Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La coscienza che Gesù Cristo ebbe di sé è il grande problema del Nuovo Testamento

La coscienza che Gesù Cristo ebbe di sé è il grande problema del Nuovo Testamento

di Francesco Lamendola - 24/11/2008


Comprendere quale fosse la coscienza che Gesù Cristo aveva di sé, significa avvicinarsi al problema dei problemi dell'esegesi neotestamentaria; anzi, al cuore del problema del cristianesimo: il mistero della persona di Gesù.
Ed è un problema talmente grande, da far tremare le vene e i polsi a chiunque vi si accosti; tanto più se sprovvisto di profonde conoscenze filologiche e nel campo delle scienze bibliche, perché si gioca  su sfumature linguistiche che richiedono una perfetta padronanza del greco antico, dell'ebraico e dell'aramaico, ma anche sulla capacità di interpretare tali sfumature nel contesto più ampio della cultura e della religione giudaica ai tempi di Gesù e di collegarle alla prospettiva generale della predicazione di lui.
Ma proprio qui si deve fare i conti con una sorta di corto circuito: perché la predicazione di Gesù ci è giunta attraverso le sue parole che i Vangeli hanno tramandato; ma è ben difficile leggere quelle parole, per quanta perizia filologica si possieda (e indipendentemente dall'altro problema, quello posto dai Vangeli apocrifi), e soprattutto interpretarle, a prescindere da una certa idea che ci si è fatti di colui che le pronunciava, nonché dell'idea che egli possedeva di sé.
In altre parole: è cosa ben difficile formarsi una opinione circa il mistero della persona di Gesù, indipendentemente dall'idea che ci si è fatti di essa; anche se è certamente arbitrario e poco scientifico (nel senso migliore della parola) prescindere del tutto da una scrupolosa lettura filologica delle fonti neotestamentarie.
Del resto, anche il non specialista sa, almeno per sentito dure, quante discussioni abbiano suscitato espressioni come «i fratelli di Gesù» o «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli»: perché tutti, più o meno, sanno che la parola «fratello» si può intendere, nel contesto evangelico, anche come ««cugino»; mentre la parola greca «cammello» somiglia alla parola «gomena», ossia corda da marinaio.
E allora, è facile immaginare quanto più delicato sia il problema relativo alla corretta interpretazione di una espressione come «Figlio dell'Uomo», che Gesù usa frequentemente riferendosi a se stesso. Significa che egli non si considerava null'altro che un uomo fra gli uomini? Oppure essa sta per «Figlio di Dio», dato che «Adam», nel linguaggio del Vecchio Testamento, sta frequentemente per «Dio»?
E, in questo secondo caso, come va intesa esattamente? Che Gesù si riteneva «figlio di Dio» come lo sono tutti gli altri esseri umani; oppure in un senso speciale ed esclusivo, come «Figlio di Dio» in senso stretto?
Ancora: Gesù si considerava il Messia? E, se sì, che cosa era per lui il Messia, che i suoi connazionali da lunghissimo tempo attendevano?
Come si vede, dalla filologia si passa immediatamente a un ambito infinitamente più ampio e più scottante: un ambito che ha a che fare col mistero della divinità di Cristo. Ecco perché, arrivati su questo terreno, tutti coloro che si sono occupati della predicazione di Cristo hanno finito per prendere chiaramente posiziono pro o contro la sua natura divina, con tutto quello che ciò comporta: la netta spaccatura fra gli studiosi confessionali e quelli di tenenza razionalista, ciascuno dei due con una idea preconcetta della figura e dell'opera di Gesù.
Senza la benché minima pretesa di sciogliere, in queste poche righe, una questione di tale portata, vogliamo tuttavia provare ad avvicinarci al problema della coscienza che Gesù ebbe di se stesso da un punto di vista spassionato e libero da entrambe le pregiudiziali; non perché riteniamo di avere la soluzione in tasca, ma, eventualmente, per aiutare altri a trovarla, con le proprie forze e con il proprio onesto impegno intellettuale.
Per farlo, partiremo da alcune considerazioni di un grande studioso, oggi un po' dimenticato, nonostante la recente pubblicazione (San Paolo, 2004) della sua autobiografia «Prima dell'alba»: Eugenio Zolli.
Il suo vero nome era Israel Anton Zoller ed era nato da una famiglia di ebrei polacchi a Brody, nella Galizia Orientale austriaca, nel 1881 (la stessa città presso cui nascerà il grande scrittore Joseph Roth, nel 1894). Trasferitosi a Vienna nel 1904, era poi passato in Italia e, nel 1920, era divenuto rabbino capo di Trieste. Insegnante di lingua e letteratura ebraica all'Università di Padova, nel 1933 aveva ottenuto la cittadinanza italiana, assumendo il nome di Italo Zolli.
I suoi primi studi scientifici di storia delle religioni erano stati «Israel» (Udine, 1935) e «Il Nazzareno» (Udine, 1938).
Nel 1940 era diventato rabbino capo di Roma e, in tale veste, aveva dovuto fronteggiare, il 27 settembre 1943, l'esosa richiesta di consegnare al colonnello Kappler, comandante della polizia militare tedesca della città, in un lasso di sole ventiquattr'ore, cinquanta chilogrammi d'oro, pena la deportazione immediata in Germania dell'intera comunità ebraica. In un tempo così breve, era riuscito a raccogliere solo trentacinque chili; indi aveva chiesto e ottenuto un colloquio con Pio XII, il quale aveva dato disposizioni perché il quantitativo fosse completato.
A quell'epoca era già iniziato il suo cammino di avvicinamento al cristianesimo, che egli attese ancora prima di manifestare apertamente, per non essere sospettato di voler separare il proprio  destino da quello dei suoi correligionari perseguitati. Infine, il 13 febbraio 1945, si era convertito al cristianesimo, assumendo il nome (in onore del pontefice, da lui profondamente stimato) di Eugenio Pio; e, l'anno dopo, la stessa cosa avevano fatto sua moglie e sua figlia.
Ciò aveva suscitato un enorme scalpore negli ambienti giudaici; alcuni ricchi ebrei americani gli offrirono anche una grossa somma di denaro, purché egli ritornasse alla fede dei suoi padri; ma Zolli rifiutò seccamente.
Morì undici anni dopo la conversione, nel 1956.
Fra i suoi libri più importanti, oltre a quelli già ricordati, citiamo«Antisemitismo» del 1945, «Christus» del 1946, «Da Eva a Maria» del 1953 e «Guida all'Antico e Nuovo Testamento» del 1956 (apparso postumo).

Scriveva dunque Eugenio Zolli nel suo ultimo libro «Guida all'Antico e Nuovo Testamento» (Milano, Garzanti, 1956, pp. 162-65):

«Al centro del quarto Vangelo sta il mistero della persona del Cristo, un argomento che rese irrequieti tutti, come si può rilevare anche dai sinottici Chi è Gesù? La sua autodefinizione ("figlio dell'Uomo") - tanto chiara per chi sa: "Adam" (= uomo) equivale qui a "Iddio"; nella letteratura rabbinica Iddio viene talvolta indicato con "Adam" -, tanto oscura e imbarazzante riusciva ai fedeli, quanto oscura e irritante agli avversari. Figlio dell'uomo? è un uomo… È la tesi cara ancora oggi a tanti esegeti. Eppure non è così.
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù parla di sé in prima persona: Io sono. "Io sono la luce del mondo" (8,12). Così parlò Gesù: Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita" (8,17). Si noti anzitutto l'antitesi così cara a Giovanni: luce tenebre. Si legga Gio. 1, 4: "In Lui (il Verbo, Gesù) era la vita, e la vita era la luce degli uomini; e la luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno accolta." E quando parla di Giovanni Batista riguardo a Gesù: Giovanni "non era luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce…". "La vera luce, che illumina ogni uomo, stava per venire nel mondo. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di Lui (il Verbo di Dio), ma il mondo non l'ha conosciuto". È chiaro quindi il detto: "Io sono la luce del mondo", Io sono la vera luce, cioè la vita di Dio nell'uomo. Il mondo rappresenta le tenebre., le quali non conoscono la luce. Gesù è vita e risurrezione. "Chi magia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno… Come il Padre che è vivente (in eterno) mi ha mandato e io vivo (in eterno) perché il Padre vive, così chimi mangia, vivrà anch'egli, perché io vivo (6, 54 s.). "vivere", evidentemente, significa: vita eterna.
Esiste un nesso tra "io sono" e "io vivo"? "Io sono" ritorna spessissimo nell'Antico testamento come parola detta da Dio. "Io sono" equivale a: "Io sono in eterno"; "Io vivo", nell'Antico testamento come parola di Dio, equivale a: "Io vivo in eterno".  Lo steso significato hanno in bocca a Gesù le espressioni: Io vivo, io sono. Basta rileggere, sempre in Giovanni (10, 26): "Le mie pecore ascoltano la mia voce,  ed io le conosco, ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna, esse non periranno mai…".
"In verità, in verità vi dico che se uno osserva la mia parola, , non vedrà mai la morte" (Gio. 8, 51), perché avrà in sorte la vita eterna. Gli Ebrei non comprendono: Ma se tutti muoiono!  Se è morto perfino il patriarca Abramo e sono morti tutti i profeti! La risposta: "Prima che Abramo fosse, io sono" (8, 58) suscita nuovo stupore negli ascoltatori:  "Non hai ancora cinquant'anni e hai veduto Abramo?". "Io sono", nel senso antico-testamentario, con riferimento a Dio, significa: io eternamente sono. Chi osserva la parola di Gesù,  perché ha fede in Gesù, entra in possesso della vita eterna.  "In verità, in verità vi dico che chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha vita eterna, e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. In verità, in verità vi dico che l'ora sta per venire, anzi è già venuta, che i morti udranno la voce del Figliuolo di Dio, e cloro che l'hanno udita, vivranno, Come il Padre ha vita in se stesso, così ha dato anche al Figliuolo di avere vita in se stesso (5, 25 s.), cioè non già attraverso un atto di generazione, bensì del tutto indipendentemente da ogni fattore esteriore. Il Padre e il Figlio sono la vita eterna. Orbene, "se uno mi ama, osserverà la mia parola  e il Padre mio l'amerà, e verremo a lui e faremo dimora presso di lui" (14, 23), ossia esiste una relazione  diretta tra l'uomo mortale e Iddio eterno.
I prodigi compiuti da Gesù assumono nel quarto vangelo il carattere di "segni"., in quanto che comprovano che Gesù è il Figlio di Dio. La prodigiosa moltiplicazione dei pani comprova quanto Gesù dice in Gio.  6, 35, 48. In 6, 27, Gesù dice: "Cercate  di procurarvi non il cibo che perisce, ma il cibo che dura per la vita eterna, il quale il Figliuolo dell'Uomo vi darà, perché su Lui il Padre (cioè Dio) ha apposto il proprio sigillo. Il sigillo di Dio è "verità". "Questa è l'opera di Dio: che crediate in colui che Egli ha mandato"… Non Mosé vi ha dato il pane del cielo (la manna non era pane del cielo, in quanto non apportò la vita eterna), poiché il pane di Dio è quello che scende dal cielo (Gesù stesso), e dà vita (eterna) al mondo". Gesù antemundano è pane sceso dal cielo per appagare il desiderio di tutti quelli che hanno fame e sete di Dio. Segue il discorso eucaristico: Gesù è cibo celeste e bevanda celeste in forma visibile.
Giov. 9, 8, ss. Parla della guarigione del cieco nato. A questo episodio fanno riscontro 8, 12; 9, 5. In 8, 12 Gesù dice: Io sono la luce del mondo; chi mi segue, non camminerà nelle tenebre, ma avrà "la luce della vita". Accanto al pane della vita e all'acqua della vita abbiamo qui la luce della vita, la luce del mondo.  Il cieco nato camminava in mezzo a tenebre;  Gesù gli ha conferito il dono della luce. "Mentre io sono  nel mondo, sono la luce del mondo" (9, 5).
Gesù fa una distinzione fra il cieco vero che si lamenta perché non vede, e l'altro che, pur vedendo soltanto con l'occhio fisico, dice di "vedere". "Siamo ciechi forse anche noi?", domandano gli avversari. E Gesù di rimando: "Se foste ciechi, non avreste nessuna colpa, ma poiché dite: - Noi vediamo -, la vostra colpa rimane intera, Sempre e ovunque i prodigi hanno un valore interpretativo per i discorsi di Gesù che,  anche se brevi, sono ricchi  di significato profondo.
Vi sono ancora altri discorsi nel Vangelo di Giovanni, che tendono a svelare il mistero della persona di Gesù: "Io sono la via, la verità e la vita:; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se aveste conosciuto me, avreste conosciuto anche mio Padre; da ora innanzi Lo conoscerete, e, in realtà, L'avete già veduto (14, 6 s.).
Matteo 16 contiene la confessione di Pietro: "Tu sei il Cristo" (il Messia) Figlio del Dio vivente" (Eterno). È la prima, solenne, "ufficiale" dichiarazione , fatta a nome di tutto il Collegio Apostolico.  Il vangelo di Giovanni ci offre un contributo definitivo per lo sviluppo dell'idea cristologica, un contributo  che non poteva essere offerto autorevolmente che da Giovanni l'Apostolo."»

È lo stesso Gesù, del resto, che sembra sfidare gli uomini di allora, non meno che quelli di oggi, quando, in cammino coi suoi discepoli fuori dei confini della Palestina, vicino a Cesarea di Filippo, improvvisamente domanda loro: «Chi dice la gente che io sia?» (Marco, 8, 27).
E, udito che per alcuni egli è Giovanni il Battista, per altri Elia o uno dei profeti, li incalza più da presso: «E voi, che dite? Chi sono io?» (8, 29). Al che Pietro risponde, anche a nome degli altri: «Tu sei il Messia, il Cristo».
Ma Gesù, misteriosamente, ordina loro di non dire a nessuno una cosa del genere, di non parlarne con altri, ma di tenerla per se stessi.
Ecco, questa reticenza di Gesù a diffondere la cosiddetta confessione di Pietro è parsa strana a molti storici di tendenza non cristiana, i quali vi hanno visto una interpolazione motivata dalla necessità di spiegare come la messianicità di Gesù non fosse parsa evidente ai suoi connazionali (e, in un certo senso, neanche ai suoi stessi discepoli, almeno quanto al significato profondo e non nazionalistico, ma tutto spirituale, da dare ad essa).
Sorge così, ad opera dello storico W. Wrede, la teoria del «segreto messianico» nei Vangeli, secondo la quale Gesù non avrebbe affatto ordinato ai suoi discepoli non divulgare la sua natura di Messia, ma sarebbero stati essi, a posteriori (cioè, dopo la morte di lui e la nascita della loro credenza nella resurrezione), a fornire questa versione; o, comunque, sarebbero stati gli autori dei Vangeli - e precisamente quello di Marco -, per conferire un carattere messianico alla figura e alla predicazione di Gesù: carattere che essa, in realtà, non ebbe.
Così riassume la "vexata quaestio" Giuseppe Segalla, nell'opera collettiva «La storia di Gesù» (Milano, Rizzoli, 1984, 6 voll; vol. 3, pp. 928-930):

«Anche se vi furono dei predecessori (B. Bauer, Volkmar, Hoestra), colui che propose per primo in forma sistematica il problema del segreto messianico fu W. Wrede nel 1901 col suo libro "Das Messiasgeheimnis in den Evangelien" ("Il segreto messianico nei Vangeli"), riedito in terza edizione nel 1963. Si constata nei vangeli sinottici, e in particolare in quello di Marco, che Gesù nasconde intenzionalmente al pubblico la sua dignità messianica. Caso tipico, e forse unico, è la proibizione ai discepoli di divulgare questa notizia, dopo la solenne confessione di Pietro (Marco, 8, 30 e paralleli). (…)
Secondo il Wrede, nel Vangelo di Marco Gesù tiene nascosta la sua messianità al popolo, e la rivela ai suoi discepoli; ma neppure essi sembrano capire, fino alla morte e risurrezione di Gesù. Ciò che racconta Marco, però, non corrisponderebbe alla storia di Gesù. Sarebbe un'interpretazione teologica della tradizione cristiana, per coprire il fatto che la vita e l'attività di Gesù non avrebbero avuto alcun carattere messianico. Avendo riconosciuto Gesù come Messia solo dopo la Risurrezione, la tradizione cristiana, e ancor più Marco, avrebbero cercato di nascondere lo scandalo, ricorrendo appunto al segreto messianico: Gesù fu riconosciuto, sì, Messia durante la sua vita, ma solo da suoi discepoli, ed anche da loro comunque incompreso. Che marco abbia accentuato il segreto messianico lo si arguisce facilmente dal confronto con gli altri due Sinottici. La tesi del Wrede è stata comunque abbandonata nella forma in cui egli la presentò; tuttavia il dibattito è continuato e continua fino ad oggi.
Considerando lo stadio storico, cui viene attribuito il cosiddetto "segreto messianico", possiamo distinguere tre generi di risposte: vi sono coloro che lo assegnano allo stadio dell'evangelista-redattore; coloro che lo attribuiscono alla tradizione orale e infine coloro che pensano di poter collocarlo a livello del Gesù storico.
È Marco l'autore del segreto messianico?
Diversi autori hanno seguito il Wrede nell'attribuire a Marco la creazione del segreto messianico. Se è di Matteo, non è un fatto storico,  ma letterario. Le motivazioni proposte, però, sono diverse. Il Wrede, come abbiamo visto, attribuiva all'evangelista lo scopo di coprire il fatto, scandaloso, che Gesù storicamente non si sarebbe presentato come Messia. Ma al Wrede si può muovere subiti un'obiezione ovvia:  come mai, allora, Gesù fu giustiziato come Messia? È per questo che la tesi del Wrede è oggi abbandonata.
Secondo il Dibelius e il Burkil, Marco, col segreto messianico, intende spiegare in qualche modo l'incredulità del popolo ebraico.. Per lo Ebeling, il segreto messianico sarebbe un modo per far capire quanto grande e misteriosa sia la rivelazione di Gesù e della sua gloria. Secondo lo Haenchen, Marco, invece di raccontare le apparizioni pasquali di Gesù, avrebbe raccontato i miracoli come rivelazioni di Gesù, spostando la fede pasquale sul Gesù terreno. Per E. Schweizer, infine, la croce sta al centro della cristologia di Marco. È, quindi, solo ai piedi della croce che si rivela il mistero di Gesù, Figlio di Dio. Prima era nascosto. Lo scopo è quello di invitare i discepoli alla sequela di Gesù sulla via della croce. Solo quando saranno arrivati con Gesù ai piedi della croce, essi capiranno, come il centurione.
È la tradizione cristiana?
Altri esegeti spostano indietro dalla redazione ala tradizione orale il segreto messianico. Il Bultmannn sostiene che esso sarebbe nato in ambiente ellenistico. Lo scopo sarebbe stato quello di legare il Signore presente nella comunità con la tradizione storica del Gesù terreno. Il presupposto è che in tutte le parole che si attribuiscono a Gesù parla il Signore, presente nella comunità cristiana.
Lo Strecker legge il segreto messianico nel quadro della storia di Gesù, che continua nella storia della Chiesa. Il Gesù nascosto della vita pubblica è orientato al Signore glorificato. E l'annuncio attuale, nella Chiesa, del Signore glorificato si riferisce al Gesù, nascosto nella sua vita terrena.
H: Räisänien (1976) è il più critico verso l'interpretazione redazionale del segreto messianico. Secondo lui, l'unico testo che parla veramente del segreto messianico è il comando di Gesù di tacere, dopo la confessione messianica di Pietro. Ora, questo episodio appartiene alla tradizione sinottica, e non all'evangelista.
O è Gesù stesso?
Molti autori, anche oggi, sostengono, infine, che pur ammettendo l'interpretazione della tradizione e dell'evangelista, il segreto messianico risalirebbe sostanzialmente al Gesù storico (Cullmann, V. Taylor, Minette de la Tillesse…): Il motivo per cui Gesù avrebbe voluto nascondere la sua dignità messianica al grande pubblico è che essa sarebbe stata fraintesa nel senso di un messianismo politico. Ciò è confermato dal tentativo d insurrezione messianica che troviamo registrato nel Vangelo di Giovanni (6, 14-15). Per il Minette, il segreto messianico riflette una precisa intenzione di Gesù, e corrisponde al rifiuto delle tentazioni diaboliche, descritte negli altri due Sinottici. Gesù intende, in tal modo, respingere qualsiasi messianismo politico, trionfalistico, e seguire invece la via umile della croce. (…)
L'esegesi più recente porta molte distinzioni nel vasto dossier del Wrede (…). Non si ha, anzitutto, un segreto assoluto, perché gli indemoniati parlano, ad alcuni malati guariti non viene affatto intimato di tacere; Gesù stesso entra trionfalmente a Gerusalemme come Messia, e rivela di essere il Messia davanti al Sinedrio. Inoltre, va distinto il mistero del Regno, di cui parla il detto sullo scopo della parabole, e il segreto che riguarda il Messia. Rigorosamente parlando, questo segreto viene registrato solo dopo la confessione di Pietro . Secondo quanto dice Gesù dopo la Trasfigurazione, il segreto va mantenuto fino alla Risurrezione. Infine, per quanto riguarda in particolare il Vangelo di Marco, più che di segreto messianico si dovrebbe parlare di mistero del Figlio di Dio (J. Gnilka). Difatti, il Vangelo di Marco comincia così: "Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio" (1,1). E Gesù viene riconosciuto Figlio di Dio solo alla sua morte di croce: "Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse: - Veramente quest'uomo era Figlio di Dio! - (15,39). Per marco, è sulla croce, dunque, che Gesù si rivela Figlio di Dio, mentre prima era stato riconosciuto Figlio di Dio solo dai discepoli; ed aveva loro ingiunto severamente di tacere. Gesù, Messia e Figlio di Dio, si rivela paradossalmente solo sulla croce.
Il dibattito sul segreto messianico, continuando, chiarisce sempre di più anche la sua storia, che ha origine dalla storia stessa di Gesù. Si illumina il cammino della tradizione orale, si abbandonano le posizioni unilaterali ed estremiste e s accetta il cammino dal Gesù storico attraverso la tradizione fino ai Vangeli sinottici. Rimane assodato che Marco è l'evangelista che più accentua il segreto messianico, mentre in Matteo e Luca esso è attenuato, e in Giovanni scompare del tutto, nella luce sfolgorante della gloria, che si rivela già nei "segni" del Gesù terreno. Dalle epifanie segrete di Marco, si passa, così, al mistero epifanico di Gesù in Giovanni.»

Gesù, del resto, sembra convinto che non sia possibile penetrare il mistero della sua personalità se non per una diretta ispirazione divina, almeno prima della croce.
Pertanto, a Pietro che gli dichiara: «Tu sei il Messia, il Cristo; il Figlio del Dio vivente», egli risponde: «Beato te, Simone figlio di Giona,  perché non hai scoperto questa verità con forze umane, ma essa ti è stata rivelata dal Padre mio che è in cielo» (Matteo, 16, 16-17).
È giusto, peraltro - come ci ricorda Giuseppe Segalla - operare una distinzione tra i concetti di Messia e di Figlio di Dio, benché - di fatto - nella figura di Gesù essi vengano alla fine fatti convergere dagli evangelisti.
Il Messia, in ebraico "masiah", in aramaico "mesiha", da cui deriva il greco: Μεσσίας, significa «unto, consacrato», ed è il termine con cui gli Ebrei designavano il futuro Liberatore e Restauratore  della Nuova Alleanza fra Dio e il popolo eletto. Questa figura, come è noto, si era caricata sempre più di un significato nazionalistico e, quindi, terreno, mano a mano che la sudditanza del popolo ebreo a nazioni straniere si era prolungata e accentuata.
In pratica, l'appellativo di Cristo era praticamente un sinonimo di Messia, di cui costituiva l'espressione greca: da χρίω, «ungere», deriva direttamente χριστός, ossia «l'Unto» (dal Signore), divenuto poi anche nome proprio.
Nella religione giudaica, l'azione di ungere con olio e con profumi poteva assumere un carattere sacro, ad esempio quando Yahweh comanda che il sommo sacerdote e i sacerdoti inferiori siano unti nella loro consacrazione, come fece Mosé (Esodo, 40, 12-15).
Esisteva comunque, accanto a quella del Messia Liberatore nazionalista, anche un'altra tradizione messianica, quella relativa alla figura austera e paziente del Servo di Yaweh, cioè di un Messia povero e umile, fondatore di un regno di natura spirituale e non politico-sociale.
Egli avrebbe avuto carattere universale, e non nazionalistico, e la sua gloria maggiore sarebbe stata quella di espiare, in qualità di vittima volontaria, i peccati dell'intera umanità (e non solo del popolo ebreo), attraverso una morte dolorosa e infamante, che si sarebbe però trasformata in una fonte inesauribile di vita per tutto il genere umano.
Vi è traccia di questo tipo di figura messianica in Isaia , 52, 13-53,12 (seguiamo qui la traduzione della Bibbia di Gerusalemme):

«Ecco, il mio servo avrà successo,
sarà onorato, esaltato e molto innalzato.
Come molti si stupirono di lui
tanto era sfigurato per essere d'uomo il suo aspetto
e diversa la sua forma da quella dei figli dell'uomo -
così si meraviglieranno di lui molte genti;
i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,
poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato
e comprenderanno ciò che mai avevano udito.
Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?
A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
È cresciuto come un virgulto davanti a lui
E come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza
Per attirare i nostri sguardi,
Non splendore per provare in lui diletto.
Disprezzato e reietto dagli uomini,
Uomo dei dolori che ben conosce il patire,
Come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
Era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
Si è addossato i nostri dolori
E noi lo giudicavamo castigato,
Percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
Schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
Per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
Ognuno di noi seguiva la sua strada;
Il Signore fece ricadere su di lui
L'iniquità d noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
E non aprì la sua bocca;
Era come agnello condotto al macello,
Come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
E non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
Chi si affligge per la sua sorte?
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza
né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in espiazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
sai compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
E si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà la loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha consegnato se stesso alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava i peccati di molti
e intercedeva per i peccatori.»

Ora, è abbastanza evidente che Gesù ha voluto riconnettere se stesso a questa figura messianica e non a quella del Liberatore vittorioso e nazionalista.
Pertanto, assume un alto grado probabilità l'ipotesi che l'imposizione del segreto messianico, di cui è traccia nei Sinottici, rifletta appunto il timore di Gesù di vedere fraintesa la sua missione da parte delle masse popolari che, specialmente in quel momento storico, attendevano più che mai un Messia potente e guerriero, non un uomo dei dolori, come quello profetizzato nel Libro di Isaia.
Ecco perché egli preferisce chiamare se stesso in un altro modo, e cioè Figlio dell'Uomo: espressione che ricorre 30 volte nel Vangelo di Matteo, 14 volte in quello di Marco, 25 volte in quello di Luca e 13 volte in quello di Giovanni.
L'espressione «Figlio dell'Uomo» risale a due libri profetici dell'Antico Testamento, Ezechiele e Daniele. 
Nel Libro di Ezechiele ricorre più di 90 volte, apparentemente quale sinonimo del profeta medesimo, il quale ha ricevuto da Dio l'ordine di esortare il popolo d'Israele alla conversione: se non lo facesse, egli sarebbe responsabile della morte dei cattivi; compiendo la sua missione, egli salverà la sua vita e quella degli altri.
Ma la missione di Ezechiele non è puramente terrena: egli annuncia l'avvento di un nuovo odine di cose, di una nuova alleanza fra Dio e gli uomini, addirittura di una nuova creazione, nella quale l'uomo riceverà un cuore nuovo e uno spirito nuovo (Ez., 34, 37).
Nel Libro di Daniele il Figlio dell'Uomo compare al profeta nel contesto di una visone enigmatica, in cui sono presenti elementi della tradizione giudaica che risale al misterioso Libro di Enoch  (ad esempio, i «troni» dei giudici, che alludono alla credenza secondo cui i santi di Dio sarebbero stati  chiamati a giudicare con Lui).
Seguiamo anche qui la versione della Bibbia di Gerusalemme (Dan., 7, 9-10; 13-14):

«Io continuavo a guardare,
quand'ecco furono collocati troni
e un vegliardo si assise.
La sua veste era candida come la neve
E i capelli del suo capo erano candidi come la lana;
il suo trono era come vampe di fuoco
con le ruote come fuoco ardente.
Un fiume di fuoco scendeva dinanzi a lui,
molte migliaia lo servivano
e diecimila miriadi lo assistevano.
La corte sedete e i libri furono aperti. (…)
Guardando ancora nelle visioni notturne,
ecco apparire, sulle nubi del cielo,
uno, simile ad un figlio di uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui,
che gli diede potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano;
il suo potere è un potere eterno,
che non tramonta mai, e il suo regno è tale
che non sarà mai distrutto.»

È stato osservato che questo «Figlio di Uomo» del Libro di Daniele riveste certamente attributi soprannaturali, non solo perché scende dal cielo, ma soprattutto perché è sulle nubi, che sono un accompagnamento caratteristico delle teofanie (da L. Moraldi in «Enciclopedia della Bibbia», Torino-Leumann, Elle Di Ci, 1970, vol. 3, col. 378); la visione di Daniele, peraltro, presenta aspetti misteriosi che non sono stati interamente chiariti.
Per quanto riguarda l'uso che Gesù fa dell'espressione «Figlio dell'Uomo», riferendola a se medesimo, la discussione fra gli studiosi verte attualmente se egli la attinse direttamente ai libri di Ezechiele e di Daniele, dopo un lunghissimo intervallo di tempo; oppure se l'espressione, e la particolare (e misteriosa) figura messianica ad essa correlata, fossero rimaste vive nel corso del tardo giudaismo e dell'epoca ellenistica.
Poiché non abbiamo la pretesa di fissare un punto fermo su una questione del genere, che richiede un notevole grado di specializzazione filologica e interpretativa, ci limitiamo a prendere atto che non esistono testi intermedi a noi noti che tramandino la figura del Figlio dell'Uomo nell'intervallo di tempo che va dalla composizione dei libri di Ezechiele e di Daniele ai primi libri del Nuovo Testamento: un lasso di tempo di alcuni secoli, anche tenendo conto - specialmente per quello di Daniele - che alcune parti furono rifatte e integrate fin verso il II sec. a. C.
L'originalità, se così vogliamo chiamarla, dell'interpretazione che Gesù fa della figura messianica, applicandola a se stesso, è quella di aver fuso le due distinte tradizioni - entrambe minoritarie nelle aspettative messianiche dei suoi contemporanei -, quella del Servo di Yaweh del Libro di Isaia e quella del Figlio dell'Uomo di Ezechiele e di Daniele.
In altre parole, egli ha riunito il concetto di un Messia umile e dimesso, anzi disprezzato, che patisce ogni insulto senza reagire e che si offre in sacrificio per il riscatto di molti, intercedendo per i peccatori fino all'ultimo (col famoso: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno»),  con quello del Messia glorioso che scende dal Cielo in un alone di gloria e che riceve da Dio il premio della sua fedeltà e del suo sacrificio.
Non solo.
Gesù possedeva una coscienza di sé che scavalcava le barriere dello spazio e del tempo e che lo ricollegava direttamente al Padre celeste, come quando disse: «Prima che Abramo fosse, io sono», suscitando l'incredulità dei Giudei.

Che altro dire?
Ci sembra che la questione della coscienza che Gesù ebbe di sé sia di natura tale, che esula decisamente dal campo delle scienze bibliche e investe decisamente un'altra sfera della natura umana, che non è più solamente intellettuale, ma spirituale, nel senso più ampio del termine.
Ciascuno è sollecitato a dare una risposta.
È come se quella domanda: «E voi, chi dite che io sia?», continuasse a sfidarci, dopo duemila anni di storia, di ipotesi, di negazioni e di violente diatribe.
Quanto a noi, siamo particolarmente colpiti dalla risposta che dà il diavolo, per bocca di un indemoniato, nella sinagoga di Cafarnao (in Marco, 1, 24); perché il diavolo, stando all'episodio fondamentale delle tentazioni nel deserto, era molto bene a conoscenza della natura di Gesù e della sua missione: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei forse venuto a rovinarci? Io so chi sei: tu sei il Santo mandato da Dio».