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Anche i banchieri sono figli di... Dio

di Nicola Porro - 29/11/2008

 

Questo editoriale di Porro, tratto dal Il Giornale, sebbene da un punto di vista liberista, richiama i nostri grandi banchieri nazionali ad una minore ipocrisia, non essendo precisamente il momento storico adeguato per dare lezioni di moralità, dopo la crisi di credibilità (e non solo di credibilità) che li ha travolti.

Voler passare a tutti i costi come mecenati o come caritatevoli Dame di San Vincenzo, al cospetto di un paese nel quale monta un malcontento generale per la fase di profonda recessione, non è precisamente quella che si può definire una buona idea. L’azzeramento del loro “capitale morale”, finito sotto il tacco dello “Stivale”, proprio come la fiducia dei risparmiatori, in seguito alle loro allegre scorribande borsistiche, dovrebbe spingere detti signori, non dico alla resipiscenza, ma almeno a mostrare più pudore; invece, si deve assistere allo spettacolo penoso, come sempre accade quando si vogliono celare delle responsabilità dirette, di un finto atteggiamento risentito col quale provare a parare i colpi di una situazione che loro stessi hanno contribuito a generare.

Ma i filantropi dell’asse bancario, in questa Italia soffocata dall’abbraccio mortale della finanza tentacolare che controlla la politica e che gode di una totale impunità giudiziaria, sentono scricchiolare il terreno sotto i piedi, tanto che il tradizionale aplomb e la riservatezza dietro alla quale spesso si sono arroccati, lascia il passo alla scompostezza delle dichiarazioni e alla crisi di nervi (Bazoli e Profumo docent). Un po’ di riconoscenza e che diamine! E’ vero che il re è nudo ma dopo tutto quello che ha fatto per il Paese si può anche far finta che i pizzi e i merletti siano ancora al loro posto. Ma qui sta il problema. Se le persone sono ormai con le pezze al culo i macramè altrui diventano intollerabili e sono percepiti come uno schiaffo alla condizione di miseria dei tanti.

Qualche giorno fa, il capo della “SanIntesa” Bazoli ha persino preso carta e penna, scrivendo una lettera al Sole 24 ore, per reagire agli attacchi “indiscriminati” ai quali sarebbe stato sottoposto per il caso Zalesky. Con quest’ultimo, il presidente dell’Intesa dice di non avere rapporti o quasi, a parte il fatto, del tutto trascurabile, ça va sans dire, che la sua Banca avrebbe concesso al franco-polacco-bresciano crediti per quasi 1,7 mld di euro. Bazoli afferma espressamente: ''Nella scelta e nella gestione di tutti i suoi investimenti l'ingegner Zaleski, come sanno tutti coloro che lo conoscono, ha sempre proceduto da solo, in total autonomia, decidendo sempre di testa sua. E, in ogni caso, senza alcun mio coinvolgimento''. Come no! E noi ci crediamo, così come crediamo agli Asini che volano e agli extraterrestri. Bazoli vorrebbe preservare per la sua banca un'immagine di purezza e di candore sociale, ma la realtà dei fatti (e quella dei sotterfugi scoperti) smentisce questa vocazione. Ciò che meriterebbero questi signori lo sappiamo bene ma loro hanno in mano il mondo mentre noi “nun semo un cazzo”.

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di N. Porro 

I nostri banchieri sono degli intoccabili. O meglio si considerano tali. Per la verità la prerogativa non è solo italiana: l’autoassoluzione globale dell’élite è piuttosto diffusa. Il dibattito, impigliato nella maglia grezza delle retribuzioni (alte) e della galera (eccessiva), rischia però di perdere di vista il bersaglio vero. A chi rispondono i nostri superbanchieri? Perché i loro errori non sono censurati? È possibile che la rete di protezione che hanno saputo tessere li preservi dai propri errori, sine die? Prendiamo, per non girarci intorno, due «idoli» del nostro sistema: Giovanni Bazoli e Alessandro Profumo. Nulla di più diverso nel loro stile di fare banca: un ruolo sociale e di sistema per il primo, il rispetto rigoroso e inflessibile del mercato per il secondo. I due hanno fatto di queste formule il loro grande vizio: si sono trovati incastrati nell’armatura ideologica da loro stessi confezionata a propria immagine e somiglianza. E oggi, impudentemente, fanno finta di nulla.
Partiamo da Giovanni, detto Nanni, Bazoli. Recentemente sul Sole 24 ore ha scritto: «La crisi bancaria ha evidenziato tutte le criticità e i rischi impliciti nell’affermarsi di una logica di business improntata alla sola massimizzazione dell’efficienza e del profitto». Poco prima in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico di una Università milanese diceva: «Ritengo che alle banche debba riconoscersi certamente natura di imprese, ma con caratteristiche speciali, e che spetti loro una responsabilità maggiore verso la società civile e la comunità di appartenenza: la responsabilità di fare crescere intorno a sé un’economia sostenibile». Bene. Cosa c’entra tutto ciò con i finanziamenti ottenuti dal finanziere franco-brescian-polacco Romain Zaleski? Perché la banca guidata da Bazoli ha prestato a questo signore 1,7 miliardi di euro? E circa 800 (la cifra esatta deve ancora essere confermata) li conferirà in questi giorni. Zaleski con questi quattrini non ha ovviamente assunto nessuno (il che, a noi mercatisti, non scandalizza), ma ha comprato pacchetti importanti di azioni in società quotate, tra cui quasi il 6% proprio di Intesa. Zaleski, in un’intervista di un paio di anni fa, diceva: «Ma perché voi giornalisti continuate a dire che i miei pacchetti azionari valgono 7 miliardi di euro? Oggi siamo a 11». A fronte dei quali i debiti con il sistema bancario erano circa 6. Oggi ovviamente il rapporto si è capovolto e di fatto il giardinetto di titoli del finanziere non copre gli attivi. Insomma, come si concilia il finanziamento di Zaleski con i principi sociali di mercato di una banca bazoliana? Non è forse questo un fallimento della missione che si è dato il banchiere? Banalmente questa è la domanda che oggi conviene porsi. È evidente che poi si possono aprire decine di altri fronti più tecnici: primo tra tutti il finanziamento così ingente ad un proprio socio. Ma in questa fase il problema è più filosofico, di principio, di rispetto degli insegnamenti che lo stesso professore bresciano continua a dare.
Non diversa, paradossalmente, è la condizione di Alessandro Profumo, peraltro accomunato a Bazoli dall’esposizione verso Zaleski per 1,8 miliardi. Profumo è stato a lungo considerato il banchiere del mercato. In tutti i modi ha cercato di rompere quell’intreccio da salotto buono del capitalismo in cui il vecchio Credito Italiano era immerso. Ha spiegato a mari e monti le virtù sane del mercato competitivo e dei possibili conflitti di interesse che generava la sua partecipazione in Mediobanca. Ha rotto i legami con la Rizzoli e ha preferito gli analisti finanziari ai salotti romani. Un paio di anni fa, plaudendo alla Finanziaria di Prodi e sostenendo che non avesse ceduto alle pressioni della sinistra estrema, scriveva: «Non dobbiamo perdere di vista l’urgenza primaria che è lo stop all’espansione del debito pubblico». Un paio di giorni prima dell’annuncio del recente aumento di capitale, in un’intervista al Tg1, ci ha detto che la sua banca era sana. Ha poi chiesto risorse al mercato ad un prezzo quasi doppio rispetto alle quotazioni di ieri. Insomma, con il suo metro, ha fallito. Con il rigido bilancino del mercato ha sbagliato: sottovalutando nella migliore delle ipotesi. E poi ricorrendo, come probabilmente avverrà nelle prossime settimane, all’intervento dello Stato a sostegno del proprio patrimonio.

Certo possiamo fare finta di nulla. E possiamo dire che la crisi è talmente grave che nulla era prevedibile. Ma signori banchieri, almeno, nel futuro risparmiateci le prediche. Se, come è probabile e nonostante tutto, continuerete a fare lo stesso mestiere per i prossimi anni.