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La "quota 90"

di Sergio Romano - 12/12/2008

Ho letto la sua risposta sulla crisi del 1929. Non so se è attinente a tale crisi, ma mio padre che era contadino, quando ero più giovane, mi raccontava che Mussolini aveva portato la quota a 90 e con questo provvedimento aveva creato molti problemi a chi aveva debiti. Diceva che i mezzadri che erano indebitati con il padrone del fondo riuscirono a sdebitarsi soltanto alla fine della guerra perché la lira si era svalutata. Ora sarei curioso di sapere in che cosa consistette la quota 90 e se c'entrava con la crisi del 1929.


Ugo Gaille, Aprilia (Lt) ,


Caro Gaille,
La crisi di cui le parlava suo padre precede di alcuni anni quella provocata dalla grande depressione americana ed è generalmente descritta nei libri di storia nazionale in un capitolo intitolato «La difesa della lira». Le parole «quota 90» alludono al tasso di cambio fra la valuta italiana e la sterlina, allora «moneta mondiale» e punto di riferimento per tutti gli scambi internazionali: 90 lire, appunto, per una sterlina. La crisi scoppiò agli inizi del 1926 quando la lira fu soggetta ad attacchi speculativi non diversi da quelli che colpirono la nostra valuta durante la grande tempesta finanziaria dell'autunno 1992. Il ministro delle Finanze (una carica che corrispondeva a quella odierna del ministro dell'Economia) era Giuseppe Volpi, grande industriale del settore idroelettrico e creatore, insieme a Vittorio Cini, di Porto Marghera. Volpi spiegò a Mussolini che i motivi dell'offensiva erano il crollo dei due franchi (francese e belga), che esponeva la lira a fortissime pressioni, e la situazione economica italiana (in particolare il deficit della bilancia commerciale: tre miliardi e mezzo nel primo quadrimestre del 1926). Cercò di aggirare e ingannare la speculazione con alcune manovre diversive, ma non riuscì ad arrestare gli attacchi della finanza internazionale.
Fu quello il momento in cui Mussolini cominciò a temere per la stabilità del regime e prese la guida dell'operazione adottando una strategia volontaristica. A Pesaro, il 18 agosto 1926, pronunciò un discorso durante il quale dichiarò: «Difenderò la lira fino all'ultimo respiro, fino all'ultimo sangue». La sfida lanciata dal capo del governo ebbe quasi subito l'effetto desiderato per una ragione che Piero Sraffa, l'economista amico di Gramsci, spiegò bene in una lettera diretta ad Angelo Tasca, un comunista eretico che era stato espulso dal partito nel 1929: «Appena gli speculatori sanno che questa è la politica del governo — scrisse Sraffa — scontano immediatamente il rialzo, cioè lo fanno avvenire subito». Il risultato fu prodigioso: dopo avere toccato quota 148,87 il 1° settembre 1926, la sterlina scese rapidamente sino a toccare, il 25 aprile 1927, la quota minima di 85,75. Nel frattempo il governo aveva adottato altri provvedimenti che avrebbero contribuito alla stabilità finanziaria: un prestito forzoso che dispose la conversione obbligatoria di tutti i buoni del Tesoro ordinari e il rafforzamento dei poteri della Banca d'Italia a scapito degli altri istituti (Banco di Napoli e Banco di Sicilia) che avevano il diritto di emettere moneta.
Il successo politico ebbe ricadute economiche e sociali. La rivalutazione della lira protesse i redditi fissi e contribuì a consolidare in alcuni ceti sociali la popolarità del regime. Ma colpì le industrie e in particolare quelle che dipendevano per la loro sopravvivenza dall'esportazione dei loro prodotti sui mercati internazionali. Volpi avrebbe preferito fermare la lira a quota 120. Gli imprenditori, soprattutto quelli dei tessili, cercarono di addolcire i rigori di Mussolini, allora deciso a perseguire una rivalutazione ancora più radicale. Il senatore Ettore Conti, industriale idroelettrico e relatore della Commissione finanze, pronunciò un discorso per elencare di fronte a un imbronciato Mussolini la lista di ciò che sarebbe stato necessario fare per adattare l'economia al nuovo valore della moneta: «È necessario riadattare i prezzi all'interno ai prezzi esteri, riducendo tutti gli elementi dei costi di produzione e quindi stipendi e salari, rimunerazioni e parcelle, interessi e capitali dei debiti, tasse e costo di trasporti: sconvolgere cioè tutta l'economia nazionale, disposti anche ad affrontare le inevitabili crisi». Il discorso di Conti non cambiò la politica di Mussolini, ma ebbe almeno l'effetto di spingerlo a dichiarare che la rivalutazione non sarebbe andata al di là di «quota novanta».