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Il decollo dell'economia friulana: un compromesso riuscito fra tradizione e modernizzazione?

di Francesco Lamendola - 25/11/2008


Per certi aspetti, e relativamente alla situazione generale dell'Italia e di molte altre parti d'Europa e del mondo, lo sviluppo economico del Friuli dopo la seconda guerra mondiale è stato eccezionalmente fortunato, perché sembra essere riuscito a coniugare, in misura apprezzabile, i fattori della modernizzazione con quelli della tradizione.
Insomma, uno sviluppo a misura d'uomo, che non ha prodotto gli scempi edilizi e, più ancora, le devastazioni sociali e culturali che ha prodotto, invece, in altre zone meno fortunate, anche del Nord Italia. Uno sviluppo che è stato tutto opera dei Friulani stessi - questo piccolo popolo fiero ed energico, ma anche sobrio e riservato -, i quali hanno saputo realizzare un modello di sviluppo industriale decentrato, basato sulla valorizzazione delle tradizionali attività artigianali, là dove esse si trovavano, ossia su una rete diffusa nel territorio e non attorno a pochi, grandi poli industriali (con l'eccezione di Pordenone da un lato, di Monfalcone dall'altro). E, quel che più conta, uno sviluppo che è stato realizzato mediante un ricambio della classe imprenditoriale locale, che ha sostituito la vecchia classe borghese per mezzo del lavoro, dell'intelligenza e dell'inventiva di una nuova classe di piccoli e medi imprenditori di estrazione popolare.
I finanziamenti pubblici hanno certamente contribuito a tutto questo, ma non sono stati il fattore determinante. Il fattore determinante, probabilmente, è stata la disponibilità, da parte di quasi tutte le famiglie contadine, a sobbarcarsi il pane amaro dell'emigrazione fino ai primi anni Sessanta, per alleggerire la pressione demografica sulle magre risorse locali e per contribuire, con le rimesse dall'estero di valuta pregiata, alla conservazione della casa e del podere e, in un secondo tempo, all'avvio di una modesta, ma abile e coscienziosa attività imprenditoriale.
Chi non ha visto com'era il Friuli sino agli anni Cinquanta, non può misurare l'enorme balzo in avanti compiuto dalla sua economia, in gran parte con le sue forze, che nemmeno il durissimo colpo del terremoto del 1976 è riuscito a incrinare.
Fino agli anni Cinquanta, il Friuli era una delle regioni più povere d'Italia: in base alle statistiche, il reddito pro capite era nettamente al di sotto della media nazionale. Fin dal 1870 era stato una terra di emigrazione; e nel 1945, dopo le distruzioni della guerra, l'emigrazione riprese su vasta scala, anche verso i Paesi più lontani come il Canada, l'Argentina e l'Australia.
Solo poco alla volta, con il delinearsi della Comunità Europea del ferro e dell'acciaio, l'emigrazione friulana cominciò a dirigersi prevalentemente verso i Paesi europei; e solo verso la fine degli anni Sessanta essa cessò quasi completamente, mentre gran parte dell'ultima generazione di emigranti faceva ritorno a casa.
Il «mal dal madòn», il «male del mattone», è sempre stata una delle caratteristiche dell'emigrante friulano: appena messo da parte un certo capitale, tornare a casa e tirare su una nuova casa, pulita e dignitosa, o ristrutturare adeguatamente la casa dei genitori o dei nonni: ma comunque, tornare, perché la propria terra e la propria famiglia sono al centro del mondo affettivo e culturale del Friulano, di qualunque età e di qualunque estrazione sociale.
Alla metà degli ani Settanta, dunque - e a dispetto del terremoto - il Friuli era già arrivata nel gruppo delle regioni italiane a più alto reddito, e da allora vi è sempre rimasto. Tutto questo, dicevamo, i Friulani lo hanno realizzato in gran parte da soli («di bessoi», come dicono loro) e possono andarne giustamente fieri. Tanto più che sono riusciti a non deturpare il paesaggio più dello stretto necessario, a non imbruttire la periferia di Udine o di Gorizia con i soliti, orrendi palazzoni di cemento, a non sfigurare il volto dei paesi con troppe villette a schiera o centri commerciali, né quello delle campagne, con un eccesso di superstrade, svincoli automobilistici, cavalcavia e rotatorie d'ogni tipo e dimensione, pur sviluppando un ottimo sistema di comunicazioni (con l'eccezione dell'asse Udine-Treviso, che è ancora la vecchia, inadeguata Pontebbana).
Qui non è accaduto quello che si è visto, ad esempio, nell'hinterland milanese, come già all'inizio degli anni Sessanta cantava Celentano ne «Il ragazzo della Via Gluck»: il cemento non ha cancellato la campagna, quasi da un giorno all'altro, per effetto di una industrializzazione selvaggia e indiscriminata.

Qualche anno fa, mi è capitato di passare, tornando da Aquileia, vicino a un minuscolo borgo in cui avevo passato un periodo felice dell'infanzia: Ronchiettis, frazione di Santa Maria La Longa, immerso nel verde dei vigneti e dei campi di granturco della bassa Pianura Friulana.
Santa Maria La Longa, probabilmente, è un nome che dice qualcosa a chi ha letto le poesie di Ungaretti, della raccolta «L'allegria», perché lì il poeta le scrisse e le datò da quel paesotto; ad esempio, «Solitudine» e la famosissima «Mattinata» (con quei due versi sublimi: «M'illumino / d'immenso», entrambe del 26 gennaio 1917.
Ma Ronchiettis, chi mai la conosce, fuori del Friuli? Un villaggio simile al Rio Bo di Palazzeschi: quattro case, una minuscola chiesa, una piazzetta su cui si affaccia l'unico esercizio pubblico: una vecchia osteria. Quando la conobbi, non l'avranno abitato più di un centinaio di persone, a farla grande: e solo perché, mezzo secolo fa, le famiglie contadine erano ancora assai numerose e piene di bambini e ragazzetti.
Il pane lo portava un garzone, al mattino, facendo il giro delle case, mentre il latte delle stalle faceva il percorso inverso, fino alla latteria comunale, situata nel capoluogo; il pesce, al venerdì, lo portava una venditrice ambulante: e, per tutto il resto, gambe in spalla (o bicicletta), bisognava andare a Santa Maria, anche per gli acquisti più minuti.
Un mondo a parte. La sera del sabato, in osteria, gli uomini bevevano il «tajut» (taglietto, equivalente all'«ombra» dei Trevigiani) guardando un po' di televisione all'osteria, dove c'era l'unico apparecchio televisivo - allora con il solo primo canale - e l'unico telefono; i bambini, se tutto andava bene, potevano acquistare un po' di mandorlato, che faceva bella mostra di sé, nelle bocce di vetro sul bancone.
Poi, la domenica mattina, tutti vestiti a festa, in chiesa per la messa (col prete, che, ovviamente, veniva dal capoluogo): perché il contadino friulano non scherza di certo in quanto a bestemmie durante tutta la settimana, ma il giorno del Signore non si perderebbe la messa per niente al mondo. Come diceva il buon padre Turoldo, per lui anche la bestemmia, probabilmente, è un modo di parlare con Dio, magari un po' sopra le righe; tuttavia esprime pur sempre una forma di religiosità, quantunque degradata dall'ignoranza e dalla miseria. Ma chissà, forse il buon Dio non guarda poi tanto a queste cose, ma ad altre, più rivelatrici della vita morale.
C'era, sì - qua e là - qualche avvisaglia della verghiana «fiumana del progresso» che ormai stava per battere alle porte. Quella benedetta autostrada, per esempio, che doveva passare proprio in mezzo ai campi del nonno, e con la sua grigia striscia di serpe e con le barriere ai due lati tagliava quella magnifica distesa verde, dove lo sguardo, prima, correva ininterrotto sino all'estremo orizzonte. Ma insomma, il rimborso per l'esproprio c'era stato, bene o male; e poi, come si poteva pensare a fermare quei segni di modernità?
Bene, tutto questo accadeva quasi cinquant'anni fa. Ma adesso, mi chiedevo passando non lontano con la macchina, chissà come sarà cambiata la mia cara Ronchiettis?
Detto fatto, presi la deviazione sulla sinistra e mi trovai, quasi di colpo, indietro di cinquant'anni. Tutto era come allora: identico. Né una casa in più, né una in meno. La casa del nonno, la piazza, l'osteria: tutto come allora. I cortili, il filare di noccoli lungo la strada, il parco dietro la chiesetta: ogni cosa era rimasta come allora.
Entrai nell'osteria: a parte l'arredamento, anch'essa sembrava essere rimasta uguale. In generale, l'unica cosa che si notava era che gli edifici erano stati ristrutturati, ridipinti; e i giardini, forse, un po' abbelliti: ma dettagli, in fondo.
E tuttavia, non vi erano segni di una società logora, stanca, ripiegata: si vedeva, si sentiva, si capiva che ogni cosa era rimasta uguale non per l'abbandono, la trascuratezza e la sciatteria degli abitanti,  ma, al contrario, per il loro grande amore per la tradizione, per la propria terra, per  le proprie radici. Si intuiva che molti avevano fatto i soldi, abbastanza per andarsene in città, se lo avessero voluto, o in qualunque altro luogo: ma no, avevano preferito rimanere (o ritornare), per amore di quel fazzoletto di terra.
Probabilmente, molti lavoravano nelle fabbriche, nei negozi o nei servizi di qualche centro vicino. Forse qualche ragazzo frequentava l'università; ma non doveva più andare, come una volta, fino a Padova o a Bologna, perché adesso c'era l'università anche a Udine; e, così, non era più necessario stare lontano da casa. Anzi, si poteva studiare e dare una mano nei lavori di casa e di quel po' di terra, contemporaneamente. Oppure andare in fabbrica e zappare un po' nell'orto, o potare il vigneto, nei fine settimana.
Un popolo che ama davvero la sua terra fa così, se appena gli è possibile. Altrimenti, se non vede l'ora di andarsene e di non tornare più, vuol dire che non l'ama, o che è rimasto troppo amaramente deluso.
Ora, vorrei sapere in quante altre parti d'Italia si può verificare un caso simile: di tornare sui luoghi della propria infanzia, a distanza di decenni (e quali decenni: quelli del boom economico!), e ritrovarli pressoché intatti; e, al tempo stesso, vedere le case ben curate, le strade pulite, i campi coltivati con amore. Insomma, vedere che tutto è rimasto uguale non per la miseria e la mancanza d'iniziativa; ma, al contrario, per una scelta consapevole da parte di chi ha spezzato definitivamente i duri lacci della povertà.
Ebbene, non si tratta affatto di un caso, di una felice coincidenza. Un po' tutto il Friuli ha subito questo tipo di trasformazione; e, salvo eccezioni, è riuscito - almeno sino a quindicina d'anni fa  - a difendere la propria anima. A mettere d'accordo le ragioni della modernizzazione e quelle  della tradizione, che qui è rispettata e sentita ancora come qualcosa di vitale. Insomma, a sposare il diavolo con l'acqua santa.

Un'isola felice, dunque?
Verrebbe quasi da pensarlo. Tuttavia, pur con tutto l'affetto che la propria terra natale sempre merita, questo quadretto è stato un po' troppo decantato - come anche, con poche varianti, quello del vicino Veneto, insieme al quale, e al Trentino-Alto Adige, avrebbe realizzato il cosiddetto «miracolo del Nord-est».
I Friulani devono guardarsi dall'antico vizio dell'orgoglio e della mania dell'autosufficienza: se è vero che hanno saputo valorizzare al massimo le proprie risorse, sia naturali che umane, è anche vero che non hanno fatto proprio tutto «di bessoi».
I finanziamenti statali e regionali, dopo l'istituzione della regione a statuto speciale, hanno dato una spinta importante al decollo dell'economia. E la solidarietà nazionale è stata visibile e commovente,  all'epoca del terremoto del 1976: sia quella istituzionale, sia quella della società civile, con migliaia di giovani volontari che vennero da ogni parte d'Italia per aiutare a smuovere le macerie, a dare una mano nel momento più duro, fra il sisma del giugno e quello del settembre…
No, non hanno fatto tutto da soli, i Friulani.
È vero, piuttosto, che hanno saputo fare buon uso degli aiuti statali, cosa che non è accaduta in altre regioni colpite da analoghe catastrofi. In Friuli, a pochi anni di distanza, le ferite del sisma erano già quasi cicatrizzate: le fabbriche ricostruite, le case, tirate su di nuovo dov'erano prima, ma con solidi criteri antisismici. E, poco a poco, anche le opere d'arte, le chiese, i palazzi storici, sono stati ricostruiti pure quelli: sempre in maniera molto rispettosa della loro struttura originaria.
Questo è avvenuto perché la classe dirigente friulana, bisogna dargliene atto, non ha fatto quello che hanno fatto le classi dirigenti siciliana o napoletana, dopo i terremoti del Belice e dell'Irpinia: ha usato, cioè, onestamente del denaro pubblico. Forse neanche uno spicciolo si è perso per strada: una cosa che dovrebbe essere normale, specialmente in simili circostanze, ma che in altre parti d'Italia, evidentemente, non lo è. È normale in Svizzera, in Austria, in Germania. E i Friulani, storicamente e culturalmente, sono molto più vicini agli standard della vecchia Mitteleuropa, che non a quelli dell'area mediterranea. Ciò sia detto senza la benché minima punta di razzismo: è un fatto, attestato dalla storia; e non si litiga con i fatti.
Certo, ciò può suonare irritante ad orecchi particolarmente sensibili al richiamo dell'ideologia. Siccome la classe dirigente friulana è stata, per cinquant'anni, principalmente democristiana (pur con caratteristiche e peculiarità locali non trascurabili); e siccome, se ciò non bastasse, il clero ha sempre avuto in Friuli una forte presa nell'ambito sociale e culturale, piacerebbe poter dire - se si ha una formazione ideologica di sinistra - tutto il male possibile dell'una e dell'altro.
Invece non è possibile e, se si è onesti intellettualmente, bisogna riconoscere che questi democristiani e questi preti hanno governato il Friuli in modo impeccabile, che piacciano o che non piacciano le loro idee politiche e religiose; o, quanto meno, che non hanno ostacolato troppo le energie migliori del popolo che hanno avuto in sorte di amministrare.
Certo, alcune cose si potevano fare meglio: l'università di Udine, per esempio, bisognava proprio aspettare così tanto per vederla realizzata?
Però, quando si dà un giudizio storico, non bisogna mai fare i confronti con quello che si sarebbe potuto fare, se prima non li si è fatti con ciò che hanno realizzato, in condizioni equivalenti, altri gruppi dirigenti. E allora, vedendo il duplice scempio - sociale e ambientale - che hanno fatto le classi dirigenti (o meglio, dominanti) di altre parte d'Italia, e non solo del Mezzogiorno, bisogna avere l'onestà di ammettere che quella friulana non è stata indegna della fiducia che i concittadini le hanno accordato per un così lungo arco di tempo.

Tutto bene, allora?
Non proprio. Stavamo dicendo che, a decantare gli aspetti postivi del modello di sviluppo industriale friulano, si rischia di cadere nell'agiografia o, peggio, nella cartolina; si rischia di perdere di vista i problemi, le contraddizioni, nonché le nubi scure che avanzano dal futuro, e che non sono se non l'esito naturale di quanto è stato fatto negli ultimi decenni.
E i Friulani hanno bisogno di sentirsi dire anche alcune rudi verità, altrimenti si lasciano ubriacare dai (meritati) complimenti, e smarriscono il senso della misura.
Succede così, di solito, alle persone timide, oneste e laboriose: che, se si montano un po' la testa (o se gliela montano le eccessive lodi altrui), passano il segno e trasformano in difetti le proprie qualità. La laboriosità diviene ossessione produttiva; l'onestà, una medaglia da appendere al petto, magari campando di rendita; perfino la timidezza, in una maniera che sgomenta, diviene il suo opposto, una aggressività sfrenata e petulante.
Dunque, è meglio che a riportarli con i piedi per terra sia qualcuno che vuol loro bene, piuttosto che qualcuno che vuol loro male o che li considera indifferenti: perché la critica che nasce dall'amore è sempre costruttiva, anche se può talvolta apparire pungente
.
Tuttavia, prima di passare alla fase della critica, ci piace riportare un passo significativo di uno studio di Carlo Tullio Altan sulla trasformazione subita dall'economia friulana fra il 1945 e l'inizio degli anni Ottanta (qui si ferma la sua indagine; ma, negli ultimi venti o trent'anni, ne sono successe di cose, e non tutte buone e belle).
Carlo Tullio Altan è uno studioso di antropologia culturale, nato a San Vito al Tagliamento nel 1916 e scomparso abbastanza recentemente, nel 2005. Dopo essersi occupato di storia delle religioni e di etnologia comparata, sotto l'influsso di Benedetto Croce, si è sempre più orientato verso l'antropologia culturale, terminando la sua brillante carriera accademica come professore emerito presso l'Università di Trieste.
Il quadro che egli delinea delle trasformazioni non solo economiche, ma anche sociali e culturali, verificatesi in Friuli dopo la fine della seconda guerra mondiale, pur essendo sostanzialmente esatto e scrupolosamente documentato con cifre e percentuali statistiche, ha il limite - secondo noi - di presentare, appunto, un quadretto un po' troppo agiografico, un po' troppo compiaciuto della società friulana, pur essendo ben comprensibile l'orgoglio di chi, trovandosi a condividere l'arretratezza di una delle regioni italiane più povere nel 1945, ha poi visto la propria gente rimboccarsi le maniche e realizzare un progresso veramente notevole, con intelligenza e tanta buona volontà; grazie anche (come abbiamo accennato) a una altissima mobilità sociale.
In Friuli, la figura del bravo artigiano che subentra al padrone dell'azienda, la rinnova, la amplia e la fa prosperare, creando nuovi posti di lavoro e nuovo benessere, è stata tutt'altro che rara a partire dagli anni Cinquanta; anzi, vorremmo dire che è stata caratteristica. E probabilmente lo è ancora. E questo ex dipendente, divenuto imprenditore per ragioni unicamente di merito, in genere ha saputo preservare i valori tradizionali della propria società: quello della famiglia in primo luogo, ma anche quello dell'ambiente; e ciò spiega il fatto che questa nuova classe dirigente non ha devastato, in maniera puramente parassitaria e coloniale, l'esistente, ma ha saputo coniugare l'esistente con le esigenze più valide della modernizzazione (e non con tutte indiscriminatamente; almeno sino a qualche anno fa).

Scrive Carlo Tullio Altan nel suo pregevole volume «Udine in Friuli» (Udine, Casamassima Editore, 1982, pp. 273-78):

«Le condizioni economiche del Friuli alla fine della guerra [ossia la seconda guerra mondiale] apparvero in tutta la loro precarietà. Ai mali tradizionali si erano aggiunti quelli provocati dagli eventi bellici. 44 comuni erano stati colpiti duramente dai bombardamenti alleati o della devastazione delle rappresaglie naziste; 2.474 case erano state distrutte, assieme a 2.163 stalle, con un totale di 23.000 persone che avevano perduto del tutto o in parte i loro beni. A questi danni materiali si aggiungevano quelli umani, costituiti  dalla deportazione di 50.000 persone e dai 26.000 caduti in guerra. L'inflazione aveva fatto salire i prezzi assai più degli stipendi e dei salari, e la macchina produttiva inceppata aveva privato del lavoro 50.000 persone. Nella sola città di Udine si contavano nel 1947, 5.000 disoccupati su 74.000 abitanti.
Il fallimento delle lotte contadine del 1947-49 fu seguito dal riacutizzarsi del fenomeno tradizionale dell'emigrazione. Secondo i dati del censimento del 1951 la popolazione della provincia di Udine ammontava a 795.569 abitanti e i dati risultati all'Ente Friuli nel Mondo, segnalerebbero in quello stesso periodo la presenza all'estero di mezzo milione di persone emigrate dal 1871 in poi, senza ritorno. In una prima fase del processo migratorio di questo secondo dopoguerra si produsse un modesto flusso di emigranti diretto in Argentina, Venezuela, Brasile e in Canada, e in proporzioni minori negli Stati Uniti e in Uruguay, e poi in crescente misura in Australia. Ma ben presto l'inizio del decollo economico dell'Europa attrasse gli emigranti friulani verso i paesi europei e verso le regioni italiane del triangolo industriale.  A questo punto il fenomeno migratorio diventa una chiave di lettura di quei più complessi processi di ristrutturazione e di sviluppo del sistema produttivo, che vennero mutando radicalmente la fisionomia della Patria [espressione che, in Friuli, indica non l'Italia, ma il Friuli stesso] nel corso dei trent'anni che seguirono.
Alcune recenti indagini su questo problema hanno recato un contributo importante per chiarire i meccanismi del processo di trasformazione della società friulana in quel periodo. Questo processo può essere distinto in tre fasi. La prima prende le mosse dalla conclusione della guerra, nel 1945, e termina nel 1957, ed è una fase nella quale si pongono le premesse di quello che accadrà in seguito, la seconda, dal 1958 al 1968, segna l'inizio di uno sviluppo originale dell'economia della Patria, e la terza, dal 1969 ad oggi (1982), rappresenta la fase del consolidamento del nuovo equilibrio raggiunto dalla società friulana.
La prima fase fu caratterizzata, dal 1951 in poi, da un intenso flusso di emigranti, soprattutto dalle zone del Friuli centrale, assai più che dai territori isontini e giuliani; un'emigrazione che all'inizio venne determinata dalle condizioni di miseria della popolazione rurale,; un'emigrazione coatta e senza chiare prospettive di ritorno, ma che, gradatamente, venne mutando natura, per assumere quella di un'emigrazione temporanea, dopo un più o meno lungo periodo di residenza all'estero. In quello stesso tempo venne progettato per il Friuli un processo di rilancio dell'economia locale secondo il modello dello sviluppo industriale urbano, accentrato attorno a poli cittadini, fondato sulle medie e grandi imprese, quale era già stato realizzato nell'età precedente nei territori giuliani e isontini, con Monfalcone e Trieste al centro. Questo modello, salvo nel pordenonese, ebbe scarso successo un Friuli, dove si mantennero attive invece diverse piccole imprese locali, di tipo artigiano, che permettevano una duplice attività lavorativa, quella dell'officina associandosi ad una modesta attività agricola. Si trattava di una micro-imprenditoria con scarso investimento di capitali, che manteneva in essere le condizioni generali dell'economia rurale. Il resto della popolazione poteva sopravvivere, in gran parte, grazie all'integrazione del modesto reddito agricolo con le rimesse di una  o di più persone emigrate, mantenendo le famiglie la proprietà della casa, della stalla e di un piccolo fondo di terreno. Si conservava così anche il tipo di famiglia estesa tradizionale, con parte dei componenti che vivevano sulla proprietà, e parte erano emigrati in cerca di un lavoro. Il reddito esterno realizzati con l'emigrazione veniva investito in gran parte nella ristrutturazione della casa e, se possibile, nell'acquisto di un fondo agricolo, i prezzi dei terreni mantenendosi in questo periodo ancora ad un livello accessibile. L'emigrazione servì inoltre ad accogliere l'eccesso di manodopera agricola, in un momento nel quale ancora non si era fatto sentire quel processo di sviluppo che avrebbe caratterizzato le fasi seguenti, e l'industria edilizia locale, incentivata in una certa misura dai capitali degli emigranti, poté assorbire una parte delle forze di lavoro eccedenti le esigenze dell'agricoltura.
La seconda fase, che va dal 1958 al 1969, vide iniziarsi il processo di sviluppo industriale friulano vero e proprio. Questo si scosta decisamente dal modello industriale urbano accentrato, e si dispiega partendo in larga misura dalle zone rurali, attraverso l'accrescimento delle dimensioni aziendali delle imprese artigianali esistenti, le quali mantengono la loro collocazione decentrata sul territorio, avviandosi verso le dimensioni della media impresa, che tende a sua volta a diventare il tipo predominante a scapito di quelle minime artigianali e di quelle grandi. Questo sviluppo accrebbe la domanda di lavoro sul mercato, che si avviò alla situazione di equilibrio. L'imprenditoria di origine locale, molto spesso nata dall'antico humus artigianale, prevalse nettamente in Friuli su quella di provenienza esterna, che aveva caratterizzato l'industrializzazione di tipo urbano accentrato delle zone giuliane. L'occupazione agricola calava di pari passo col crescere di quella industriale, alimentando ancora un flusso, tuttavia decrescente, di emigrazione, cui faceva riscontro un crescente ritmo di rientri, mentre cessò del tutto in questo periodo quella definitiva. Di fronte a questo processo di sviluppo, si notava a questo punto un momento di stasi e di crisi nel modello industriale urbano delle zone isontine e giuliane. Il tessuto demografico delle zone friulane di esodo si mantenne intatto, attraverso la permanenza del nucleo familiare sul territorio e lo spopolamento venne vitato, nel mentre si rinnovava il patrimonio edilizio del Friuli. Si salvava con questo anche la tradizione culturale contadina friulana, nei suoi valori essenziali, assieme ai tradizionali modi di vita.
La terza fase, che si aprì nel 1969, vide consolidarsi il processo già delineatosi nella seconda, e le tragiche vicende del terremoto del 1976 non ne alterarono l'andamento, il quale venne in una certa misura incrementato dalle esigenze della ricostruzione. Le industrie mantennero e svilupparono la loro struttura decentrata, interessando le maggiori un gran numero di piccole e piccolissime, cui vennero affidate parti delle lavorazioni, e si produssero aree di specializzazione produttiva che sfruttavano un patrimonio di esperienze locali tradizionali nel campo della lavorazione del legno, del cuoio e della piccola metallurgia. L'equilibrio fra domanda e offerta di lavoro fu pienamente raggiunto, e si produsse un flusso massiccio di rientri dall'emigrazione, che si mantenne solo nella forma attuale di un'emigrazione di tecnici altamente remunerarti. Il capitale esterno, che si era allontanato nella prima fase dello sviluppo industriale urbano accentrato che non aveva avuto successo, rientrò sul mercato locale, ma scelse anch'esso la forma di investimento decentrato in unità di produzione collocate sul territorio, seguendo la topografia degli insediamenti rurali tradizionali, che mantennero la loro integrità, attraverso una forte intensificazione del lavoro agricolo e industriale combinati fra loro. Il livello di qualificazione professionale della manodopera subì un netto incremento, mentre si allargava il settore del terziario, tipico delle economie ad alto livello di sviluppo. La fascia a più intenso tasso di industrializzazione fu quella del medio Friuli, dove più intenso era stato il flusso migratorio, fin dal XIX secolo, e nella quale sono presenti con maggiore frequenza di altrove le capacità imprenditoriali.
In questo quadro di sviluppo industriale la società rurale mantiene attualmente una posizione subordinata ma essenziale. Le aziende agricole inferiori ai 5 ettari erano ancora nel 1960, 54.700 e cioè il 56,2% del totale, e nel 1970 le famiglie rurali rappresentavano il 43,6% del totale delle famiglie friulane, mentre il 74,4 per cento della proprietà fondiaria rurale è stata, almeno in una sua parte, ereditata dagli attuali titolari. Gli elementi fondamentali della società tradizionale sono quindi rimasti vivi, integrandosi in modo positivo nell'equilibrio generale, Solo le proporzioni della presenza delle attività economiche che vi erano connesse si modificano profondamente. Nel 1951 l'agricoltura concorreva col 26,1 per cento alla formazione del reddito in Friuli, e le attività industriali col 33,0 per cento; nel 1976 l'industria vi concorreva col 45,3 per cento, e le attività agricole col 7,3 per cento, fornendo cioè solo quell'integrazione al reddito industriale, che permette l'esistenza di unità familiari viventi sul territorio in modo indipendente, in case e su fondi di loro proprietà, combinando il lavoro industriale dei membri giovani e prevalentemente di sesso maschile, con quello agricolo delle generazioni più anziane conviventi, e di una buona parte delle donne giovani. Questa unità familiari produttive di reddito misto  tendono a collaborare fra di loro positivamente, creando una rete di interessi comuni e di rapporti preferenziali, su base parentale, nelle operazioni di scambio di lavoro contro servizi, o contro prodotti della terra, senza necessità di una mediazione monetaria. Si scambiano cioè ore di lavoro contro foraggio  per la stalla o contro l'uso di macchine agricole, fra famiglie o gruppo di famiglie, in una forma  di cooperazione spontanea.
Il prodotto lordo pro capite  in Friuli è passato così dal 79,0 per cento  della media nazionale nel 1951,  al 115,5 per cento nel 1981, collocandolo nel gruppo di testa delle regioni a più alto reddito in Italia. Il sistema produttivo risultante presenta un carattere particolarmente flessibile, e capace di reagire agli sbalzi della congiuntura economica  in modo meno drammatico dei sistemi fondati sul modello  della grande industria accentrata urbana. Ma ciò che è forse ancor più importante  sul piano antropologico è il fatto che questa trasformazione  non ha prodotto guasti nel tessuto sociale, paragonabili  a quelli che si sono verificati nei fenomeni di industrializzazione selvaggia delle aree metropolitane, mantenendo in essere una buona misura di vita comunitaria.
Questo nuovo equilibrio ha creato nuove categorie sociali che ne sono state al tempo stesso le artefici e il prodotto. Il nuovo operaio friulano, passato attraverso il filtro dell'emigrazione, è più vicino, come stile di vita e come mentalità, alla figura del borghese rurale, che non a quella dell'operaio di fabbrica o del contadino. Si è formata una vasta categoria  di lavoratori con alto grado di specializzazione, anche se le motivazioni che hanno indotto all'emigrazione e poi al rientro, non sono state tanto quelle dell'ascesa sociale in termini professionali, quanto quelle della ricerca di maggior sicurezza, nel quadro di una vita tradizionale vissuta come valore positivo. La vecchia e ristretta classe imprenditoriale borghese friulana, che nel chiuso dell'economia del XIX e della prima metà del XX secolo, aveva contribuito ben poco alo sviluppo economico del paese, è stata sostituita da una nuova, di origine prevalentemente artigiana e popolare, dotata di notevole spirito di iniziativa, associato ad una grande capacità di lavoro, e con una mentalità vicina a quella dei lavoratori, con i quali i rapporti sono in genere meno conflittuali che altrove.
I fattori di questo originale modello di sviluppo erano in gran parte presenti nella società friulana anche prima del decollo. È la loro combinazione in un certo modo, a costituire la novità. In primo luogo il territorio, e il suo antichissimo sistema di insediamenti dispersi, e di piccole unità cittadine, si è prestato molto bene quale supporto dell'attività industriale decentrata. Fra i due centri maggiori, Udine e Pordenone, e i piccoli insediamenti locali, fino alle case sparse, si è formata una rete di centri intermedi, sui 5 o 10.000 abitanti, che danno struttura al nuovo assetto urbanistico, assumendo una loro precisa funzione di centri periferici di servizi e di attività commerciali. Questo sistema ha fornito al decentramento delle industrie lo spazio adeguato, favorito da una fitta rete stradale, che rende possibili gli spostamenti pendolari e breve raggio dei lavoratori, che sono tipici di questo sistema in Friuli, data la vicinanza fra l'abitazione e il posto di lavoro. Le capacità artigianali diffuse, che sono testimoniate dalle descrizioni del passato,  (…) erano pure una caratteristica della società tradizionale, ed hanno fornito il terreno di cultura nel quale si sono formati  molti dei nuovi imprenditori. L'emigrazione è stata  (…) una realtà tradizionale. Nelle nuove circostanze, si può dire che sena la sua azione  nelle diverse fasi dello sviluppo (sfogo delle forze di lavoro esuberanti, in un primo momento; fonte di accumulazione del risparmio, poi investito in case e terreni, quindi nello sviluppo edilizio successivamente; acquisizione di competenze professionali e di esperienze di vita in ambienti industriali; e finalmente offerta di lavoro qualificata nella fase di espansione finale), questo si sarebbe bloccato in partenza, prima per eccesso e poi per difetto di forza lavoro. La concezione di vita che pone al centro la famiglia, pur dando valore ai rapporti sociali più vasti, e permettendo una buona misura di cooperazione, nell'antico spirito della vicinia, è servita bene come quadro nel quale integrare la vita delle famiglie nell'attività del lavoro industriale decentrato.
Accanto a questi elementi della tradizione, recuperati nel nuovo equilibrio, altri nuovi fattori sono entrati nella combinazione. La saturazione nello sviluppo delle grandi concentrazioni industriali nel triangolo del nord-ovest della pianura padana, ha fatto rifluire verso la periferia, e quindi anche in Friuli, nuove iniziative industriali decentrate. L'allargamento del marcato nazionale e internazionale ha fornito lo sbocco per una accresciuta produzione industriale, che il Friuli non avrebbe potuto assorbire. La distensione internazionale ha favorito la patria, collocata in un punto nevralgico dello scacchiere europeo, nei suoi rapporti con i Paesi dell'Est. Lo statuto regionale, varato nel 1963, ha dato un notevole contributo sul piano finanziario ai processi di sviluppo, nonostante che il piano elaborato nel 1967 per guidare lo sviluppo friulano redatto secondo il modello urbano industriale accentrato, quando era già in pieno corso quel diverso processo di sviluppo decentrato che si è descritto, abbia servito ben poco. La classe politica cattolica ha avuto una sua precisa funzione in questa circostanza. Già dalla fine del XIX secolo aveva cominciato a farsi sentire l'azione dei cattolici friulani nella vita economica delle campagne, con le numerose, per quel tempo, iniziative di tipo mutualistico, cooperativo, e di piccolo credito rurale, mostrando una attenzione particolare per i concreti problemi economici della società contadina. Questo atteggiamento pragmatico tornò a manifestarsi nel secondo dopoguerra come attenzione concreta per i problemi economici e sociali dei piccoli proprietari agricoli e coltivatori diretti,  in una prospettiva relativamente poco ideologizzata. Il fatto che questa categoria sociale, attraverso l'azione combinata dei fattori che si sono detti, si convertì per una parte nell'elemento sociale portante, sia sul piano del capitale, che su quello del lavoro, del nuovo sistema industriale decentrato friulano, indusse le forze cattoliche, che l'avevano messa al centro della loro attenzione politica, a seguirne, entro certi limiti,  l'evoluzione, e, disponendo dell'assoluta maggioranza nel governo regionale a statuto speciale, a favorirne le sorti con una politica di finanziamento capillare a pioggia, al di fuori degli schemi del piano, la quale, benché fosse apparentemente irrazionale, finì per risultare tuttavia funzionale a quel particolare tipo di sviluppo che si era prodotto spontaneamente, sulla base di una miriade di iniziative individuali. Lo statuto regionale risultò così di notevole importanza, nel contribuire al conseguimento del nuovo equilibrio economico-sociale.»

Dicevamo più sopra che il quadro delineato da Altan è assolutamente esatto; ma, al tempo stesso - e specialmente per un non Friulano - che esso può risultare un po' fuorviante, non per quello che dice, ma per quello che non dice; o, piuttosto, perché un approccio antropologico-culturale può talvolta lasciare fuori dal quadro elementi sociali ed umani che, pure, sono tutt'altro che irrilevanti.
In questo senso, quello che ci accingiamo a dire non vuole essere una critica (semmai, una integrazione) al quadro delineato da Altan, che è stato uno studioso serio e onesto, ma, semmai, una critica a un approccio esclusivamente esterno, per così dire, ai problemi relativi a un processo di trasformazione economica e, quindi, socioculturale, come quello vissuto dal Friuli fra il 1945 e i primi anni Ottanta.
Partiamo da uno dei primi elementi messi in luce da Altan: l'emigrazione del secondo dopoguerra. Egli afferma che, nel complesso, essa svolse un ruolo doppiamente benefico, da un lato diminuendo le bocche da sfamare, dall'altro fornendo le rimesse degli emigrati quali strumenti per la creazione di un piccolo capitale familiare. Fa notare, inoltre, che le maestranze emigrate poterono arricchire la propria competenza professionale e disporre così, al momento del rientro, di un patrimonio di esperienze e di nuove abilità, che si sarebbero rivelate utilissime per lo sviluppo della propria regione.
Detta così, sembra quasi che l'emigrazione sia stata poco meno che una benedizione del Cielo; mentre essa ha avuto dei costi umani e morali pesantissimi. È vero che la tradizionale struttura familiare della gente friulana non ne ha risentito, perché  nella maggior parte dei casi, le famiglie hanno finito per riunirsi, appunto negli anni dello sviluppo e del benessere; e ciò grazie ai forti vincoli spirituali che le hanno sempre tenute unite, anche quando erano materialmente divise e disperse (coi marito o coi figli, per esempio, impegnati nella costruzione di Ushuaia, nella Terra del Fuoco: la città più vicina al Polo Sud).
Inoltre, non è vero che tutti o quasi tutti sono potuti ritornare, presto o tardi, nei paesi d'origine. Sì, quasi tutti sono potuti rientrare in Friuli, se lo hanno voluto: ma alcuni paesi delle vallate alpine  non si sono più ripresi dall'emigrazione massiccia, e sono stati abbandonati per sempre. Tale, in particolare, è stato il destino di alcuni paesi delle vallate delle Prealpi Carniche: guarda caso, proprio quelli geograficamente più vicini a un grande polo industriale, quello di Pordenone: segno che il modello di sviluppo urbano accentrato è stato, in buona misura, poco felice (come sottolineato dallo stesso Altan).
Ci sono stati paesi, come Palcoda o san Vincenzo, che sono stati abbandonati per sempre, e ora la vegetazione spontanea li ricopre malinconicamente; e ce ne sono altri, come Redona, che sono abitati solo da pochissimi anziani, e che d'inverno si svuotano pressoché interamente. Non tutta la montagna friulana ha subito questo destino; ma una parte, sì.
Passiamo a un alto punto.
Nel saggio di Altan, si afferma che il ritorno degli emigrati, nella fase che va dal 1958 al 1968, consentì di salvare il tessuto demografico originario e, al tempo stesso, di rinnovare il patrimonio edilizio, incentivando al tempo stesso l'industria edilizia e creando nuovi posti di lavoro. Si dice anche che la tradizione culturale contadina venne salvata, il che è, forse, un po' eccessivo.
La tradizione culturale contadina non si può salvare in un processo di industrializzazione dell'agricoltura, anche se tale processo viene gestito in maniera che l'industria e l'agricoltura si integrino reciprocamente, non solo a livello di reddito, ma anche di competenze territoriali e di processi di lavorazione.
La verità è che lo sviluppo industriale uccide inesorabilmente la tradizione culturale contadina, ovunque e dovunque. Presentare le cose diversamente, significa confezionare una bella leggenda, ma sostanzialmente infondata. Certo vi è modo e modo di morire: e la  civiltà contadina friulana è morta, così come tutte le altre civiltà contadine d'Italia e d'Europa, ma in modo meno straziante e, forse, meno offensivo che in altre regioni.
Morta la civiltà contadina - il che è avvenuto entro la prima metà degli anni Settanta, al massimo -, è difficile parlare di preservazione della tradizione contadina. Che cosa si intende con questa espressione? Può una tradizione contadina sopravvivere alla civiltà che l'ha originata? È un po' difficile sostenerlo, pur con tutta la buona volontà di credere alle favole.
Alcuni Friulani credono ancora alle favole; il che, di per sé, non è necessariamente una brutta cosa; tutt'altro. Ma ci sono favole e favole. Inoltre, ci sono favole nelle quali si crede in buona fede, e altre in cui si crede con cattiva coscienza o, per meglio dire, alle quali si finge solamente di credere, per coprire interessi meno nobili.
Ci sono persone che hanno chiesto e ottenuto ingenti finanziamenti pubblici per ristrutturare un rustico e che invece, con quei soldi, si sono fatte la villetta in campagna. Sono, magari, le stesse persone che parlano tanto di friulanità e che, in qualche strana circonvoluzione del loro cervello, s'immaginano anche di essere benemerite della patria del Friuli, perché contribuiscono a tenere viva la tradizione culturale contadina. I furboni non stanno solo a Napoli e a Roma; ci sono anche all'ombra del «ciscjel (castello) di Udin».
Parliamoci chiaro. Quando una regione realizza uno sviluppo di tipo industriale, anche l'agricoltura si industrializza: e la civiltà contadina muore, puramente e semplicemente. Così è successo in Friuli come nel resto d'Italia e d'Europa, fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta; e, alla metà di questi ultimi, era ormai bella e defunta. Certo, l'abbiamo detto, c'è modo e modo di morire. La morte della civiltà contadina friulana, a paragone di quella di altre regioni, non è stata delle peggiori; al contrario, ha avuto una sua dignità. Ne abbiamo dato atto alla classe dirigente friulana, e non pensiamo affatto di rimangiarci quanto già detto in proposito.
Può darsi che qualche bella fontana di paese o di quartiere, rimossa per le esigenze della modernizzazione e, in particolare, della viabilità, sia finita nel giardino di qualche assessore o di qualche impresario di pochi scrupoli; sospettiamo, senza averne le prove, che episodi del genere siano accaduti: ma, paragonati alle razzie di altre classi dirigenti in altre parti d'Italia, queste cose appaiono come semplici ragazzate.
Del resto, non era spostando quelle fontane qualche metro più in là, per permettere alla nuova strada di passare, che si sarebbe salvata la civiltà contadina. Quella, non la poteva salvare più nessuno, nemmeno il Padreterno, una volta imboccata la strada dello sviluppo industriale.
Però - a proposito di onestà intellettuale - non si può deprecare la piaga dell'emigrazione e, poi,  piangere sui mali dell'industrializzazione; né, dopo aver ricordato il dramma dello spopolamento della montagna, deprecare che non si sia salvata la civiltà contadina, che quei paesi di montagna non era in grado di mantenere.
Quello che non convince è la pretesa che, in quegli anni, in Friuli, sia stata salvata anche la tradizione culturale contadina. Come è possibile salvare una tradizione culturale contadina, dopo che la civiltà da cui si è originata, ha cessato di esistere? Non è possibile: e bisogna avere la franchezza di ammetterlo. Altrimenti, pare che si voglia far credere - specialmente ai non Friulani - che in Friuli sia avvenuto un autentico miracolo: che si sia realizzato un processo rapidissimo di industrializzazione, che ha portato denaro e benessere; salvando, al tempo stesso, la tradizione contadina.
Per carità, non è così. La tradizione contadina è morta insieme alla civiltà che l'ha messa al mondo; e non poteva essere altrimenti. Forse, nessuno ne ha colpa; forse: ma bisogna chiamare le cose con il loro nome e cognome.
Senza contare che quella espressione, «si rinnovava il patrimonio edilizio del Friuli», può essere fuorviante. Essa dà l'idea di una cosa buona e bella; ma, in pratica, significò l'abbattimento di molti vecchi edifici che si sarebbero potuti salvare, e che erano cari al cuore del popolo. Questo rinnovamento del patrimonio edilizio non è stato indolore; anche se - di nuovo, lo riconosciamo di buon grado - ha fatto in Friuli meno sconcezze che in tante altre parti d'Italia.
In Friuli non si sono visti orrori urbanistici e architettonici come, ad esempio, i casermoni di cemento di Mestre Marghera; ma è anche vero che, in Friuli, non si è realizzato un polo chimico, in quattro e quattr'otto, a due passi da una grande città storica. Merito della classe dirigente locale; merito di un po' di fortuna, e di qualche privilegio dovuto allo statuto speciale: d'accordo. Ma insomma, se è vero che la ricostruzione del patrimonio edilizio poteva produrre cose anche peggiori, è altrettanto vero che non è andata giù con il guanto di velluto.
Chi ha conosciuto Udine negli anni Cinquanta e chi l'ha visto solo due decenni dopo, non l'avrebbe facilmente riconosciuta. La copertura indiscriminata delle rogge era, forse, evitabile: ora è possibile farsi un'idea delle cose belle che sono andate perdute solo inoltrandosi in una traversa di Riva Bartolini, in Via Molin Nascosto; o sbirciando dall'angolo fra Via Giovanni da Udine e Via Gemona. E anche la soppressione del «tram bianco» per Tarcento e del «tram verde» per San Daniele, molto cari alla cittadinanza, non era - forse - necessaria.
Passatismo, nostalgie reazionarie, antimodernità ad ogni costo? Può darsi.
Ma, se si vuole che i luoghi conservino la propria anima, bisogna pensarci su dieci volte, venti volte, prima di decidere l'abbattimento anche di un solo edificio, il taglio anche di un solo albero. Così si frena il progresso? Forse: ma il progresso non è mica una forza del destino: siamo noi che decidiamo dove andare, come andarci, e con quali tempi e ritmi; e salvando che cosa del passato, e rinunciando - eventualmente - a che cosa del presente. Non tutto il presente è accettabile; e non tutto il futuro immediato è degno di essere divinizzato.
Sì, lo ripetiamo: a volte basta il taglio di un albero, per strappare via l'anima di un luogo.
Udine non è più Udine, da quando è stato abbattuto il secolare platano di Via Zanon. Generazioni di udinesi hanno fatto la spesa nelle bancarelle sotto l'ombra amica dei suoi immensi palchi; e, adesso che il gigante non c'è più, qualcosa di insostituibile se ne è andata via con lui, e non ritornerà mai più in riva alla roggia.
Un'ultima osservazione vogliamo fare - ma sarebbero ancora tante, tantissime le cose da dire - a proposito dell'operaio friulano che, come stile di vita e come mentalità, sarebbe più vicino alla figura del borghese rurale, che non a quella dell'operaio di fabbrica o del contadino.
Se ci si riferisce alla figura dell'ex contadino divenuto operaio, ma che continua a dedicarsi all'agricoltura come attività secondaria, con l'aiuto della famiglia, quale fonte di reddito sussidiaria (una figura tipica degli anni del boom anche nel vicino Trevigiano e, in genere, nel Veneto «di terraferma»), allora bisogna dire che la rappresentazione anzidetta pecca un tantino di ottimismo, per non dire di leziosità.
Il contadino che va a lavorare in fabbrica, ma che continua a mantenere e a lavorare qualche campo di terra e, magari, qualche animale nella stalla, è destinato a perdere, sì, la mentalità e lo stile di vita originario, ma quello che elabora non è propriamente dei più felici: un amalgama disarmonico, in cui non di rado emergono i tratti meno simpatici di entrambe le culture, quella rurale e quella operaia.
In genere, ai valori portanti tradizionali - famiglia e luogo natio - si sovrappongono i modelli consumistici importati dall'ambiente cittadino. E, se è vero che l'ambiente urbano, in Friuli, non ha mai assunto gli aspetti degenerativi propri delle grandi città industriali, è anche vero che la mentalità dell'ex contadino divenuto operaio tende comunque a sostituire, nella propria gerarchia di valori, il guadagno e la possibilità di esibire il proprio avanzamento sociale a quelli nutriti in precedenza.
Il lavoro, beninteso,  resta un grande valore, ma ormai quasi soltanto in senso strumentale: lavorare sempre di più, per poter guadagnare sempre di più. Difficile uscire da un simile giro vizioso.

Ad ogni modo, l'analisi di Carlo Tullio Altan si ferma all'inizio degli anni Ottanta, quando certe debolezze, insite nel modello di sviluppo decentrato (ad esempio, la difficoltà di conciliare la competitività delle imprese con la loro struttura medio-piccola o decisamente piccola) non erano ancora chiaramente emerse.
Del pari, non si erano ancora manifestati fenomeni di portata generale, quali la immigrazione massiccia di lavoratori e di intere famiglie dall'Europa dell'est, dall'Africa, dal Vicino Oriente e da altre zone dell'Asia e dell'America Latina, con tutto ciò che essa ha comportato sia dal punto di vista economico-sociale, sia da quello culturale. L'Unione Sovietica non si era ancora dissolta e dall'Ucraina, dalla Moldavia, dalla Bielorussia, dalla Polonia, dalla Romania e dai Balcani non si erano ancora messe in movimento centinaia di migliaia, di persone, attratte dalla prospettiva di un lavoro e di una sistemazione, a volte temporanea, più spesso definitiva, nel Nord-est dell'Italia, Friuli compreso.
Collegato con la massiccia immigrazione straniera, attirata dalle piccole aziende del Friuli, ma ovviamente dovuta anche a molti altri fattori, si è diffusa, dagli anni Ottanta in poi, una crescente insicurezza sociale, dovuta al moltiplicarsi di fenomeni di criminalità, sia individuale (si pensi al tristemente noto «Unabomber») che organizzata, spesso con caratteristiche di violenza gratuita cui nessuno, in Friuli, era abituato, sfatando il mito di una piccola oasi felice ai margini di un'Italia imbarbarita e in preda al disordine totale.
Né si era ancora manifestato il fenomeno politico della Lega Nord. Il Friuli si baloccava ancora, attraverso il Movimento Friuli, con l'idea di un ripristino, almeno in senso linguistico e culturale, della «Piciule Patrie», della piccola Patria: quella dell'antico patriarcato di Aquileia, annesso nel 1420 dai Veneziani e rimasto nella memoria di molti Friulani come un ricordo carico di nostalgia. Ma poi è arrivato l'apparentamento con la Liga Veneta (erede dei conquistatori veneziani!) e, in seguito, con la Lega Nord, risultante dalla fusione di Lega Lombarda e Liga Veneta: e non si è pensato più tanto ai bei tempi andati dello stato patriarchino e alla specificità nazionale del popolo friulano, ma agli interessi economici da difendere contro la rapacità di «Roma ladrona»; sebbene Roma, nel caso del Friuli (come delle altre regioni a statuto speciale) fosse stata, una volta tanto, ben poco ladrona quanto, piuttosto, una vera e propria mucca da mungere.
Infine, la recessione ormai conclamata, che ha colpito l'economia italiana, non ha certo risparmiato questa ex isola felice che, se mai è stata tale, certo lo è stata in tempi ormai trascorsi per sempre. E, se la struttura dello sviluppo industriale diffuso sul territorio e basato sulla media e piccola impresa possiede, senza dubbio, un maggior grado di flessibilità davanti alle situazioni di crisi economica, ciò non significa certo che una regione come il Friuli possa chiamarsi fuori dai tempi bui che si annunciano, ormai a livello mondiale, specialmente dopo la crisi del sistema bancario internazionale.
«Starin a viòdi»: staremo a vedere.
I Friulani non potranno fare «di bessoi», come non lo fecero quando li colpì il disastroso terremoto del 1976: nel bene e nel male, sono legati all'Italia e all'Europa, specialmente a quella centro-orientale (la cosiddetta regione europea dell'Alpe-Adria).Chi vivrà, vedrà.

Una cosa è certa.
Qualunque modello economico basato sull'idea dello sviluppo illimitato - basato, cioè, non sulla produzione di beni e servizi reali, ma di merci o, peggio di titoli e azioni - deve affrontare, prima o poi, le contraddizioni inestricabili della sua filosofia di fondo: che non si dà e non si può dare alcuno sviluppo illimitato.
Il modello sviluppista dell'economia friulana, fra il 1950 e il 1980, ha fatto meraviglie ed è sembrato realizzare il miracolo di conciliare i vantaggi della modernità con gli aspetti positivi e irrinunciabili della tradizione.
Ma era una pia illusione, e lo si sta vedendo ora.
La verità è che nessuno, in Europa - e nemmeno in Friuli - ha avuto abbastanza lungimiranza e abbastanza pazienza e coraggio, dopo la seconda guerra mondiale, da impostare le basi di un modello economico non sviluppista, ma basato su un equilibrio effettivo tra la produzione di beni e servizi - non di merci, che sono un'altra cosa - e le esigenze autentiche della popolazione, comprese quelle legate alla qualità della vita, alla tutela dell'ambiente, alla salvaguardia dei valori spirituali e morali.
I quali non si misurano in termini economici e non si giudicano in sede di antropologia culturale, se non in maniera esteriore e un po' sdegnosetta; ma contano, eccome se contano, per conferire bellezza alla vita e per infondere speranza nelle giovani generazioni.