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Matteo Ricci alla riconquista della Cina

di Franco Cardini - 26/11/2008

    
 
Lo storico Franco Cardini analizza la figura del gesuita viaggiatore Matteo Ricci, uno dei protagonisti dell’evangelizzazione dell’Estremo Oriente alla fine del XVI secolo e grande mediatore fra la cultura cinese e quella occidentale. Giunto in Cina già nel 1582, Ricci riuscì a ottenere il permesso imperiale per aprire la prima missione cristiana a Pechino nel 1602: alla sua morte, nel 1610, si potevano contare circa 3 mila conversioni al cristianesimo. Ricci e i gesuiti in generale si fecero promotori dell’idea di “inculturazione” che, paragonando la cultura cinese classica a quella greco-romana, propugnava una evangelizzazione che non implicava l’imposizione dei costumi occidentali. Nel rispetto dei dogmi cristiani bisognava procedere a una sintesi fra le due culture, infatti Ricci assunse usi e costumi della élite cinese e si guadagnò il favore imperiale.

Dopo la fine della dinastia mongola in Cina, le piccole comunità di cristiani presenti sui territori dell’impero si erano disperse. Fu il
gesuita Alessandro Valignano, nominato nel 1572 visitatore delle missioni delle Indie Orientali, a immaginare la possibilità di una nuova evangelizzazione per la Cina, in un piano più ampio che prevedeva anche la predicazione in India e in Giappone. È a lui che si deve anche la felice decisione di inviare Matteo Ricci in Estremo Oriente. Il Ricci era nato nel 1552 a Macerata, nella marca di Ancona; di nobile famiglia, fu inviato dal padre a Roma per studiare al Collegio Romano, poi Pontificia Università Gregoriana. [...]
Matteo entrò nella Compagnia di Gesù nel 1571 e il Valignano lo inviò a Goa, dove nel 1580 venne ordinato sacerdote. L’anno successivo raggiunse Macao su una nave portoghese; qui iniziò a studiare la lingua cinese, favorito da una memoria straordinaria, che avrebbe dato presto ottimi frutti. Nel 1582 Matteo Ricci, il confratello Michele Ruggieri e alcuni interpreti lasciarono Macao diretti a Zhaoqing (a ovest di Canton). Qui guadagnarono l’amicizia del prefetto Wang Pan, collezionista di oggetti occidentali e interessato in particolare agli orologi dei missionari.
Quando vennero a mancare i fondi, il Ruggieri decise di tornare a Macao per comunicare con Roma, mentre il Ricci rimase in Cina e iniziò a studiare più profondamente la cultura locale. Gli studi lo condussero ad approfondire il concetto di ‘inculturazione’ già teorizzato dal Valignano: paragonando la cultura filosofica dei mandarini a quella greca, considerava che la conversione non dovesse richiedere anche un’accettazione del costume europeo.
Bisognava quindi arrivare a un’opera di sintesi, come il primo cristianesimo aveva fatto rispetto all’eredità del mondo classico, e per questo la conoscenza approfondita delle culture locali era strumento necessario per il buon missionario, così com’era essenziale un suo distacco da altri interessi europei al di fuori di quelli evangelici. Scriveva infatti il Ricci, nel ricco epistolario che si è conservato, che i missionari non dovevano aver mire di conquista politica né legarsi ai mercanti, e che, con l’esclusione dell’intangibilità dei dogmi e della morale evangelica, essi potevano e dovevano farsi indiani in India, nipponici in Giappone e cinesi in Cina. L’interesse delle élites cinesi verso alcuni oggetti posseduti dagli occidentali lo favorì: già nel 1584 dette alle stampe il suo primo Mappamondo e un Compendio della dottrina cristiana. Grazie a queste opere, al suo orologio a pendolo, ai prismi di cristallo usati come caleidoscopi, il Ricci riuscì a farsi benvolere nei circoli letterari e politici.
Matteo Ricci e i suoi compagni iniziarono a prendere nomi cinesi e a vestirsi come tali, con le tuniche al posto della veste: andare in giro rasati e con i capelli corti avrebbe significato esser scambiati per buddhisti, disprezzati dai letterati, e dunque i gesuiti si lasciarono crescere barba e capelli. Scelsero inoltre di farsi chiamare ‘letterati’ e non preti, per non risultare troppo simili ai bonzi. Queste innovazioni ricevettero l’approvazione del padre generale della Compagnia, Claudio Acquaviva, e di papa Clemente VIII. Il consenso, però, era tutt’altro che unanime: criticato dai tradizionalisti, che ne denunciavano anche lo scarso numero di conversioni, il metodo dei gesuiti era avversato anche dai mercanti occidentali e dalle autorità portoghesi; un problema che non si poneva tanto in Cina, quanto piuttosto in India, a Goa, dove la Compagnia proteggeva i cristiani locali dai rigori dell’
Inquisizione e dalle soperchierie dei coloni [...]
Nel 1595 Matteo Ricci decise di tentare la strada di Pechino; ma numerosi incidenti di percorso lo fermarono. Si stabilì allora a Nanchino, dove compose il Palazzo della Memoria, un trattato di mnemotecnica che regalò ai figli del viceré per i loro esami, ma che godé allora e in seguito di grande fama. [...] Nel 1601 il Ricci tornò alla carica, sottoponendo un memoriale direttamente al nuovo imperatore Shen-Tsung: vi menziona l’amicizia con la Cina ed esprime ammirazione per la sua straordinaria cultura. Dopo la visita, il Ricci ottenne il permesso di rimanere a Pechino, e nel 1602 fu inaugurata la prima missione cristiana nella capitale.
In breve, Matteo Ricci divenne amico di mandarini ed eunuchi di corte, ed ebbe licenza di celebrare messa in pubblico. Altri 40 padri gesuiti si unirono a lui. Nel 1609 fondò la Confraternita della Madre di Dio e dette inizio ai lavori della prima chiesa pubblica di Pechino, ma non poté vederla ultimata: morì infatti a 58 anni, l’11 maggio del 1610. Sino a quel punto, i convertiti erano circa 3mila. Nel secolo che seguì, le conversioni salirono a 200mila e non riguardarono più soltanto i ceti colti, ma tutti gli strati sociali. Come aveva previsto il Ricci, la sua strategia non era fatta per dare frutti immediati, ma andava misurata su distanze più lunghe.