Si torna a tavola. Negli anni iperconsumisti ed iperproduttivi, in casa non ci si riuniva quasi più attorno a questo vecchio mobile. Non c’era tempo. Fuori, i tavoli dei ristoranti per Vip, adeguandosi, si stavano trasformando in vistosi ma isolati palcoscenici per coppie in cerca di intimità pubblicizzata, destinata a promuovere l’immagine. Ora il contrordine. Nei ristoranti più accurati arriva la «tavola conviviale», dove si pranza in gruppo. Ci si siede, e a tavola ci si conosce.
Non si tratta di una novità assoluta. In Francia, dove la tradizione della convivialità è forte e collaudata nei secoli, la «table d’hote», la tavola per gli ospiti, è da tempo immemorabile una tradizione delle migliori locande, che divennero poi i «relais et chateaux» negli anni del benessere di massa.

Anche in Italia ottimi ristoranti, spesso lontani dalle città, avevano per gli ospiti affezionati una grande tavola, dove chi amava il posto e la cucina prendeva l’abitudine di sedersi, e si diventava amici. Ma erano élites di gentiluomini di campagna.
Per la maggior parte delle persone, la tavola rimaneva il luogo della privatezza, e dell’intimità, aperta al massimo alla compagnia già affiatata. L’unico commensale sconosciuto, e accettato, era quello che ti mettevano accanto nella vettura ristorante del treno.
Si intensificava intanto la pressione degli impegni, e con essa lo sfilacciamento della tavola, luogo dello scambio, della sosta, della confidenza. In casa, uomini e donne lavoravano, i ragazzi si servivano da soli, dal frigorifero, come nei film americani. Nella città, il trovarsi al ristorante entrava a far parte di quell’«impiego produttivo del tempo libero», che i sociologi del postmoderno raccomandano a chi vuole massimizzare i guadagni, e mettere a frutto ogni momento della giornata. Era la fine della tavola, dell’incontro conviviale, per ciò che aveva significato dai greci in poi.
Il risultato fu il diffondersi della solitudine. Senza quel luogo di incontro e di scambio, anche fisico, di parole, sguardi, cibo e bevande, i rapporti divennero più distanti, inconsistenti. Si diffusero malesseri nuovi, dalle fobie sociali a disturbi alimentari aiutati dalla separazione tra cibo ed affettività, che non circolava più anche per la perdita di importanza della tavola. Adesso, finalmente, assistiamo al ritorno.
Importanti chef come Vissani, o istituzioni turistiche come le terme di Saturnia scoprono (o ri/scoprono) la table d’hotes, che si chiama ora «tavola conviviale». Gruppi alberghieri internazionali si affrettano ad allestire ristoranti dotati della tavola magica, dove ci si conosce scambiandosi confidenze molto concrete ed insieme profonde, come il racconto dei cibi e i vini preferiti.
Come tutte le trovate commerciali di successo, anche questa risponde a bisogni profondi. Il processo di graduale spappolamento delle relazioni, di cui la scomparsa della tavola è insieme effetto e causa, ha trasformato gli individui, ma anche le coppie in atomi (monadi, le avrebbe chiamate il filosofo Leibniz), chiuse e isolate, che cercano disperatamente il modo di comunicare con l’esterno, con gli altri. Senza parlare dell’esercito crescente dei single: uomini imbarazzati, malvisti nei ristoranti (o almeno così si sentono), donne costrette a portarsi dietro qualche amica, mentre spesso avrebbero voglia di sedersi a un tavolo, e vedere chi c’è, che si dice, e cosa succede.
Insomma l’«individuo» postmoderno comincia ad averne abbastanza di guardarsi l’ombelico. Per questo si siede alla tavola comune, e ricomincia ad ascoltare gli altri, e a raccontarsi.