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Una pagina al giorno: una rosa fra i muri dello Spielberg, di Silvio Pellico

di Francesco Lamendola - 29/11/2008


Dai capitoli 86-87 de «Le mie prigioni» di Silvio Pellico (Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1968259-263):

«Intanto, già prima dell'uscita di Solera e Fortini, era venuto al mio povero Maroncelli un tumore al ginocchio sinistro. In principio il dolore era mite, e lo costringeva soltanto a zoppicare. Poi stentava a trascinare i ferri, e di rado usciva a passeggio. Un mattino d'autunno, gli piacque di uscir meco per respirare un poco d'aria: v'era già neve; ed in un fatale momento, ch'io nol sosteneva, inciampò e cadde. La percossa fece immantinente divenire acuto il dolore del ginocchio. Lo portammo sul suo letto; ei non era più in grado di reggersi. Quando il medico lo vide, si decise finalmente a fargli levare i ferri. Il tumore peggiorò di giorno in giorno, e divenne enorme e sempre più doloroso. Tali erano i martirii del povero infermo, che non potea aver requie né in letto, né fuor di letto.
Quando gli era necessità muoversi, alzarsi, porsi a giacere, io dovea prendere colla maggior delicatezza possibile la gamba malata, e trasportarla lentissimamente nella guida che occorreva. Talvolta, per fare il più piccolo passaggio da una posizione all'altra, ci volevano quarti d'ora di spasimo.
Sanguisughe, fontanelle, pietre caustiche, fomenti or asciutti, or umidi, tutto fu tentato dal medico. Erasno accrescimenti di strazio, e niente più. Dopo i bruciamenti colle pietre si formava la suppurazione. Quel tumore era tutto piaghe; ma non mai diminuiva, non mai lo sfogo delle piaghe recava alcun lenimento al dolore.
Maroncelli era mille volte più infelice di me; nondimeno, oh quanto io pativa per lui! Le cure d'infermiere mi erano dolci, perché usate a sì degno amico. Ma vederlo così deperire, fra sì lunghi atroci tormenti, e non potergli recar salute! E presagire che quel ginocchio non sarebbe mai più risanato! E scorgere che l'infermo tenea più verisimile la morte che la guarigione! E doverlo continuamente ammirare pel suo coraggio e per la sua serenità! Ah, ciò m'angosciava in modo indicibile! In quel deplorabile stato, ei poetava ancora, ei cantava, ei discorreva; ei tutto facea per illudermi, per nascondermi una parte de' suoi mali. Non potea più digerire, né dormire; dimagrava spaventosamente; andava frequenemente in deliquio; e tuttavia, in alcuni istanti raccoglieva la sua vitalità e faceva animo a me.
Ciò ch'egli patì per nove lunghi mesi non è descrivibile. Finalmente fu conceduto che si tenesse un consulto. Venne il protomedico, approvò tutto quello che il medico avea tentato, e senza pronunciare la sua opinione sulla infermità e su ciò che restasse a fare, se n'andò.
Un momento appresso, viene il sottintendente, e dice a Maroncelli: "Il protomedico non s'è avventurato di spiegarsi qui in sua presenza; temeva ch'ella non avesse la forza di sentirsi annunziare una dura necessità. Io l'ho assicurato che a lei non manca il coraggio.
- Spero, disse Maroncellli, d'averne dato qualche prova, in soffrire senza urli questi strazi. Mi si proporrebbe ma?…
- Sì, signore, l'amputazione. Se non che il protomedico, vedendo un corpo così emunto, esita a consigliarla. In tanta debolezza, si sentirà ella capace di sostenere l'amputazione? Vuol ella esporsi al pericolo?…
- Di morire? E non morrei in breve egualmente, se non si mette termine a questo male?
- Dunque faremo subito relazione a Vienna d'ogni cosa, ed appena venuto il permesso d'amputarla…
- Che? Ci vuole un permesso?
- Sì, signore."
Di lì ad otto giorni, l'aspettato consentimento giunse.
Il malato fu portato in una stanza più grande; ei dimandò ch'io lo seguissi.
"Potrei spirare sotto l'operazione, - diss'egli; - che io mi trovi almeno tra le braccia dell'amico."
La mia compagnia gli fu conceduta.
L'abate Wrba, nostro confessore (succeduto a Paulowich), venne ad amministrare i sacramenti all'infelice. Adempiuto questo atto di religione, aspettavamo i chirurghi, e non comparivano. Maroncelli si mise ancora a cantare un inno.
I chirurghi vennero alfine: erano due. Uno, quello ordinario della casa, cioè il nostro barbiere, ed egli, quando occorrevano operazioni, aveva il diritto di farle di sua mano, e non voleva cederne l'onore ad altri. L'altro erra un giovane chirurgo, allievo della scuola di Vienna, e già godente fama di molta abilità. Questi, mandato dal governatore per assistere all'operazione e dirigerla, avrebbe voluto farla egli stesso, ma gli convenne contentarsi di vegliare all'esecuzione.
Il malato fu seduto sulla sponda del letto colle gambe giù: io lo tenea fra le mie braccia. Al di sopra del ginocchio, dove la coscia cominciava ad esser sana, fu stretto un legaccio, segno del giro che dovea fare il coltello. Il vecchio chirurgo tagliò, tutto intorno, la profondità di un dito; poi tirò in su la pelle tagliata, e continuò il taglio sui muscoli scorticati.. Il sangue fluiva a torrenti dalle arterie, ma queste vennero tosto legate con filo di seta. Per ultimo si segò l'osso.
Maroncelli non mise un grido. Quando vide che gli portavano via la gamba tagliata, le diede un'occhiata di compassione, poi, voltosi al chirurgo operatore, gli disse:
"Ella m'ha liberato d'un nemico, e non ho modo di rimunerarnela."
V'era in un bicchiere sopra la finestra una rosa.
"Ti prego di portarmi quella rosa", mi disse.
Gliela portai. Ed ei l'offerse al vecchio chirurgo, dicendogli: "Non ho altro a presentarle in testimonianza della mia gratitudine."
Quegli prese la rosa e pianse.»

Non è facile dire per quale motivo un libro come «Le mie prigioni», che, quando apparve (nel 1832), fu giudicato dal cancelliere austriaco Metternich più dannoso all'Austria di una battaglia perduta, e che ancora mezzo secolo fa era letto e commentato fin nelle scuole elementari, sia caduto oggi in una autentica dimenticanza.
Le persone di una certa età lo ricordano bene, perché la maestra ne ha parlato loro; ma la maggior parte dei giovani lo ignorano. Eppure, crediamo che l'episodio della rosa di Piero Maroncelli sia già di per sé sufficiente a mostrare che, fuor della polemica politica contingente, si tratta di un libro di memorie di prim'ordine, sobrio e dignitoso quanto può esserlo stato un libro di quel genere in pieno Romanticismo e in pieno fervore risorgimentale.
Crediamo che la ragione di questo immeritato oblio non sia tanto di ordine stilistico (se così fosse, una sorte analoga avrebbe dovuto toccare a «I promessi sposi» di Manzoni e, magari, anche alle «Operette morali» di Leopardi, per non parlare, poi, delle «Ultime lettere di Jacopo Ortis» di Ugo Foscolo. Lo stile, del resto - lo ripetiamo - non è più sforzato o ridondante di molte opere in prosa di quel periodo, e, semmai, decisamente più scarno e cronachistico - e, quindi, più «moderno» - della maggior parte di esse.
No: la vera ragione è, probabilmente, la stessa che - allora - suscitò perplessità e ripulsa fra una larga parte del pubblico: quella politica. Ai sostenitori dell'Austria esso parve un libro spietatamente accusatore, pur dietro l'apparente impassibilità e la mancanza di una esplicita condanna di quel governo; ai liberali, viceversa, esso parve insopportabilmente fiacco, spento, rinunciatario e, soprattutto, imperdonabilmente cattolico.
Sappiamo tutti che il rapporto fra liberalismo e cattolicesimo fu, durante tutto il  Risorgimento e anche dopo l'Unità, complesso e difficile; e sappiamo tutti che quella di Alessandro Manzoni fu una delle poche, felici eccezioni.
Di norma, essere buoni cattolici significava essere difensori dell'ordine costituito e quindi, fra le altre cose, sudditi devoti dell'imperatore austriaco; così come essere liberali significava, come minimo, diffidare della Chiesa, se non anche annoverarla senza tanti complimenti fra i nemici da abbattere.
Di mezzo c'era la spinosissima questione del potere temporale della Chiesa; e, a dire il vero, non soltanto quella.
Sia come sia, il libro spiacque alle due opposte fazioni dei liberali e dei reazionari, per ragioni essenzialmente politiche; e non poteva essere diversamente.
È buffo (ma anche un po' triste) pensare che, a distanza di centottant'anni, le cose non sono cambiate poi molto.
Oggi che non solo le vicende del Risorgimento e dell'unità d'Italia, ma anche quelle che condussero, nel 1918, alla dissoluzione dell'Austria-Ungheria, ci appaiono in una più oggettiva visuale storica, non siamo più tanto convinti che la scomparsa del grande impero danubiano sia stata un bene per l'Europa; né che il nazionalismo - principio che spingeva i Carbonari a sfidare il duro carcere dello Spielberg, presso Brno, in Moravia - sia stato poi tanto positivo, visto ciò che ha prodotto in Bosnia, in Kosovo, in Cecenia, in Abkhazia, in Tibet, e visto ciò che rischia di produrre ancora, nel mondo, durante i prossimi anni. Di conseguenza, non siamo più così monoliticamente sicuri che Pellico e Maroncelli - al di là dei loro nobilissimi ideali e del loro spirito di totale abnegazione - stessero dalla parte giusta della storia (è un dubbio che ha gettato un'ombra anche su  figure assai più grandi del Risorgimento, a cominciare da Garibaldi).
Una parte degli storici odierni inclina ormai a pensare che quel vecchio impero plurinazionale rappresentava un principio - quello dinastico - che avrebbe potuto mettere l'Europa al riparo dal richiamo distruttivo dei nazionalismi, e scongiurare la distruzione politica del nostro continente, provocata da due guerre mondiali.
E non manca neppure chi, essendo - come noi - nato e vissuto in una ex provincia di quell'impero plurisecolare, non può non aver provato una nostalgia per quella efficientissima amministrazione, scrupolosamente onesta, e per quell'ottimo servizio scolastico: due istituzioni a paragone delle quali ciò che esisteva negli altri Stati d'Italia era semplicemente penoso.
Lo stesso Alcide De Gasperi, quando volle iscriversi all'università e dovette scegliere fra l'Austria e l'Italia, a dispetto dei propri sentimenti filo-italiani, dal suo Trentino si portò a Vienna e non a Milano o Firenze, per il semplice fatto che i costi di iscrizione alle università italiane erano semplicemente proibitivi.
Del resto, può essere un caso che proprio quelle province le quali, fino a meno di un secolo fa, facevano parte dell'Impero asburgico, come quelle di Trento, Trieste e Gorizia, possiedano oggi una delle migliori amministrazioni e, in fondo, una delle migliori classi dirigenti, a paragone di quelle che affliggono il resto d'Italia?
Da quando l'Austria se ne è andata, non si è mai più vista, al di qua delle Alpi, una amministrazione pubblica altrettanto scrupolosa ed efficiente: questo è un fatto e, per quanto possa riuscire sgradito al nostro orgoglio nazionale, pure dobbiamo onestamente prenderne atto. Saremo anche un popolo di eroi, di santi, di artisti e di navigatori, ma Dio non ci ha dato il genio dell'amministrazione e, specialmente, quello della buona amministrazione. C'è qualcuno che riesca a immaginarsi una vicenda come quella dei rifiuti di Napoli verificarsi dalle parti di Klagenfurt, Monaco, Innsbruck o Salisburgo? Se si vuol essere onesto, bisogna ammettere di no.
Per cui, la causa per la quale si spesero uomini come Pellico e il pathos da cui è percorso il libro «Le mie prigioni», si sono un tantino appannati e hanno lasciato il posto ad altre considerazioni, più spassionate e obiettive, forse, in sede di giudizio storico.
Questo, da un lato.
Dall'altro lato, c'è il vivo sentimento religioso, che attraversa quel libro dalla prima all'ultima pagina e che ne è, in fondo, non solo il filo conduttore, ma anche l'autentico protagonista. Ed è noto che il Pellico si decise a pubblicarlo su espresso parere del suo consigliere spirituale, un sacerdote di Torino che lo seguì dopo il rientro dallo Spielberg.
È per questo che il libro ci si presenta come una galleria di personaggi amabilmente presentati, senza mai un pensiero amaro, ma con il massimo della simpatia umana e della gratitudine: i compagni di sventura, il famoso carceriere Schiller - vecchio burbero dal cuore d'oro -, la giovane e romantica Zanze, che, nel carcere dei Piombi di Venezia, viene dal Pellico a farsi consolare delle sue pene d'amore, ma gli porta anche una ventata di grazia e di freschezza femminile.
«Le mie prigioni» è il libro di un credente, che l'esperienza di dieci anni di carcere duro, dal 1820 al 1830  (inizialmente era stato condannato a morte, poi a quindici anni) non ha allontanato dalla fede, ma, al contrario, ve lo ha rafforzato più che mai; e il suo libro non vuol essere una testimonianza politica, ma umana e cristiana. Ed è questo aspetto che gli ex compagni carbonari di Silvio Pellico e, in genere, i patrioti d'ispirazione liberale - per non parlare dei democratici - non poterono né vollero perdonargli.
Il libro venne da essi accolto, più o meno, come potrebbe esserlo, oggi, una dissociazione in carcere, o all'uscita dal carcere, di un membro delle «Brigate Rosse», da parte dei suoi ex compagni rimasti «duri e puri»: con fastidio, incredulità e un malcelato disprezzo.
Non già che Silvio Pellico avesse rinnegato le proprie convinzioni patriottiche; ma aveva rinnegato i mezzi violenti e, in qualche modo, aveva preso congedo dall'idea di un regno della giustizia da instaurare in terra, mediante la lotta politica. Ecco, a questo non credeva più. Non era quindi, per usare il linguaggio dell'odierno politichese, un «pentito», nel senso di uno che abbia abiurato; però aveva fatto qualche cosa, se possibile, di ancor più grave agli occhi dei liberali e dei rivoluzionari: aveva negato legittimità all'idea di poter instaurare in terra il regno del bene, con le armi della lotta politica e militare.
Certo, aveva pure - diciamo così - delle attenuanti: dallo Spielberg era uscito fisicamente spezzato; ma chi lo conosceva bene, sapeva che non era stato ciò a indurlo a modificare le sue precedenti convinzioni.
No, la verità era un'altra: e cioè che Pellico era un uomo onesto e generoso, ma influenzabile: era stato liberale in casa del conte Porro, liberale convinto; divenne poi conservatore in casa dei marchesi di Barolo, conservatori e ferventi cattolici. Se avesse conosciuto prima questi ultimi, forse non avrebbe simpatizzato per la Carboneria, né sarebbe finito allo Spielberg.
Il suo patriottismo era sincero, ma la sua indole era più contemplativa che militante; più introversa che aperta; più pessimista che fiduciosa di poter cambiare il mondo in meglio. In fondo, era un moderato che non sperava più di veder realizzato in terra il regno della giustizia.

Ha osservato in proposito Angelo Romanò (in S. Pellico, «Scritti scelti», Torino, a cura di A. Romanò, Loescher Editore, 1960, pp. 10-11):

«I più accaniti contro di lui furono i liberali, che scorgevano nella sua conversione al cattolicesimo , nelle sue continue esortazioni alla mansuetudine, nella sua condanna dell'azione politica violenta e rivoluzionaria, nel suo sostanziale legittimismo i segni di una rinuncia che assomigliava al tradimento.
Questi attacchi addoloravano il Pellico: ma non c'è dubbio che sia "Le mie prigioni" sia le opere successive, e in particolare il trattatello "Doveri degli uomini" scritto subito dopo utilizzando anche appunti presi in carcere, contenevano un'ideologia in netto contrasto con quella dei patrioti liberali. Nel capitolo IX dei "Doveri", che tratta del "Vero patriotta", si legge infatti: "S'egli è cittadino privato, l'onore e la prosperità del principe e del popolo sono egualmente suo vivissimo desiderio, e nulla che vi si opponga opera egli, ma anzi tutto opera ciò che può, a fine di contribuirvi. Ei sa che in tutte le società vi sono abusi, e brama che si vadano correggendo, ma abborre dal furore di chi vorrebbe correggerli con rapine e vendette; perocché di tutti gli abusi questi sono i più temibili e funesti. Ei non invoca, né suscita dissensioni civili; egli è anzi coll'esempio e colle parole moderatore, per quanto può, degli esagerati, e fautore d'indulgenza e di pace…".
Sopra concetti di questo tipo, in cui è dichiarata la volontà di risolvere nell'interiorità religiosa dell'individuo i contrasti e gli squilibri della realtà storica e sociale, si fonda la concezione di vita che impronta gli ultimi due decenni della sua esistenza e dalla quale è condizionato d'ora in poi il suo comportamento intellettuale e pratico.
Ridotta, dopo la pubblicazione dei "Doveri" (1834) e la composizione di alcune nuove tragedie («Gismonda da Mendrisio», «Tommaso Moro», «Corradino») male accolte alla loro rappresentazione, l'attività letteraria, il Pellico , divenuto nel frattempo segretario e bibliotecario dei marchesi di Barolo, si dedica all'amministrazione degli istituti benefici, sale d'asilo, ricoveri, che lo zelo e la pietà della marchesa Giulia avevano fondato e mantenevano. Vandeana d'origine, la marchesa avversava, nel ricordo della rivoluzione francese, le nuove idee: ciò non impedì al Pellico di stabilire, con lei e col marito, rapporti di stretta familiarità e, dopo la morte della madre e del padre (avvenuta l'una nel 1837 e l'altra nell'anno successivo), di andare a vivere nel loro palazzo, dove rimase anche dopo la morte del marchese.
Questa sistemazione mete in luce una singolare coincidenza: il giovane Pellico aveva vissuto in casa di un nobile liberale, il conte Porro, ed era stato con lui liberale e cospiratore; il Pellico anziano vive in casa di nobili pii e conservatori, ed è con loro pio e conservatore. Se ne può dedurre qualche osservazione sul debole temperamento del Pellico, sulla sua propensione a subire e influenze dell'ambiente, sulla sostanziale superficialità delle sue opinioni, sulla sua incapacità di elaborare in proprio una coerente concezione culturale.»

Ad ogni modo, la pagina de «Le mie prigioni» che descrive l'amputazione della gamba dell'amico Piero Maroncelli è una gran pagina: sobria ed eloquente, come può esserlo un documento umano ridotto all'essenziale.
Quell'uomo che guarda con compassione la propria gamba amputata mentre la portano via, e che offre al chirurgo che l'ha operato - senza anestesia! - una rosa trovata lì per caso, con parole tanto semplici quanto toccanti, ci resta impresso nel fondo dell'animo.
E poco importa se il Maroncelli era poi, secondo gli storici, un uomo incredibilmente superficiale e vanesio: il Maroncelli che vive in questa pagina di Silvio Pellico è un grande, un forte, che vivrà nella nostra memoria fino a che vivremo noi, che l'abbiamo letta.