Che cos'è la patria per uno scrittore friulano contemporaneo: Riedo Puppo (1920-2002)
di Francesco Lamendola - 29/11/2008
I piccoli popoli hanno questa ricchezza, che possono mettere a disposizione del mondo odierno: una saggezza antica, umile, paziente, che ha visto succedersi tanti Stati diversi e tanti spostamenti di confine, ma che ha conservato intatti, nei secoli, il proprio senso di appartenenza, il proprio legame con la terra.
Si tratta di un patrimonio di saggezza elementare e quasi primitiva, ma profonda; se, poi, si tratta di popoli che hanno conservato più a lungo di altri - proprio per la loro collocazione periferica rispetto al baricentro degli Stati vicini - la cultura contadina e patriarcale, allora la ricchezza che possono offrire è ancora più grande e preziosa.
E questo crediamo sia particolarmente vero allorché, oggi, i meccanismi della globalizzazione economica rischiano di farci passare direttamente da una cultura e da una visione del mondo propria dello Stato-nazione a quella del Super-Stato continentale o mondiale, saltando la fase - logica e necessaria - delle culture locali.
Prendiamo il caso del popolo friulano.
Secondo alcuni linguisti, il friulano è il ramo più orientale del ladino; che è rappresentato anche dal romancio (ladino occidentale) e dal ladino dolomitico (ladino centrale). In ogni caso, si tratta di una lingua parlata da un piccolo popolo, parte del quale ha già adottato, da molto tempo, la lingua nazionale o il dialetto veneto importato dai conquistatori veneziani nel 1420, alla caduta del Patriarcato di Aquileia (che era uno Stato essenzialmente tedesco, perché tedeschi erano molti patriarchi e quasi tutti i signori feudali).
Oggi non sono più di 500 mila le persone che parlano friulano, anche se si notano segni di ripresa. A Udine, per esempio, dove il friulano era pressoché scomparso dal centro storico e resisteva solo in alcuni borghi periferici, si sta verificando un ritorno alla «mari lenghe», alla lingua materna. In effetti, uno studente che sedeva sui banchi di scuola, almeno fino a pochi anni fa, apprendeva l'italiano come terza lingua (e l'inglese o il francese come quarta o quinta): la prima era il friulano, la seconda il dialetto veneto-udinese.
Non è facile trovare uno scrittore che scelga di scrivere in una piccola lingua e che le rimanga fedele per tutta la vita. Riedo Puppo (nato a Ceresetto, presso Martignacco, l'11 agosto 1920 e morto a Udine il 12 marzo 2002) lo ha fatto.
Se avesse scelto di scrivere in italiano, il suo nome - molto probabilmente - sarebbe oggi conosciuto in un ambito ben più vasto; ma egli volle rimanere costantemente fedele alla «mari lenghe», perché, pensava, come si può tradire la propria madre? Così, egli è stato forse lo scrittore più letto e più amato dal popolo friulano, e uno dei pochissimi che hanno scelto di restare fedeli alla madrelingua friulana. Molti altri - come Alcide Paolini, Elio Bartolini, Carlo Sgorlon, Davide Maria Turoldo (dei quali abbiamo già trattato in precedenti articoli) - hanno scelto l'italiano; lui, no.
Ma quella che, ad un pubblico nazionale che nulla sa della specificità friulana (anzi, che non sa neppure che il friulano è una lingua e non un dialetto) può sembrare ostinazione e una forma di campanilismo esasperato, è una scelta perfettamente limpida e coerente per chi, nato e vissuto in Friuli, sa quanto il popolo friulano ami la propria terra, le proprie radici, le proprie tradizioni.
Ora, il punto di vista di uno scrittore come Riedo Puppo - collaboratore, per molti anni, del giornale «La vita cattolica» - offre al lettore italiano (ed europeo) un utilissimo spaccato sulla saggezza semplice, umile, contadina, di un piccolo popolo fiero e tenace, che per secoli ha saputo preservare la propria identità attraverso mille bufere della storia, mille invasioni e conquiste, mille e mille violenze, dalle invasioni di Goti, Unni e Avari in poi.
La pagina che abbiamo scelto di presentare oggi è una riflessione sul concetto di patria.
Ci sembra che sia una riflessione quanto mai opportuna, dopo che abbiamo visto - con la dissoluzione della Jugoslavia, per esempio, negli anni Novanta del secolo appena concluso - il riesplodere di nazionalismi feroci e di orrori a base di fanatismo etnico, che credevamo consegnati alla storia di un remoto passato.
Certo, alcune riflessioni di Puppo - specialmente espresse per bocca di Angelo, il suo ideale interlocutore - peccano un poco di ingenuità: noi che abbiamo visto la pulizia etnica in Bosnia e in Kosovo, sappiamo che non sempre è vero che i confini si spostano e i popoli rimangono; a volte, i popoli vengono fatti sparire anch'essi…. È toccato agli Armeni, nel 1915; ed è toccato ai Tutsi del Ruanda, nel 1994.
Però, quel che dice Puppo, allorché paragona una patria a una famiglia, e quando fa notare che nessuna famiglia può immaginare come una cosa 'naturale' la distruzione di un'altra famiglia, il suo ragionamento è talmente piano e convincente, che ci troviamo inevitabilmente portati alle sue stesse conclusioni: non sono le patrie a scatenare le guerre (col pretesto di volersi ingrandire: cosa assurda ed illogica), ma le amministrazioni.
Il lettore italiano farebbe bene a meditare anche le considerazioni di Puppo circa il rapporto fra patria e amministrazione. I politici di Roma hanno fatto molto male a sottovalutare la profonda insoddisfazione delle realtà locali, e specialmente di quelle periferiche (ma periferiche rispetto allo Stato nazione: ché il Friuli, ad esempio, è situato proprio al centro dei flussi commerciali e culturali fra il Nord e il Sud dell'Europa, fra l'Est e l'Ovest) nei confronti della gestione amministrativa dello Stato.
I Friulani, nella loro storia tribolata, hanno sperimentato parecchie amministrazioni straniere (e quella italiana, dal loro punto di vista, rientra fra esse): e il confronto fra quella attuale, recata dallo Stato-nazione che ha Roma per capitale, e le precedenti, è a dir poco imbarazzante per la prima. In pratica, l'amministrazione italiana è stata vissuta come la peggiore di tutte, nonostante che il suo arrivo, nel 1866, fosse stato accolto con simpatia - ma senza scene deliranti di entusiasmo - da parte della maggior parte dei Friulani. Il fatto è che essi, uscendo dagli alti standard di circa mezzo secolo di amministrazione austriaca (e, prima, francese), avevano delle aspettative che, poi, sono rimaste amaramente deluse.
Ci sarà bene una ragione se, in un paese del Goriziano, si festeggia ancora oggi, con una sagra annuale, l'onomastico dell'imperatore Francesco Giuseppe; a meno di pensare che i Friulani sono un popolo di pazzi furiosi e di ingrati della peggiore specie. Ecco, il pericolo è proprio questo: che il pubblico italiano, poco o nulla informato sulle realtà locali, sia portato a formulare giudizi superficiali, magari dettati dal pregiudizio ideologico.
Come! Ricordare con gratitudine l'odiato imperatore austriaco, il carnefice dei martiri di Belfiore e di Guglielmo Oberdan! Ma che razza di gente sono codesti Friulani? Questo è ciò che può pensare il cittadino medio di altre parti d'Italia. E allora bisognerà spiegare, a questo cittadino medio, che il Friuli, sotto l'Austria, godeva di una burocrazia e di un sistema scolastico che erano di gran lunga i migliori d'Italia, quali non si sono mai più visti al di qua delle Alpi; e che, abituato a questi standard, si aspettava qualche cosa di meglio dall'arrivo dell'amministrazione italiana, e non qualche cosa di peggio.
Certo, i Friulani erano un popolo povero.
Ma la grande emigrazione, che si li ha dispersi ai quattro angoli del mondo (a costruire la Transiberiana, per esempio; o a colonizzare l'estremo sud dell'Argentina) è incominciata proprio con l'unione all'Italia; e lo Stato italiano, per dare ad essa una risposta, non ha saputo fare niente di niente, per tre quarti di secolo; tanto che essa era ancora l'unica soluzione per moltissime famiglie contadine, nel 1945, dopo il disastro della seconda guerra mondiale…
Se sono usciti dalla miseria e se non sono più un popolo di emigranti, i Friulani lo devono quasi esclusivamente al loro spirito di sacrificio, alla loro sobrietà, al loro senso del lavoro e della famiglia; l'Italia, per essi, non ha fatto un gran che.
Ecco, su questa insoddisfazione delle periferie dello Stato la classe politica italiana, e buona parte della classe degli intellettuali, farebbero bene a informarsi un po' meglio e a fare qualche riflessione e, magari, qualche mea culpa. Il fenomeno della Lega si spiega in gran parte con questa chiusura, con questa insensibilità, con questa arroganza da parte della classe politica romana.
I politici di Roma (in larga misura esponenti della classe dirigente meridionale) e la classe degli intellettuali, a loro subalterna, non hanno idea di sedere su di un vulcano, anzi, su una catena di vulcani grandi e piccoli; non si rendono conto che la pazienza di alcune realtà locali, come il Friuli, non può durare in eterno. Non si rendono conto di essere stati posti sulla bilancia, e giudicati scarsi. E non capiscono che non ci saranno più prove d'appello, quando il principio dell'autodeterminazione dovesse affermarsi anche all'interno degli Stati e al di là delle barriere artificiali che ne delimitano i confini.
Non capiscono che la fedeltà dei popoli minoritari bisogna conquistarsela e meritarsela, e non porla come scontata e come dovuta, in nome di un principio nazionale adoperato come una coperta per nascondere inefficienze, sprechi, corruzione e prepotenza.
Ma lasciamo parlare Riedo Puppo sul rapporto fra patria, amministrazione e conflittualità tra gli Stati.
Scriveva Riedo Puppo nel suo libro «Magari ancje» (Udine, La vita cattolica Editrice, 1983, pp. 15-26:
«I FURLANS E LA PATRIE.
Finalmentri une question là che duc' a' son d'acordo e là che nol è propit nuje di contestâ ni reson di polemizâ. Che i furlans a' vuèlin ben a la patrie lu dìsin simpri duc' i talians: tant i omps civìi, che la trupe militâr, che lis autoritâz… duc'. "Baste cjalâ lis ueris!" a' dìsin. Parceche al pâr che la patrie 'e séi buine di fâsi cognossi, di fâsi volê ben e di fâsi siarvî nome cu lis ueris. Justeapont fâsi siarvî. E s'e je cussì, 'e je vere, alore, che i furlans a' son i plui granc' patreoz. Baste cjalâ i muarz ch'e àn lassât sun duc' i fronz dal mont, i monumenz incolmenâz di nons in duc' i borcs dal Friûl, lis cerimoniis che in Friûl si fàssin ancjmò di un contìnuo par comemorâ ueris, batàis e "càrichis legendaris". Ce Gjarmanie, ce Gjapon! Nissun nos bat. Il Friûl al è il paîs plui patreot. Al partìs, al scombat, al mûr. Cidìn.
I furlans no protèstin, no si ribèlin; no còpin i comandanz come ch'e àn fat chei de brigade "Catanzaro" che, pluitost di tornâ al front prime da l'ore che ur tocjave, si son ribelâz, e' àn scombatût une dì e une gnot a sun di mitrâe cuintri i uficiâi, i carbinîrs, la cavalerie e lis autoblindo prin di rìndisi e di séi decimâz (31 muarz te ribelion di Sante Marie La Lungje - Viôt: "Storia Illustrata" n. 279, febbraio 1981).
No, i furlans no si son mai ribelâz; massacrâz in uere ma mai decimâz. Duncje, patreoz. Forsi i plui patreoz di duc' - a' dìsin i talians.
Bon. Ma nô, cemût la pensìno? Ce vìno di dî su la storie dal patriotìsim?
'O podìn dî nome ch'je vere. Anzit, 'o zontin che i furlans a' son, cence forsi, i plui patreoz di duc'. Ma nò parvìe che si fàsin copâ in uere come agnêi o parceche no si ribèlin come chei di Catanzaro. Nò. La uere no jentre cul patriotìsim.
"E alore, la patrie?" si ur domande ai vecios furlans.
"La patrie 'e je un'altre robe; la patrie 'e je une famèe e no comande di copâ. Al sares come se une famèe 'e comandàs di copâ un'altre: chel nol sares amôr di famèe, al sarès delìt, strage. Chei ch'a ordènin di lâ a copâ altre int no san ce ch'e je la patrie."
Cussì a' rispuìndin i vecjos»
Che il lettore non friulano non si spaventi.
Anche senza l'aiuto di un vocabolario friulano-italiano (ad esempio, l'ottimo Pirona), con un po' di pazienza e d'immaginazione, provi a tradurre da sé questa pagina di prosa in lingua friulana: è meno difficile di quanto può sembrare sul momento, almeno a livello scritto.
Forniamo un esempio di tradizione di questo primo brano, per incoraggiare la lettura degli articoli successivi, che ci proponiamo di presentare al pubblico.
Ma si tenga presente che tradurre è un po' tradire; e che, per capire un popolo, bisogna leggerne gli scrittori nella lingua originale: solo così è dato affacciarsi sul segreto della sua anima.
«Finalmente una questione sulla quale sono tutti d'accordo e su cui non vi è proprio nulla da contestare Né ragioni di far polemiche. Che i friulani vogliano bene alla patria lo dicono sempre tutti gli italiani: sia i civili, sia gli esponenti dell'esercito, che le autorità… tutti. "Basta guardare le guerre!", dicono. Perché sembra che la patria sia capace di farsi conoscere, di farsi voler bene e di farsi servire soltanto con le guerre. Appunto, farsi servire. E se è così, allora è proprio vero che i friulani sono i più grandi patrioti. Basta guardare i morti che hanno lasciato su tutti i fronti del mondo, i monumenti incolonnati di nomi in tutti i paesi del Friuli, le cerimonie che si tengono ancora in Friuli, in continuazione, per commemorare guerre, battaglie e "cariche leggendarie". Altro che Germania, altro che Giappone! Nessuno ci batte. Il Friuli è il paese più patriottico. Lui parte, combatte, muore. In silenzio.
I friulani non protestano, non si ribellano; non ammazzano i comandanti come hanno fatto quelli della brigata "Catanzaro" i quali, piuttosto di tornare al fronte prima dell'ora che gli toccava, si son ribellati e hanno combattuto un giorno e una notte a suon di mitraglia contro gli ufficiali, i carabinieri, la cavalleria e gli autoblindo, prima di arrendersi e di essere decimati (31 morti nella ribellione di Santa Maria La Longa, ecc.).
No, i friulani non si sono mai ribellati; massacrati in guerra ma mai decimati. Dunque, patrioti. Forse i più patrioti di tutti - dicono gli italiani.
Bene. Ma noi, come la pensiamo? Cosa abbiamo da dore sulla faccenda del patriottismo?
Possiamo dire soltanto che è vera. Anzi, aggiungiamo che i friulani sono, senza forse, i più patrioti di tutti. Ma non per il fatto che si fanno ammazzare in guerra come agnelli o perché non si ribellano come quelli di Catanzaro. No. La guerra non c'entra col patriottismo.
"E allora, la patria?", se si domanda ai vecchi friulani.
"La patria è un'altra cosa; la patria è una famiglia e non ordina di uccidere. Sarebbe come se una famiglia ordinasse di ammazzarne un'altra: quello non sarebbe amor di famiglia, sarebbe delitto, strage. Quelli che ordinano di andare a uccidere altra gente non sanno che cos'è la patria."
Così rispondono i vecchi.»
Continua il Puppo:
«"E alore" si ur dîs "spiegàit vualtris ce ch'e je la patrie!".
Jo 'o ài fate cheste domande a Agnul Padronâl e Agnul mi à rispondût cussì: "La patrie 'e je la mê tiare, i miei paîs, la mê int e la storie de mê int, la mê lenghe, il gno popul. No à cunfins parceche no po ne slargjâsi ne scurtâsi: come une famèe. Mi ven da ridi - al dîs Agnul - fin chealtre dì Stupizze, Cjaurêt, Plez, Tulmin, Cjscjeldobre a' jerin la stesse patrie; vuê a varessin di jèssi dôs patriis diferentis. Ma ìsal pussibil! Se a Stupizze e a Cjaurêt 'e je simpri la stesse int, e se fin ìar a' vèvin la stesse patrie, cemût puèdino vêle piardude? Parcè? Cemût? A' scugnin vêle ancjmò.
"Ma Agnul" 'o disìn nô "il cunfin al è spostât. No vêso savût?"
"E ce jèntrial il cunfin!" al rispuint Agnul. "Di quant in ca si puedial divìdi lis patriis cun tune stangje! I cunfins a' sèrvin par divìdi lis ministrazions., venastáj i stâz, no lis patriis."
"Ma alore, Agnul, quant che si puarte indenant o indaûr un cunfin, no si ingramdìssial la patrie?".
"Nancje par idèis. Si ingrandìs la ministrazion. Come quant che si compre un cjamp: si ingrandìs la proprietât no la famèe".
"Ma alore nô, 'o vin fatis lis ueris pe ministrazion, Agnul?".
"Ve' mo, ch'o sês rivâz. Propit cussì. Lis ueris si fàsin pe ministrazion, no pe patrie. Dutis lis patriis a' vivin cence ueris e a' durin miârs di ànis, fin ch'al dure il popul ch'al à fate famèe insieme" al rispuint Agnul. "Cjalàit il Friûl: chi 'e à comandât la ministrazion romane, chê todescje, chê veneziane, chê francese, chê austriache e cumò 'e comande chê taliane ma la Patrie dal Friûl 'e je simpri restade, parceche patrie al ûl dî popul, famèe.
"E lis ministrazions, Agnul?".
"Urcje vie, a' son come i siôrs di une volte ch'a lotavin, anzit a' fasevin lotâ, la int par vê unevore di colònos sot di lôr, un plui di chel altri. E come che i siôrs no jerin duc' compains, cussì nancje lis ministrazions no son dutis compagnis: a 'nd' è di miôr e di piês. E no stàit domandâmi cumò quuale ch'e je la piês".
"Agnul, pal avignî ce vìno di augurâsi?.
"Che dutis lis patriis a' véin la libertât di vivi e di resurî. Dutis. E che lis ministrazions a' véin di imparâ a rispetâlis e a tignîlis cont come valôrs. E ch'a no véin di spaurîsi se il plevan di Tribil al semèe zìmul spudât di pape Wojtyla e se, invezzit, il senadôr Bonifacio al semèe zìmul spudât dal seicco dal Yemen. Nol è nuje di strani: si trate di dôs patriis diferentis sot di une sole ministrazion: chê di Bonifacio. E ch'a pènsin ancje cheste: se i furlans a' son tant fedêi a une ministrazion che… come mertâ… ben lassìn là, ce meracui podaressino fâ, invezzit, s'a fossin judâz a jéssi fedêi a la Patrie!".»
«"E allora, spiegatelo voi che cos'è la patria!".
Io ho rivolto questa domanda ad Angelo Padronal e Angelo mi ha risposto così: "La patria è la mia terra, i miei paesi, la mia gente e la storia della mia gente, la mia lingua, il mio popolo. Non ha confini perché non può né ingrandirsi né rimpicciolirsi: come una famiglia. Mi vien da ridere - dice Angelo - a sentire che una patria si allarga o si restringe; una patria non è una bretella. Pensare a Stupizza - va avanti Angelo -: fino all'altro giorno Stupizza, Caporetto, Plezzo, Tolmino, Castel Dobra erano la stessa patria; oggi devono essere due patrie differenti. Ma è mai possibile! Se a Stupizza e a Caporetto c'è sempre la stessa gente, e se fino a ieri avevano la stessa patria, come possono averla perduta? Perché? In che modo? Devono averla anche adesso.
"Ma Angelo", gli diciamo noi, "il confine si è spostato. Non l'avete saputo?".
"E che c'entra il confine!", risponde Angelo". "Di quando in qua si può dividere le patrie con una stanga di confine! I confini servono per dividere le amministrazioni, riguardano gli stati, non le patrie.
"Ma allora, Angelo, quando si porta un confine avanti o indietro, non si ingrandisce la patria?".
"Nemmeno per idea. Si ingrandisce l'amministrazione. Come quando si compra un campo: si ingrandisce la proprietà, non la famiglia".
"Ma allora, noi abbiamo fatto le guerre per l'amministrazione, Angelo?".
"Vedi, che ci siamo arrivai. Proprio così. Le guerre si fanno per le amministrazioni, non per la patria. Tutte le patrie vivono senza guerre e durano migliaia di anni, finché dura il popolo che ha fatto famiglia insieme", risponde Angelo. Guardate il Friuli: chi ha comandato una amministrazione romana, chi tedesca, chi veneziana, chi francese, chi austriaca e ora comanda quella italiana ma la patria del Friuli è sempre rimasta, perché patria vuol dire popolo, famiglia.
"E le amministrazioni, Angelo?".
"Sono come i signori di una volta che lottavano, anzi facevano combattere la gente per avere un molti coloni sotto di loro, uno più dell'altro. E come i signori non erano tutti uguali, così neanche le amministrazioni sono tutte uguali: ce ne sono di migliori e di peggiori. E adesso non starmi a domandare qual è la peggiore.
"Angelo, per il futuro che cosa dobbiamo augurarci?".
"Che tutte le patrie abbiano la libertà di vivere di risorgere. Tutte. E che le amministrazioni imparino a rispettarle e a considerarle come dei valori. E che non si spaventino se il parroco di Tribil sembra preciso sputato papa Wojtyla e se, invece, il senatore Bonifacio sembra preciso sputato lo sceicco dello Yemen. Non c'è niente di strano: si tratta di due patrie diverse sotto un'unica amministrazione: quella di Bonifacio. E che pensino anche questo: se i friulani sono così fedeli a una amministrazione che… quanto a merito… meglio lasciar perdere, quali miracoli potrebbero fare, invece, se fossero aiutati a essere fedeli alla Patria!".
Già: la patria!
Ma quando un Friulano dice: «la patria», non pensa affatto all'Italia, ma alla sua patria: il Friuli; che è fatta di terra, paesi, gente, anima e tradizione.
Lo Stato nazione è, per la stragrande maggioranza degli Europei, una patria artificiale, così come la sua lingua è una lingua imposta. Ciò vale in primo luogo per le «piccole patrie» negate, come il Friuli, la Sardegna, la Corsica, la Bretagna, i Paesi Baschi; ma anche, in secondo luogo, per tutte le regioni che non sono state interamente omologate al modello sociale e culturale delle capitali dei rispettivi Stati.
La cultura di sinistra ha sempre visto una minaccia di rigurgiti reazionari in questa legittima e sacrosanta aspirazione identitaria delle piccole patrie; e, dalla Vandea in poi, ha sempre cercato di piegarle e sterminarle, se necessario, col ferro e col fuoco. Ha anche inventato, di recente, un termine che vorrebbe essere sociologicamente neutro, mentre nel sinistrese politicamente corretto equivale a una parolaccia, una parola impronunciabile: nazionalitarismo. Invece di riflettere se sia stato giusto che le cultura locali siano sempre state soffocate nell'abbraccio soffocante degli Stati nazionali, la cultura di sinistra le ha sempre demonizzate, presentandole come antimoderne (il Dio della sinistra: la modernità) e, quindi, come intrinsecamente negative.
La cultura politica della destra non si è certo comportata meglio. In nome dello Stato nazione assurto a valore supremo, essa interpreta le culture locali come elementi di disgregazione e perciò di indebolimento della compagine nazionale; pertanto, come potenziali 'quinte colonne' del nemico. Non voleva darsi agli Inglesi, la Corsica di fine Settecento, in odio alla Francia? E la Sicilia del secondo dopoguerra, non fu tentata di offrirsi agli Stati Uniti, per staccarsi dall'Italia?
La verità è che tanto la cultura politica di sinistra, quanto quella di destra - per ragioni opposte e speculari - temono e diffidano delle culture locali, delle realtà regionali, delle piccole patrie inglobate negli Stati nazionali. La cultura di sinistra teme che le culture locali possano mettersi al servizio della reazione, dei preti, dei capitalisti; la cultura di destra teme che esse possano minare la forza dello Stato e 'tradire' la cieca obbedienza verso l'unica istanza superiore ammessa e ammissibile: lo Stato centralizzato.
La logica sopraffattrice degli Stati nazionali ha insegnato alle piccole patrie che solo costituendosi in Stati possono preservare la loro specificità: è quello che abbiamo visto in Bosnia, in Kosovo, in Cecenia, in Abkhazia. Né basta che si costituiscano in Stati: bisogna pure che espellano le minoranze, per mettersi al sicuro da ritorni minacciosi degli Stati nazionali dai quali si sono staccate.
Il modello nazionalitario si diffonde come un perverso effetto domino; la balcanizzazione del mondo dilaga. Perfino la Groenlandia sogna l'indipendenza dalla Danimarca (con grande appetito di alcuni Stati, fra i quali la Germania, che già sognano di mettere le mani sulle sue immense ricchezze naturali).
Sapranno, le piccole patrie calpestate, negate e pessimamente amministrate, resistere alla tentazione dell'eterno richiamo del nazionalismo?