Decadenza. Ecco un termine che da almeno tre secoli è stato espunto dal vocabolario ufficiale della cultura occidentale. Perché?
Perché i moderni, o comunque certa modernità, hanno ragionato e continuano a ragionare in termini di progresso. E in tutti i campi: si parla di progresso economico, progresso storico, progresso scientifico, progresso morale, eccetera. L'uomo, pur tra mille incertezze e difficoltà, avanzerebbe verso la realizzazione, come ha ben scritto Christopher Lasch, del "paradiso in terra".
Si tratta essenzialmente, sul piano ideologico, di una eredità illuministica. Che il "secolo breve", il XX, con i suoi orrori, non è riuscito a mettere in discussione. Sembra invece esserci riuscito, purtroppo, il nuovo secolo, il XXI, che appena iniziato, ha subito visto la distruzione delle Torri gemelle del World Trade Center di New York.
Sotto questo aspetto il libro di Marco Belpoliti, Crolli è un tentativo interessante, perché prendendo spunto dai fatti dell'11 Settembre, si confronta col tema della decadenza del mondo occidentale, facendola finita con scomuniche e tabu. In modo chiaro, con stile terso, avvincente e dotto al tempo stesso, ricco di richiami e indicazioni di lettura (Belpoliti è un sociologo della letteratura). Ma con taglio post-postmoderno. E non è un gioco di parole.
Il libro si dipana intorno al tema dei crolli, due in particolare, quello del Muro di Berlino e quello delle Torri gemelle. Crolli che condensano, secondo l'autore, i due temi principali del nostro tempo: da un lato il terrore, improvviso e tagliente come quelle sciabolate di luce, che ti colgono all'uscita di un cinema negli assolati pomeriggi estivi; dall'altro la banalità di un' età postmoderna, priva di idee e perciò vittima del sentimentalismo: del kitsch. Con una citazione da Mao II di Don DeLillo, Belpoliti chiarisce bene la nostra condizione di postmoderni. E' un fotografa che parla: "Qualunque cosa io fotografassi, realtà miseria, corpi distrutti, facce insaguinate, per grande che fosse l'orrore, alla fine mi ritrovavo con delle stronzissime immagini carine. Capisce?"(p. 72). Ogni decadenza, insomma, implica la cognizione del dolore: la consapevolezza che si nasce, si vive e si muore, tutti, gli uomini come le civiltà. Ed è quel che manca alla nostra epoca: dove tutto è "carino" E che è assente anche nel libro di Belpoliti, nonostante le buone intenzioni e il suo interesse oggettivo. L'autore intuisce, ma non sviluppa.
Al postmoderno, un pensiero in fondo crudele ( come ogni persona che si finge debole) e sentimentale, perché privo di vere idee e dunque di autentiche passioni, Belpoliti sostituisce una filosofia post-postmoderna della trasformazione. Un pensiero che "trasforma", sulla scia delle intuizioni di Thom e Prigogine, la catastrofe o il crollo, in un elemento di un processo dinamico, dove la "fine", anche se resta una possibilità, può essere spostata sempre in avanti. O che comunque finisce per far parte di un processo, pressoché infinito. Che noi possiano osservare dall'esterno... Una visione che ricorda tanto, riveduta e corretta alla luce di un post-post scientismo, la teoria della "ruota del carro avanzante" di Toynbee, che pur girando su stessa, o rompendosi qualche volta, non impedisce al carro (della storia umana) di avanzare sempre più avanti. E comunque perché provare dolore e per chi, se la storia "rischia" di non finire mai? Rendendoci di conseguenza eterni, almeno come "specie"?
Ovviamente, per ragioni di brevità, qui si semplifica il pensiero piuttosto articolato e complesso di Belpoliti. Il suo è un libro che comunque chiede rispetto e attenzione.
Certo, per il pensiero postmoderno la catastrofe può essere "carina", mentre per quello post-postmoderno di Belpoliti la catastrofe può condurre a nuovi inizi . Ma per entrambi è in qualche modo possibile pensare la fine (da post-postmoderni) o sorriderne ( da postmoderni) , senza esserne veramente parte. Ma chi non è parte o carne di qualcosa non può capire né provare cosa sia il vero dolore.
Il problema è tutto qui.