai fondi concessi da Roma, il 4 giugno 2008 viene aperto ad Axum un cantiere per ricomporre l'obelisco, i cui lavori sono terminati con la sua inaugurazione ufficiale il 4 settembre scorso, alla presenza delle massime autorità di Addis Abeba e, per l'Italia, del nostro sottosegretario agli Esteri, come avevamo già accennato all'inizio.

Ci siamo dilungati sulla vicenda dell'obelisco di Axum, dopo aver rievocato la nobile figura del padre di una archeologia non nazionalista, Ernst Curtius, per riflettere su entrambi gli aspetti della questione relativa alla legittima collocazione dei beni archeologici dissepolti nel corso di scavi condotti da parte di istituzioni straniere.
In linea di principio, ci sembra che la giusta collocazione di un'opera d'arte, riportata alla luce dopo migliaia di anni, non possa essere che quella della sua originaria cornice culturale.
Però è anche vero che, se si verificano particolari circostanze locali (si pensi al trasferimento dei templi di Abu Simbel allorché venne costruita la grandiosa diga per «creare» il lago Nasser, in Alto Egitto) o si manifestano una evidente incuria e incapacità da parte dei governi interessati ad assicurarne la manutenzione, allora diventa legittimo domandarsi se quelle opere non starebbero meglio là dove potrebbero godere di una attenzione adeguata da parte delle istituzioni a ciò preposte.
Tutto dipende se noi consideriamo le opere archeologiche come un patrimonio esclusivo dello Stato in cui vengono scoperte o se esse invece non siano, un po' come lo sono certi ambienti naturali unici al mondo o necessari all'equilibrio dell'ecosistema terrestre (come la foresta amazzonica), un vero e proprio patrimonio comune di tutta l'umanità.
Ci sembra che l'insegnamento implicito nelle due storie che abbiamo rievocato, quella degli scavi di Olimpia nel 1875-81, e quella delle vicende della stele di Axum fra il 1936 e il 2008, possa integrarsi in una visione non ideologica del fatto archeologico.
Ideologico è stato, invece, l'accanimento con cui si è voluto restituire l'obelisco all'Etiopia, dopo che essa lo aveva donato all'Italia e dopo che aveva mostrato chiaramente di non essere in grado di occuparsene in maniera adeguata.
Al nazionalismo di Mussolini, che volle la stele in Italia, si contrappone l'antinazionalismo democratico di quanti la vollero restituire ad ogni costo, anche quando ciò non era né legalmente dovuto, né opportuno sul piano conservativo.
Vero è che l'Italia non si trova in condizione di dare lezioni ad altri, visto l'uso, o il disuso, che essa fa del proprio patrimonio archeologico. Basterebbe vedere come gestisce tesori incomparabili, quali la Valle dei Templi di Agrigento o gli scavi di Pompei, per giungere alla conclusione che quei patrimoni archeologici sarebbero meglio preservati in altre mani, che non le sue.
È una amara constatazione, ma bisogna farla, se si vuole essere intellettualmente onesti. Non si può vedere e denunciare solamente l'incuria altrui; è troppo comodo.
Se l'Italia avesse una classe dirigente degna di questo nome, e non una classe dominante dedita esclusivamente alla rapina dei propri concittadini, avrebbe saputo valorizzare il suo immenso patrimonio archeologico, in tutti i sensi, compreso quello economico, sino a farne il proprio petrolio, ossia la propria principale fonte di entrate.
Ma la mafia in Sicilia e la camorra in Campania non lo rendono possibile; e la mafia e la camorra non sono un problema scientifico o archeologico, ma politico. Se nessun governo italiano dal dopoguerra in poi - o meglio dalla «Liberazione», come recita la Vulgata democratica -, né di destra, né di sinistra, né di centro, è mai riuscito a venirne a capo, qualche ragione ci sarà.
E allora?
E allora, è vero che l'obelisco di Axum dovrebbe tornare a Roma, ove sarebbe oggetto di una migliore manutenzione; ma quanti resti archeologici italiani sarebbero meglio custoditi e valorizzati nei musei di Berlino, Londra, Parigi e New York?
Ci pensino sopra un momento, i nazionalisti dell'archeologia che ci vedono con un occhio solo; provino ad aprire anche l'altro.
Se non per onestà intellettuale, almeno per carità di Patria. E tirino essi stessi le inevitabili conclusioni.