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La visione del mondo di Jack London era socialista oppure razzista e brutalmente darwiniana?

di Francesco Lamendola - 22/12/2008


 

«La campana aveva appena suonato per richiamare al lavoro dei campi, quando Sheldon ebbe una visita. Aveva fatto trasportare la sua branda sulla veranda e vi si era appena coricato, quando alcune canoe approdarono alla riva. Quaranta uomini armati di picche, archi, frecce e mazze stavano radunati fuori del cancello, ma uno solo entrò. Essi conoscevano la legge che viva a Berande, come del resto ogni indigeno conosceva la legge di tutti i bianchi residenti nelle migliaia di miglia delle sparpagliate Isole Salomone. Sheldon riconobbe nell'uomo che si avanzava per il sentiero del recinto, Sili, il capo del villaggio di Balesuna. Il selvaggio non salì i gradini, ma si fermò sotto la veranda, a parlare con il padrone bianco che stava sopra.
Sili aveva un'intelligenza superiore alla media della sua razza, ma la sua intelligenza non serviva che a far risaltare ancor più l'inferiorità di quella razza. I suoi occhi, vicinissimi tra loro, piccoli, tradivano la crudeltà e l'astuzia. Un gonnellino di fibra e una cartucciera erano i suoi unici vestiti. La conchiglia di madreperla intagliata che pendeva dal suo naso fino al mento, impedendogli quasi la parola, era puramente ornamentale, mentre i fori negli orecchi gli servivano, in pratica, per metterci il tabacco e la pipa. I suoi denti guasti, simili a zanne, erano tutti neri a furia di far uso del "betel" di cui sputava, di tanto in tanto, il succo.
Parlando o ascoltando, faceva mille smorfie scimmiesche.  Per dire di sì, abbassava le palpebre e avanzava il meno; parlava con un'arroganza puerile stranamente in contrasto con la sua posizione d'inferiorità che occupava ai piedi della veranda. Sili e i suoi numerosi seguaci erano i signori e i padroni del villaggio di Balesuna. Ma il bianco, senza seguaci, era il signore e padrone di Berande; anzi, una volta, da solo, si era reso padrone anche del villaggio di Balesuna. Sili non era contento di ricordare quel fatto. Era avvenuto quando ancora non conoscevano la natura dei bianchi e non avevano ancora imparato ad odiarli. Una volta egli si era reso colpevole di aver dato asilo a tre fuggiaschi di Berande, i quali gli avevano dato tutto quello che possedevano in cambio del rifugio e dell'aiuto promesso di farli ritornare a Malaita. Ciò gli aveva dato un'idea del brillante avvenire che avrebbe avuto il suo villaggio se fosse divenuto uno scalo fra Berande e Malaita
Disgraziatamente egli ignorava i sistemi dei bianchi, Ma glieli fece conoscere Sheldon una mattina, giungendo ai primi albori, alla sua capanna. In un primo tempo il negro si era divertito vedendolo là, credendosi perfettamente sicuro in mezzo al suo villaggio. Ma un momento dopo, e prima ancora che avesse potuto chiamare aiuto, le nocche del bianco, armate di un buon tirapugni, gli avevano colpito la bocca ricacciandogli in gola il grido d'allarme.  Un altro colpo l'aveva colpito sotto l'orecchio facendogli perdere ogni interesse per quanto stava succedendo. Quando si riebbe, si trovò nella baleniera del bianco, sulla via di Berande.  Là, poi, era stato trattato come u individuo qualsiasi, ammanettato mani e piedi e carico di catene. Solo quando e la sua tribù ebbe restituito  i tre fuggiaschi, egli venne rimesso in libertà, e per di più, il terribile bianco gli aveva imposto una multa di diecimila noci di cocco.  Dopo questo fatto Sili non aveva più dato asilo a nessun fuggiasco.  Anzi, si era messo a dar loro la caccia. Era più prudente.  Del resto veniva pagato con una cassa di tabacco per ogni uomo. ma se avesse potuto vendicarsi dell'uomo bianco, o se si fosse trovato dietro a lui quando avesse inciampato o fosse caduto lungo qualche sentiero  del bosco - ecco una testa che avrebbe venduto cara a Malaita!»


La filosofia sottesa a questo brano di prosa è inequivocabilmente razzista; e lo scrittore in questione è Jack London, il più socialista e rivoluzionario degli scrittori americani vissuti prima della grande crisi del 1929 (in conseguenza della quale si sarebbero poi convertiti quasi tutti, almeno a parole, al credo socialista e rivoluzionario).
Più precisamente, questa pagina di prosa è tratta da un suo romanzo considerato “minore”: «Adventure», del 1911 - e che, tuttavia, abbiamo ragione di credere costituisca una chiave di lettura fondamentale per entrare nel mondo psicologico dell’Autore, come ci ripromettiamo di discutere in un prossimo lavoro (da: Jack London, «Avventura», traduzione italiana Fratelli Melita Editori, 1988, pp. 10-11).
Lo scrittore, il cui vero nome era John Griffith Chaney, e che volle assumere anche il cognome London in omaggio al secondo compagno di vita della madre, Flora Wellman, era nato a San Francisco il 12 gennaio del 1876 e morì suicida, irreparabilmente minato dall’alcool, il 22 novembre del 1916, nel suo "ranch" di Glen Ellen, nella contea di Sonoma, in California. Aveva ingerito un miscuglio micidiale  di solfato di morfina e di atropina; il referto medico ufficiale parlò di uremia in seguito a calcoli renali.

Jack London era considerato il profeta del socialismo in America, specialmente dopo la pubblicazione - nel 1903 - del suo libro «The People of the Abyss», frutto di una inchiesta di prima mano condotta nei quartieri degradati del proletariato dell'East End di Londra. Furono in pochi, però, ad accorgersi che tutta la sua simpatia andava ai proletari londinesi in quanto esponenti della razza bianca, e più precisamente del ramo anglosassone; invano si cercherebbero sentimenti analoghi nei confronti del proletariato indiano, cinese o africano.
La sua notorietà come artista di sinistra era talmente radicata che la madre di Ernesto “Che” Guevara - come si dice - scelse il nome del proprio figlio, destinato a diventare l’icona di una intera generazione di giovani di sinistra di tutto il mondo, ispirandosi alla figura dell’eroico protagonista di «The Iron Heel» («Il tallone di ferro»), Ernest Everhard.
E allora, che cosa bisogna pensare della visione del mondo di Jack London: socialista e rivoluzionaria, oppure razzista e brutalmente darwiniana?
Per tentare di aggirare questo impietoso dilemma, gli ammiratori di Jack London animati da idee di sinistra sono giunti fino a negare, puramente e semplicemente, quegli aspetti del suo credo che risultavano incompatibili con la loro immagine dello scrittore socialista.
Un esempio piuttosto significativo di questa rimozione è riportato da Robert Barltrop nella sua ottima biografia «Jack London. L'uomo, lo scrittore, il ribelle» (titolo originale: «Jack London the Man, the Writer, the Rebel», London, Pluto Press, 1976; traduzione italiana di Nora Sigon, Milano, Gabriele Mazzotta Editore, 1978, pp. 187):

«Tra i socialisti il nome di Jack London dà ancora una sensazione do forza che stranamente trascende la consapevolezza che egli era, a dir poco, un incostante. Moltissime persone, sia della sua generazione che di quella seguente, si sono rifiutate di credere al suo razzismo e al sciovinismo. Quando Charles Lestor tenne una conferenza su Jack London, un giovanotto del pubblico si alzò e lese alcune opinioni di Jack London sulla prima guerra mondiale. Lestor disse che non potevano essere state fatte dall'uomo che egli ricordava: "Voi potete anche affermare che egli disse queste cose. Io so che jack non avrebbe mai tradito la classe operaia. John Graham, un altro che aveva conosciuto il marxismo di Jack nel Nord America ai primi anni del secolo, diede la stessa risposta. Quando gli fu chiesto che cosa pensava del concetto di jack della supremazia dell'uomo bianco  e delle sue opinioni sulla guerra, egli disse: "Sono certo che Jack non avrebbe… spero che capirete."»
Pochi uomini cinquant'anni dopo la loro morte, e soprattutto in politica, si sono assicurati una stima come questa: gli errori negati e i meriti lodati.»

Tuttavia, non sono possibili dubbi sul fatto che Jack London fu sinceramente socialista (almeno fino al 1907, ossia fino alla pubblicazione del suo romanzo «The Iron Heel»; e che, nello stesso tempo, le sue idee politiche erano, ed erano sempre state, fortemente razziste e brutalmente darwiniane (nonché superomistiche, dopo che ebbe letto - insieme alla seconda moglie, Charmian Kittredge - «Così parlò Zarathustra» e «Genealogia della morale» di Nietzsche, e se ne entusiasmò immediatamente).
Questo è il nocciolo del “caso” Jack London, per quanto sgradevole possa apparire a certe “anime belle”; questo è il nodo che non si presta in alcun modo ad essere sciolto e che tanto mette a disagio i suoi ammiratori “di sinistra”.
E non sono possibili dubbi, perché le sue idee razziste e impegnate di un darwinismo sociale estremamente franco e brutale emergono esplicitamente dal suo epistolario, in una maniera che non si presta - pur con tutta la buona volontà di questo mondo - ad essere edulcorata o spiegata in altro modo.
Ecco, per esempio, che cosa scriveva all’amico Cloudesley Johns nel 1899 (R. Barltrop, Op. cit., pp. 90-91):

«Il socialismo non è un sistema ideale escogitato dall'uomo per una felicità duratura, né per la felicità di tutti, ma è un sistema ideato per la felicità di alcune razze. Esso è pianificato in modo da rendere più potenti queste razze privilegiate perché esse possano sopravvivere ed ereditare la rerra fino all'estinzione delle razze più deboli e meno importanti. Le stesse persone, che appoggiano il socialismo possono parlarvi delle fratellanza tra tutti gli uomini, ed io so che sono sincere, ma questo non altera la legge: esse sono solo degli strumenti che lavorano ciecamente per migliorare le razze superiori affini e per immiserire le razze inferiori che esse chiamano fratelli.»

E, se queste parole non fossero abbastanza chiare, ci pensò lo stesso Jack London a rendere il suo pensiero inequivocabile, allorché, negli ultimi anni, ebbe a dichiarare a un giornalista (la lettera è riportata nel libro di Charmian London; R. Barltrop, cit., p. 91):

«Provi a valutare l'intera storia del genere umano in tutte le età passate, e troverà che il mondo è sempre appartenuto ai puri di razza e non è mai appartenuto ai sangue misto. Le dico questo come sfida: studi la storia della razza umana. Ricordi, la Natura non permette ai sangue misto di vivere, o, piuttosto, la Natura non permette che i sangue misto sopravvivano […] troverà tutto questo lì, negli scaffali. E mi trovi una razza che abbia conservato la propria forza di civilizzazione, di cultura e di creatività dopo essersi imbastardita.»

E, nel libro sulla guerra russo-giapponese «Ai confini della Corea» - che alcuni reputano una delle cose migliori scritte da Jack London - egli espresse tutto il suo disagio nel vedere i soldati russi prigionieri: bianchi e con gli occhi azzurri, gente della sua stessa razza; affermando di aver sentito che il suo posto non era lì, fra i Giapponesi, e sia pure come inviato della stampa americana, ma dall'altra parte della barricata.
In quella occasione ci fu anche un incidente piuttosto serio, allorché percosse un servo indigeno e le autorità giapponesi lo arrestarono e lo rimpatriarono su due piedi; pare che fu necessario un intervento personale del presidente "Teddy" Roosevelt presso il governo di Tokyo per evitargli conseguenze ancora più spiacevoli.
Sta di fatto che i resoconti di Jack London dal fronte della Manciuria esasperarono la campagna xenofoba anti-giapponese negli Stati Uniti, già alimentata dalla cospicua immigrazione asiatica e dal diffondersi della paura per il cosiddetto "pericolo giallo".

C'è ancora un mito da sfatare nella biografia di Jack London come scrittore rivoluzionario e socialista; e cioè che egli, scrivendo «The Iron Heel», abbia profetizzato niente di meno che l'avvento del fascismo e del nazismo.
In primo luogo, abbiamo la sua stessa, esplicita testimonianza, secondo cui egli non volle profetizzare un sistema politico ben preciso.
In secondo luogo, dal momento che il fascismo e il nazismo nacquero solo dopo la sua morte, sostenere che egli ne previde la nascita e l'affermazione, vorrebbe dire compiere una operazione simile a quella dei lettori cristiani di Virgilio, che lessero la IV ecloga delle «Bucoliche» come un annuncio della nascita di Cristo (cfr. F. Lamendola, «Il culto di Virgilio nel Medio Evo», pubblicato negli «Atti» della Società Dante Alighieri di Treviso, vol. 5, 2006; e consultabile anche sul sito di Arianna Editrice).
È vero che furono proprio alcuni grossi nomi del marxismo internazionale ad avvalorare, ma a posteriori, una simile interpretazione del celebre romanzo; primo fra tutti Lev Trotzkij il quale, in Messico, a Coyoacan, poco prima di morire per mano di un sicario di Stalin, scrisse alla figlia dello scrittore, Joan, nel 1937, una lettera in cui, tra l'altro, affermava (in: Jack London, «Il tallone di ferro» (traduzione italiana di Carlo Sallustro, Milano, Feltrinelli, pp. 7-8):

«Infine, niente colpisce maggiormente nell'opera di Jack London che la sua previsione veramente profetica dei metodi che "Il Tallone di Ferro" userà per mantenere il suo dominio sull'umanità calpestata. London si impone decisamente libero dalle illusioni riformiste e pacifiste.  Nel suo quadro dell'avvenire non lascia assolutamente sussistere nulla della democrazia e del progresso pacifico. Al di sopra delle masse  dei diseredati s'innalzano le caste dell'aristocrazia operaia, dell'armata pretoriana, dell'apparato poliziesco onnipresente e dell'oligarchia finanziaria che corona l'edificio. Leggendo queste righe non si crede ai propri occhi: è un quadro del fascismo, della sua economia, della sua tecnica, di governo e della sua psicologia politica. Una cosa è indiscutibile. Nel 1907 Jack London ha previsto e descritto il regime fascista  come il risultato ineluttabile della sconfitta della rivoluzione proletaria. Qualunque siano gli "errori" di dettaglio del romanzo - e ve ne sono - non possiamo non inchinarci dinanzi all'intuizione potente dell'artista rivoluzionario.»

Chi si accosti alla figura e all’opera letteraria di Jack London dovrebbe avere, pertanto, l’onestà intellettuale di riconoscere la fondamentale ambiguità del suo pensiero politico.
Fino ad oggi, coloro che lo hanno fatto hanno anche tentato, il più delle volte, di “spiegare” la contraddizione in esso presente, dicendo che London - dopotutto - era un artista e che il suo pensiero politico era superficiale, perché egli non possedeva né le necessarie basi culturali, né l’attitudine al ragionamento politico o, meno ancora, filosofico.
A noi sembra che questa interpretazione sia terribilmente ipocrita.
Si ammette che elementi di razzismo e di darwinismo brutale esistevano nella visione del mondo di Jack London, ma poi si cerca di circoscriverne la portata, facendolo riconoscere incapace di intendere e di volere nell'ambito della politica.
No, queste sono tutte sciocchezze e ipocrisie.
La vera spiegazione, a  nostro avviso, è più semplice, ma richiede una onestà intellettuale che, oggi, sembra essere divenuta rarissima.
In breve, la nostra "lettura" delle (apparenti) contraddizioni dell'ideologia politica di Jack London è questa: egli non fu socialista e rivoluzionario e, a dispetto di ciò, razzista e sciovinista; ma fu razzista e sciovinista proprio perché socialista e rivoluzionario.
Chissà perché, le "anime belle" del socialismo e del comunismo vorrebbero rimuovere il fatto che una componente razzista e imperialista era presente nel pensiero di Marx (per non parlare del suo antisemitismo, a dispetto del fatto che egli stesso era ebreo).
Si provi a rileggere, ad esempio, alcune interviste rilasciate da Antonio Labriola prima dello scoppio della guerra italo-turca del 1911-12 per la conquista della Libia. Vi si potranno trovare affermazione di questo tenore (in: Enrico Landolfi, «Rosso imperiale», Chieti, Solfanelli Editore, 1992, p. 21):

«Ebbene, noi siamo arrivati troppo tardi per prendere posizione di predominio, e toccherà alla politica italiana di rassegnarsi a Tripoli, che certo non ci compensa né di Tunisi né dell'Egitto perduti per noi. Nel trentennio corso dal 1870 in qua nemmeno la Triplice è valsa a darci carattere di potenza decisiva, e come la nostra politica africana non fu in fondo che un incidente della politica inglese, così tutto il nostro atteggiamento nel mondo è dipeso dalla Triplice, ossia dalla necessità di subirla prima e di perderla dopo.
Affermarsi come capace di una propria iniziativa, sarebbe per l'Italia  - dirò in linguaggio un po' filosofico - come cessare dall'essere un incidente e cominciare dall'essere un efficiente. Perciò la questione di Tripoli va giudicata per noi come il primo saggio della nostra prima, libera e cosciente apparizione  nella politica mondiale.»

Mentre Labriola diceva queste cose, Mussolini si preparava a scatenare una battaglia durissima per opporsi alla guerra di Libia, affrontando anche il carcere; una battaglia la cui coda fu, come è noto, la "settimana rossa" del 1914.
Ora, si badi, noi non vogliamo affatto dire che, per essere rivoluzionari e socialisti, bisogna anche essere, necessariamente, razzisti, socialdarwinisti e sciovinisti; vogliamo semplicemente dire che le due cose non sono affatto incompatibili, perché esiste una base culturale comune.
Non era imperialista la politica estera di Stalin e, dopo di lui, di tutti i dirigenti dell'Unione Sovietica, quanto e più di quella zarista?
Non era brutalmente darwinista la politica genocida di Pol Pot nella Cambogia «rossa»?
Non è stato rozzamente superomistico il culto aberrante di tanti e tanti capi marxisti, dallo stesso Stalin a Mao Tze Tung, a Ceusescu, a Kim il Sung, a Fidel Castro?
E non è forse razzista la politica della Cina comunista nei confronti dei Tibetani, non solo repressi sanguinosamente, ma ridotti a divenire una minoranza a stento tollerata nel loro stesso Paese?
Oppure, per venire ad esempi a noi più vicini, si penda il caso di Mussolini.
Da sempre la Vulgata storiografica, non soltanto italiana, vorrebbe persuaderci che fu solo uno strano scherzo del destino, unito all'opportunismo e al cinismo del futuro Duce, che portò il socialista Mussolini a fondare il movimento fascista. Cioè, che il regime più tipico dell'estrema destra reazionaria fu tenuto a battesimo da un uomo che per tutta la vita era stato di estrema sinistra! Sarebbe più facile convincere l'opinione pubblica che Gesù Cristo, sulla croce, è morto di raffreddore: eppure l'intera cultura democratica, e segnatamente quella di matrice marxista, hanno preso per buona una simile assurdità…
Perché? Perché troppo sarebbe costato, e troppo costerebbe ancor oggi, ammettere che Mussolini fu un uomo di sinistra, non solo fino al 1914 e alla sua adesione all'interventismo nella prima guerra mondiale, ma sempre: anche poi; anche dopo la marcia su Roma; anche dopo le leggi eccezionali del 1925; anche quando andava alla conquista dell'Etiopia; anche quando varava le famigerate leggi razziali del 1938; anche quando gettava l'Italia nel braciere incandescente della seconda guerra mondiale; anche quando - e, diremmo, soprattutto - accettava di mettersi a capo della moritura Repubblica di Salò.
Non vogliamo dire, con questo, che il fascismo, "tout court", fu semplicemente una eresia della sinistra, e precisamente del marxismo-leninismo; ma che esso nacque dal medesimo terreno di cultura e che, pur se differì profondamente - ad esempio - per certi aspetti, dallo stalinismo, pure, per altri, vi fu molto più simile di quanto i nostri storici di formazione marxista, o anche liberale, non siano disposti ad ammettere (a parte il fatto, che non è un piccolo titolo di merito per Mussolini, di essere stato infinitamente meno brutale e sanguinario del dittatore sovietico).
È quanto ci siamo sforzati di mostrare da tempo, con tutta una serie d articoli, particolarmente con «Il cadavere di Matteotti fu gettato ai piedi di Mussolini per chiudere ogni dialogo a sinistra?»; «Fu il progetto di socializzare l'economia italiana a provocare la crisi del 25 luglio 1943?»; e «Cosa spinse Mussolini ad accettare di mettersi a capo della Repubblica Sociale Italiana?», tutti consultabili sul sito di Arianna Editrice).

Conclusione.
Certo che Jack London fu un intellettuale rivoluzionario e socialista; e libri come «Il popolo dell'abisso» e «Il tallone di ferro» sono perfettamente sinceri in proposito.
Certo che egli fu anche razzista, sciovinista, superomista e brutalmente darwinista: e libri come «L'avventura» ne sono una testimonianza eloquente.
Ma perché meravigliarsi, perché scandalizzarsi?
Non esiste alcuna «purezza» originaria, nel socialismo, che lo renda immune dal razzismo, dallo sciovinismo, dall'imperialismo: questo è uno dei grandi miti della storia del marxismo, talmente duro a morire che è sopravvissuto perfino alla sua caduta disonorevole.
Ma non congediamoci così da Jack London, l'autore di libri indimenticabili come «Zanna Bianca» e «Il richiamo della foresta», i quali hanno riempito di sogni la nostra infanzia.
Non trattiamolo con disdegno, come se avessimo scoperto in un caro amico un vizio nascosto, vergognoso e imperdonabile.
A parte il fatto che Jack London fu abbastanza uomo da non nascondere mai le sue idee, tutte le sue idee (mentre parecchi suoi lettori, anche insigni, non sono stati abbastanza uomini da leggere i suoi volumi a sufficienza per trarne onestamente tutte le debite conclusioni), la contraddizione, se contraddizione v'è, non stava in lui, ma nel pensiero socialista medesimo.
Perciò, non crediamo che la figura e l'opera di Jack London escano sminuite da questa franca e sincera ammissione.
È difficile non amarlo, dopo averne letto i libri pieni di vita, di freschezza, di entusiasmo; e tuttavia pervasi da una sottile, corrosiva malinconia.
Ci piace concludere queste riflessioni con le parole del già citato Robert Barltrop (il quale, però, non ha portato le sue intuizioni fino alle loro logiche conseguenze):

«I suoi vari aspetti sono quelli di una personalità le cui forze e le cui debolezze erano quasi costrette a una super-espressione dello scompiglio del tempo. È possibile guardare tutti questi aspetti e contemporaneamente sentire per lui affetto, come per un amico strano.»