Documentari all'assalto Il film del regista Robert Greenwald illustra metodi e poteri di un capitalismo selvaggio che fa soldi a scapito dei diritti umani. Il funzionamento dei centri del consumo somiglia molto a quello delle multinazionali
I tedeschi non sono ossessionati dalla sicurezza. Non al festival almeno. Entrando nel Berlinale Palast non si è perquisiti come nel Palais di Cannes, o sottoposti alla volgarità delle bodyguard, e un apparato grottesco terminale come quello messo in campo all'ultima edizione di Venezia causerebbe (è accaduto la sola volta che si è parlato di controlli) una rivolta. Eppure tensioni ce ne sono parecchie anche in Germania, Angela Merkel anela pure lei al protagonismo nel «conflitto di civiltà» pretesto ottimo per distogliere dalle crisi interne. Ieri la Germania si è svegliata festeggiando la vittoria della squadra tedesca di sci alle Olimpiadi torinesi, ma soprattutto con la «scoperta» che il piano di razionalizzazione della Volkswagen (sponsor della Berlinale) prevede ventimila licenziamenti in tre anni (e il 20% in meno nella busta paga). Sentimento di un precariato forte anche qui, a Postdamer Platz, dove poco si percepisce cosa si muove nella metropoli col circuito di sale pensato scientificamente per tagliare fuori il festival dal resto. Sono i ragazzi e ragazze reclutati per distribuire fuori dalle sale gloss rosa pallido dell'Oreal (altro sponsor festivaliero), servire nei bar aperti per l'occasione, nei ristoranti di lusso, nei locali alla moda. Poi ci sono gli schermi. Che se Berlino omologata nelle sue contraddizioni al resto dell'Europa resta invisibile, l'immaginaro metabolizza e anticipa la percezione. Il centro commerciale nel mezzo del complesso di Piano è il regno del basso costo. Impiegati a termine e mano d'opera (per i manufatti) pagata zero per garantire prezzi non elevati al consumatore occidentale povero pure lui, perché le ragazze che comperano «tendenza» da H&M sono per lo più proletariato...
È il principio del Wal-Mart, prezzi bassi, lavoratori sottoproletari e non garantiti, una clientela speculare. Ma: qual è il prezzo del basso costo? Altissimo, ci dice Robert Greenwald in Wal-Mart. The high cost of low price, documentario «classico» nella sua dimensione corale e di profondità, meno nelle nuove tendenze del racconto in prima persona, stile Michael Moore o nella scelta di un personaggio ai limiti del mokumentary che diviene «filtro» e cifra della storia. Wal-Mart è come dovrebbe essere fare informazione in qualsiasi tv seria. E qualcosa in più. Perché guardando il film al posto di Wal-Mart, che nell'esperienza Usa è riferimento immediato, potremmo mettere tutte le multinazionali il cui funzionamento è garantito da logiche del profitto ottimizzato a qualsiasi prezzo (che poi è sempre umano). Greenwald (Uncovered war in Iraq; Outfoxed: Robert Murdoch's war on journalism) prende Wal-Mart come modello di un sistema che nega per esistere il diritto del lavoratore: i sindacati sono vietati, l'azienda usa metodi persuasivi per distogliere i suoi impiegati dal volerne uno, spot, colloqui, fino al licenziamento. Nessuna assistenza medica, l'orario di lavoro sfora il consentito, non esiste malattia, vacanza, diritto sociale. Lo stesso vale negli Stati uniti e laddove i prodotti vengono confezionati per vendere a prezzi bassi, Cina, Bangladesh, America latina. Condizioni di sfruttamento moltiplicate, si lavora venti ore al giorno per un compenso che è tra uno e tre dollari. Le operaie (sono quasi tutte donne) in Cina vivono in scatole di cemento dove il loro solo spazio vitale è un letto. Non c'è pausa per mangiare, per andare in bagno, per una sigaretta. Lo stesso negli altri paesi, ci spiega l'ex manager Wal-Mart che regolava il capitalismo in America Latina, colpito a tal punto da dolcezza e rassegnazione delle operaie da non poter più reggere il proprio ruolo. Ma il «sistema» è questo, una macchina di capitalismo globalizzato che ha «uniformato» (nello sfuttamento come base del proprio valore di mercato) il mondo. «Caro cliente Wal-Mart ricorda che se paghi poco le tue cose è grazie a noi che le facciamo lavorando tutto il giorno e ogni giorno», dice l'operaia cinese, senza sapere che comunque quelle cose, nel caso Wal-Mart, sono destinate a altri poveri.
Wal-Mart in un anno spende milioni di dollari in multe per inquinamento ambientale, nei parcheggi - i centri sono costruiti quasi sempre in zone suburbane e poverissime - non esiste sicurezza, stupri, aggressioni, furti, rapimenti, omicidi hanno percentuali altissime. Nella sua inchiesta costruita per «capitoli» tematici sul discorso di un dirigente alla platea di azionisti, Greenwald lascia Wal-Mart come luogo fisico del «consumo» un po' fuori campo. Vediamo poco di interni, merci, clienti intuendo però che tra operai (a livello basso) costretti a comperare Wal-mart perché non possono permettersi altri e clienti non c'è grande differenza. È appunto il sistema complessivo che lo interessa, l'interazione di logiche, sopraffazione, guadagno perfettamente sintetizzata.
La «logica» Wal-Mart sono gli spot per il consumatore fondati sulla retorica della felicità, e più generalmente la promozione dei valori aziendali che coincidono con la vita senza molte differenze tra impiegati e consumatori. Greenwald incontra molte persone diverse. Lavoratori americani tra cui una madre african-american discriminata per razzismo, e un'altra costretta a rivolgersi all'assistenza medica pubblica per i figli (e le donne pagano ricatti ancora maggiori). Ex-quadri dirigenti che hanno lasciato per problemi di coscienza, i piccoli commercianti che Wal-Mart ha azzerato al suo arrivo acuendo una situazione di crisi già aspra. E appunto gli operai senza volto «fuori». Il viaggio tra Ohio, Florida, Colorado, Texas e altri stati «deboli» (nelle grandi metropoli Wal-Mart è tenuto fuori) ci racconta anche un'America povera, stanca, di grandi ricchezze e ordinaria marginalità. I Walton, la famiglia a cui appartiene Wal-Mart, vivono blindati, spendono milioni di dollari per sicurezza, aerei privati non un dollaro per i loro lavoratori pure se ne incassano i benefit. Per le calamità nazionali, come poteva essere l'uragano Katrina, versano di più i lavoratori togliendo dal loro già basso stipendo che la famiglia miliardaria (rapporto 5 milioni di dollari contro 1). Ma Wal-Mart è anche la storia di una battaglia guidata da un pastore donna african-american, di una piccola comunità in California che è riuscita a fermare la costruzione di un nuovo centro. Petizione, proteste, resistenza, voto popolare e Wal-Mart a Inglewood è stato messo alla porta. E così in molti altri stati americani, sperando in qualcosa che garantisca sì posti di lavoro (uno degli slogan prediletti dai dirigenti Wal-Mart) ma anche qualità della vita espressione che invece il «target» aziendale neppure riconosce.
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