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Nella sinistra ci sono due anime che da sempre si confrontano

di Tonino Bucci - 11/12/2008


 
Nella sinistra ci sono due anime che da sempre si confrontano. Una è la tendenza al produttivismo, l'idea che quanto più si sviluppano le forze produttive tanto più il futuro dell'umanità tende al meglio. L'altra è la cultura della sobrietà e della critica al consumismo. Lo slogan della decrescita, coniato dall'economista Serge Latouche, ha avuto negli ultimi anni una certa fortuna politica perché è apparsa l'unica alternativa possibile al dramma dell'inquinamento ambientale. Per i sostenitori della decrescita la società sarà costretta in futuro a consumare di meno se non vorrà distruggere le basi materiali e ambientali della propria riproduzione.
La sobrietà è di sinistra? Al di là delle suggestioni, l'appello all'austerità non ha scalfito gli stili di vita e di consumo dominanti. C'è da chiedersi perché. Colpa della società del nostro tempo troppo impregnata di utilitarismo individuale, troppo propensa agli egoismi particolari e poco disposta verso l'interesse generale? Può essere, il berlusconismo ci ha costruito sopra la sua fortuna politica. Però l'appello alla sobrietà, a volte, rischia d'apparire un messaggio ipocrita. La crisi economica ha dimostrato che per gli strati sociali bassi - e, ormai, anche per il ceto
medio - lo slogan del consumare meno è già una dura realtà. C'è già
chi fa fatica ad arrivare alla quarta settimana e a soddisfare i cosiddetti bisogni elementari (fra questi oggi dobbiamo metterci anche lo studio e la cultura). Ai consumi si accede in maniera ineguale a seconda del reddito e della posizione sociale. Ma il richiamo all'austerity è inefficace soprattutto su un altro versante. Quello che fa letteralmente andare fuori dei gangheri i sostenitori della vita sobria è come mai anche individui delle classi popolari, magari in difficoltà nel soddisfare le esigenze fondamentali (la casa, il cibo, la salute), corrano dietro alle chimere del consumismo, fino al punto d'indebitarsi pur di accaparrarsi l'oggetto di desideri instabili, fosse la macchina nuova o l'ultimo modello di telefonino. E se la forza del consumismo stesse proprio in questa promessa di felicità in cambio dell'usa-e-getta? E se la ragione dell'egemonia consumistica stesse proprio in questo scambio, cioè nel far ritenere a portata di mano la gratificazione di tutti i desideri, non importa a quale prezzo e con quale impatto ambientale?
Questo è il punctum dolens contro cui sbattono il capo cultori della
sobrietà, ambientalisti, fautori della decrescita ed ecologisti. Come
a dire: lo scoglio non si aggira finché non capiamo davvero cos'è il consumismo. Ci prova con un'indagine molto suggestiva Zygmunt Bauman nel nuovo libro da poco uscito in Italia, Consumo, dunque sono (Laterza, pp. 200, euro 15). L'economia di mercato - sostiene il sociologo - prospera perché il consumismo è entrato nei nostri desideri. Ci ha indotti a desiderare esattamente quel che è necessario affinché questo sistema funzioni. Il capitalismo morirebbe di sovrapproduzione senza il ricambio continuo di merci. «Ogni volta che il denaro passa di mano alcuni beni di consumo sono inviati alla discarica». In una società di consumatori la "ricerca della felicità" sposta l'attenzione «dal fare le
cose, o appropriarsene, o accumularle, al disfarsene».
I consumatori della società consumistica, dice Bauman, devono seguire le curiose abitudini degli abitanti di Leonia, una delle città invisibili di Calvino. Quella città, tutti i giorni, rifaceva se stessa. «Ogni mattina - parole di Calvino - la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall'involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi». Però «sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica,
i resti di Leonia d'ieri aspettano il carro dello spazzaturaio», tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d'imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana. «Più che dalle cose di ogni giorno che vengono fabbricate vendute comprate, l'opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l'espellere, l'allontanare da sé,
il mondarsi d'una ricorrente impurità». Le cataste di rifiuti «s'innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto (...). E' una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne».
Non faremmo fatica a riconoscere in questo reportage fantastico lo scenario inquietante delle nostre città brulicanti di centri commerciali
e di pubblicità seducenti che incitano al consumo, mentre ai margini
delle periferie prolificano discariche traboccanti rifiuti d'ogni genere.
E' un inferno quotidiano che abitiamo ogni giorno, ma che non notiamo quasi più tanto fa da sfondo alle strade che percorriamo come d'abitudine. Appena ai margini delle cinte suburbane, lambiti dagli avamposti delle campagne, sorgono le tante Malagrotta delle metropoli italiane. Quelle montagne di spazzatura, generate dall'iperconsumismo, non le vediamo più, lo sguardo le sorvola con indifferenza. Anzi, su quei cumuli prospera l'orgoglio del capitalismo contemporaneo che fa vanto d'aver ormai archiviato in un passato lontano le economie primitive che non riuscivano neppure a soddisfare i bisogni elementari dell'umanità.
Il consumismo garantisce di averci emancipato dalla dittatura dell'oggetto - che sia o meno un'illusione poco importa. Le cose valgono soltanto come segno imperfetto di un godimento impossibile. Nella stragrande maggioranza dei casi non sono beni essenziali, sono oggetti che devono suscitare l'ipertrofia dei desideri ben oltre la linea di per sé fluttuante dei bisogni fondamentali. Alla dittatura dell'oggetto il consumismo ha sostituito la dittatura del desiderio: desiderio di ogni consumatore d'essere, per tramite dell'oggetto di consumo, sempre altro da quel che è. Ma essendo i desideri instabili, gli oggetti che ne rappresentano il segno, sono destinati a una rapida obsolescenza e a finire in discarica.
Eccola, la dittatura soft, la sottile forza di persuasione: quel desiderio blandito dalla pubblicità grazie al quale può nonostante tutto prosperare un sistema economico che manda montagne di rifiuti al macero, che giorno dopo giorno avvelena il pianeta - e la vita degli esseri umani - con scorie, materiali inorganici, anidride carbonica e sostanze radioattive. Nessuno è costretto con la forza a consumare, a comprare, a rincorrere le ultime mode, ad accaparrarsi i marchi che fanno "tendenza", a stare un passo davanti agli altri, buttando tutto ciò che è d'impaccio in questa corsa verso la felicità. «Il segreto di qualsiasi socializzazione efficace - scrive Bauman - è far sì che gli individui desiderino fare ciò che occorre affinché il sistema sia in grado di riprodurre se stesso». Il consumismo è la forma di «vita liquida» (dopo quella «solida» della società dei produttori) che ha trasformato tutte le relazioni, anche quelle tra le persone, a modello e somiglianza delle relazioni tra i consumatori e gli oggetti di consumo. Comperiamo per rincorrere il nostro desiderio di diventare altro, di apparire alla moda, di stare avanti alla massa grigia e impersonale. Questo è quel che le merci ci promettono, a condizione però di essere disposti di volta in volta a disfarci dei "vecchi" modelli. «L'economia dei consumi e il consumismo sono mantenuti in vita in quanto i bisogni di ieri sono sminuiti e valutati, e i loro oggetti ridicolizzati e sfigurati come ormai obsoleti, e ancor più è l'idea stessa che la vita di consumo debba essere guidata dalla soddisfazione dei bisogni a essere screditata». Gli oggetti non servono più soltanto a soddisfare un bisogno - questa per la filosofia consumistica è una concezione primitiva - gli oggetti sono uno status symbol, promettono una felicità riservata ai pochi che si piazzeranno primi nella corsa verso l'ultimo i-phone. Ma la corsa non finirà mai. L'oggetto che prima faceva tendenza presto diventerà un marchio di disonore, di inferiorità, un oggetto fuori moda destinato al bidone dell'immondizia. Il consumatore non smetterà mai di desiderare di essere qualcun altro. I mercati «alimentano l'insoddisfazione dei confronti dei prodotti usati dai consumatori per soddisfare i propri bisogni, e coltivano un perenne scontento verso l'identità acquisita (…).
Cambiare identità, liberarsi del passato e ricercare nuovi inizi, lottando per rinascere: tutto ciò viene incoraggiato da quella cultura come un dovere camuffato da privilegio».
Ma davvero la felicità è nell'imperativo compra-e-getta? Possiamo immaginare un'alternativa a questo modo dissennato di consumare e inquinare? Non si tratta di predicare il ritorno all'età della pietra.
Il consumismo ha vinto, almeno finora, perché ci ha liberato dall'assillo che avevano le società del passato di non riuscire a soddisfare i bisogni fondamentali dell'uomo. Ma può essere contestato nel punto più alto della sua scommessa. Là, dove ha promesso il paradiso in terra sapendo di non poter mantenere la parola. Il consumismo è la filosofia dell'adesso e dell'ora, la polverizzazione della nostra vita in una serie di istanti eterni senza continuità ("tempo puntinista", dice Bauman). Una filosofia che promette la felicità qui e ora, senza rinvii e differimenti. Il paradiso in terra. Ma qui casca l'asino perché se un consumatore raggiungesse per davvero la felicità non sarebbe più un buon consumatore. Potrebbe anche diventare contento della sua vita. Il grande equivoco è che la promessa di felicità fatta dal consumismo può continuare a sedurre proprio perché allude a un godimento impossibile, a un paradiso evocato di acquisto in acquisto, ma mai realizzabile. Il cliente non sarà mai completamente soddisfatto. Gli uomini dovranno continuare a lavorare e a vivere per rincorrere desideri di altre vite, altre identità, altri mondi che non si avvereranno mai. Non c'è strada maestra verso la felicità. Ricordiamocelo durante le spese natalizie.