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La fine di un'era. Intervista a Walden Bello

di Giuliano Battiston - 11/12/2008

 
 
Autorevole economista e sociologo filippino, docente universitario e direttore di Focus in the Global South , Walden Bello ha fatto della combinazione tra la ricerca intellettuale e la militanza politica una vera e propria cifra distintiva, che gli ha fatto meritare nel 2003 il Right Livelihood Award (il Premio Nobel alternativo) e prima ancora la stima di molti di quelli che si battono per un'altra globalizzazione. Quanti non hanno occasione di incontrarlo nelle manifestazioni di piazza o nelle affollate assemblee del World Social Forum lo possono conoscere attraverso i suoi libri (tra cui Domination , Nuovi Mondi Media 2005; Deglobalizzazione , Baldini Castoldi Dalai 2004; Il futuro incerto: globalizzazione e nuova resistenza 2002) dedicati all'analisi delle diseguaglianze create dal sistema capitalistico contemporaneo e alla critica dei progetti imperialistici dello stato a stelle e strisce. Noi l'abbiamo incontrato a Viterbo, dove ha partecipato agli incontri organizzati dall'associazione "Greenaccord" in occasione del VI Forum Internazionale dell'informazione per la salvaguardia della natura su "Ambiente e sviluppo per il Sud del mondo" chiuso il 28 novembre.

Nel libro "Domination. La fine di un'era", lei identifica tre elementi che segnalerebbero la fine dell'egemonia americana: una crisi da sovrapproduzione (dimensione economica), una crisi da sovraesposizione (dimensione strategico-militare) e una di legittimità (dimensione politico-ideologica). Ci vuole spiegare meglio a cosa si riferisce?

La crisi da sovrapproduzione deriva dalla straordinaria capacità produttiva del sistema capitalistico che supera e contraddice la limitata capacità di consumo e d'acquisto della popolazione. Dalla metà degli anni Settanta questa crisi ha raggiunto un livello tale da spingere il capitale a ricorrere a tre vie d'uscita: la ristrutturazione neoliberista, la globalizzazione e la "finanzializzazione", che però non solo non hanno funzionato, ma anziché risolverla o mitigarla hanno aggravato la crisi da sovrapproduzione. Oggi assistiamo alla dimostrazione plateale di questo fallimento. L'altra dimensione è la crisi da sovraesposizione, che si situa al livello dello Stato e riguarda la sua capacità di "proiettare" potere; sin dalla guerra in Afghanistan abbiamo sostenuto che gli Stati Uniti si stessero sovraesponendo, rendendo manifesto lo scarto tra gli obiettivi del sistema imperiale e la mancanza delle risorse per ottenerli. La terza dimensione è quella della legittimità, senza la quale tutti i sistemi sono destinati al fallimento. Credo che il sistema democratico liberale, la cui diffusione è stata fortemente promossa dagli Stati Uniti soprattutto nei paesi in via di sviluppo, sia oggi ampiamente discreditato a causa del modo in cui gli Usa hanno usato sia la democrazia che le istituzioni multilaterali come la Banca mondiale, l'Fmi e il Wto per promuovere i propri interessi strategici. Se si mettono insieme questi tre elementi e vi si aggiunge la crisi ambientale, si avrà di fronte una tempesta perfetta. Quella che ha ereditato Obama.

Ma allora l'attuale crisi finanziaria non è tanto il risultato di una mancata regolamentazione del settore finanziario, quanto l'incancrenirsi di una delle contraddizioni centrali del capitalismo globale…

E' così: la mancanza di regolamentazione, come l'avidità, sono soltanto parte della risposta, mentre la parte ben più rilevante va ricercata nel tentativo di superare la crisi dei profitti che deriva dalla crisi da sovrapproduzione attraverso la "finanzializzazione", con la speranza di poter assorbire il surplus e creare profitto. Invece del profitto, però, ne abbiamo ricavato la crisi che viviamo, che non rimanda semplicemente a una questione di regole non rispettate, ma alla peculiare dinamica del sistema capitalistico.

Da diversi anni lei sostiene che «ci sarebbe sicuramente bisogno di controlli sul movimento dei capitali, sia a livello regionale che locale», ma continua a dirsi scettico sull'istituzione di un'autorità monetaria mondiale. Perché?

Perché ritengo che le istituzioni centralizzate, anche laddove si suppone che operino per il multilateralismo, finiscano spesso sotto il controllo dei poteri dominanti, che ne sovvertono il funzionamento per soddisfare i propri interessi invece che quelli della maggioranza. La risposta alla crisi del sistema multilaterale non sta nella creazione di un nuovo gruppo di istituzioni centralizzate, ma nella promozione di un processo di decentralizzazione e regionalizzazione e nell'edificazione di un sistema di "checks e balances" fra istituzioni non eccessivamente potenti, che si possano controllare reciprocamente. Ciò di cui si ha bisogno per realizzare uno sviluppo sostenibile è lo spazio: le grandi istituzioni centralizzate non solo non creano spazio per le persone e per i paesi più vulnerabili, ma spesso finiscono per sottrarglielo.

Ci può spiegare perché ritiene che la globalizzazione debba essere intesa come «il tentativo disperato del capitale globale di scappare dalla stagnazione e dai disequilibri caratteristici dell'economia globale negli anni Settanta e Ottanta» piuttosto che come una nuova fase nello sviluppo del capitalismo?

Nell' Accumulazione del capitale Rosa Luxemburg sostiene che per estendere i tassi di profitto il capitalismo ha bisogno di incorporare nel sistema sempre nuove aree del mondo, che siano semi-capitalistiche, non-capitalistiche o pre-capitalistiche, e in questo senso io credo che la globalizzazione e la continua integrazione nel sistema capitalistico di nuove parti del mondo sia da intendere come una risposta alla crisi da sovrapproduzione piuttosto che una nuova e qualitativamente più elevata fase del capitalismo. Proprio su questo punto sono nati moltissimi errori all'interno del movimento progressista, perché si è creduto che i processi di globalizzazione fossero irreversibili. Invece sono del tutto reversibili. Oggi molti, sulla scia di Stiglitz, sostengono che il processo irreversibile della globalizzazione debba essere "salvato" dall'influenza dei neoliberisti, grazie ai socialdemocratici. Per me non è così.

Lei infatti è sempre stato lontano dalle posizioni "social-democratiche" di quanti immaginano sia possibile "umanizzare" la globalizzazione. Ha scritto: «il compito urgente che ci troviamo di fronte non è quello di orientare la globalizzazione guidata dalle corporations in una direzione "social-democratica", ma fare in modo di ritirarci dalla globalizzazione». Perché ritiene che sia impossibile "umanizzare" la globalizzazione?

Perché l'integrazione globale dei mercati e delle società è guidata dalle dinamiche capitalistiche, dunque dal profitto, e non invece da una necessità radicata nei bisogni dell'uomo. Non sta dunque nella natura nell'uomo, ma è un semplice strumento creato per cercare di risolvere una crisi di una certa economia, che contraddice quei bisogni proprio perché è disumanizzante. Inoltre la rapida integrazione dei mercati è assolutamente controproducente, poiché elimina quelle barriere tra le economie che permetterebbero a ognuna di essere più indipendente e dunque più sana perché meno vulnerabile alle crisi delle altre: una grave crisi all'interno di un'economia non si tradurrebbe come accade oggi in una grave crisi per tutte le altre. La terza ragione è che la globalizzazione risponde perfettamente alla logica del capitalismo di ridurre le dinamiche dell'economia a pochi centri di potere. Quelli che sostengono "la globalizzazione è irreversibile, dobbiamo soltanto umanizzarla" si illudono: è impossibile umanizzare la globalizzazione, dovremmo piuttosto capovolgerla.

Secondo la sua analisi, dovremmo passare dunque per un processo di "deglobalizzazione". Ma com'è possibile ottenere una «spostamento radicale verso un sistema della governante economica globale che sia decentralizzato e pluralistico» e che «sviluppi e rafforzi, anziché distruggerle, le economie nazionali»?

Per prima cosa "deglobalizzazione" non significa ritirarsi dall'economia internazionale, ma istituire con essa una relazione che possa accrescere le capacità di ognuno anziché soffocarle o distruggerle. Il vero problema del libero mercato e della globalizzazione guidata dalle corporation è che nel processo di integrazione le economie locali e le capacità nazionali vengono distrutte sotto il peso della presunta razionalità della divisione del lavoro, che nei fatti annienta ogni diversità. Mi sembra però che ci stiamo avvicinando a comprendere che la diversità è essenziale anche per lo stato di salute dell'economia. Il criterio dell'efficienza contraddice il benessere generale. Piuttosto che di efficienza avremmo bisogno di efficacia, perché laddove si parla di efficacia si parla anche degli strumenti economici più adatti per assicurare la solidarietà sociale e per creare un sistema economico che sia subordinato ai valori e ai bisogni della società, non viceversa. Gli avvenimenti degli ultimi mesi hanno spinto molti a interrogarsi sulla razionalità di un sistema che subordina i valori della società al mercato: dovremmo approfittare della crisi del sistema capitalistico per rivendicare la necessità di abbracciare la logica della solidarietà sociale.