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Il linguaggio contemporaneo e il totalitarismo dolce

di Davide Gianetti - 22/12/2008

 
 
 

“Keep it easy, stupid”. Si tratta di una delle nuove regole che imperversano nel giornalismo anglosassone da qualche anno a questa parte. Specchio e simbolo di una mondo occidentale ipertecnologico che fonda sulla velocità e sul parossismo la propria ragion d’essere, la propria cifra esistenziale e identitaria, la semplificazione dei pensieri, dei discorsi, dei concetti, confinata in àmbito specialistico – quello della comunicazione multimediale – conquista ora nuovi territori e si allarga all’intero corpo sociale. La massificazione mondiale, conseguenza e approdo ineluttabile di una civilizzazione condotta secondo parametri puramente quantitativi e materialistici, esige d’altro canto un linguaggio nuovo, più semplice, che sia possibilmente asettico e neutro, in grado cioè di unificare, non solo verbalmente ma anche e soprattutto concettualmente, le diverse realtà locali del pianeta. Lo stile di vita occidentalizzato – produrre, consumare, morire – pur avendo ottenuto un’obiettiva uniformità nel modo di vivere presso i vari popoli della terra, necessita di un ultimo processo unificativo, quello linguistico. E non si tratta solo di una necessità di tipo economico, poter mettere in relazione verbale gli uomini d’affari del mondo, ma di un’esigenza finalizzata ad espellere dai processi mentali che sovraintendono all’intelletto qualsiasi tipo di pensiero eterodosso, critico, scettico, dal momento che l’impianto ideologico dell’occidentalizzazione riposa su fondamenti dogmatici nei confronti dei quali occorre mantenere un costante atteggiamento fideistico, una sorta di riverenza religiosa, cancellando al contempo qualsivoglia ombra di dubbio o di incertezza circa la validità di un sistema di vita ritenuto l’unico possibile, il più razionale e il solo che un uomo dell’Occidente possa sinceramente agognare.
Occorre quindi un codice linguistico ad hoc, “scientifico”, che sia rigorosamente avalutativo e indefinito perché ad oggi tutti i linguaggi conosciuti, a prescindere dalle buone intenzioni dei suoi utilizzatori, non garantiscono quel livello di neutralità che l’attuale livello di mondializzazione esige dai propri componenti.
La manipolazione e la contestuale mutazione del linguaggio costituiscono le tappe intermedie, ma necessarie, di un percorso al termine del quale troviamo un codice linguistico standard che elide le eventuali diversità comunicative legate ad una specifica forma mentis.
Come avviene concretamente questa mutazione semplificativa del linguaggio umano? Anzitutto fissando delle griglie metodologiche dalle quali è impossibile evadere. Avremo così un numero di parole prestabilito, tendente comunque a restringersi e in particolare assisteremo alla soppressione di subordinate relative e incisi a vantaggio di brevi coordinate dove il soggetto è quasi sempre posto all’inizio della frase.
Questo tipo di scarnificazione linguistica viene teorizzata e giustificata, oltre che da pretese ragioni di obiettività e neutralità, sulla base della necessità di adeguarsi ai ritmi della vita contemporanea, frenetica, impaziente e superficiale.
Ciò è vero solo in parte dal momento che l’accelerazione informativa non necessariamente segue quella esistenziale, in alcuni casi anzi precedendola o semmai accompagnandola.
D’altra parte l’esplosiva affermazione delle nuove tecniche multimediali, che tendono a fondere tra loro giornali, televisione e computer, contribuisce senza dubbio a modificare in maniera irreversibile il linguaggio e le operazioni mentali ad esso connesse.
La convergenza alla progressiva unificazione multimediale frantuma infatti il nostro universo comunicativo nella misura in cui alla tradizionale temporalità lineare e sequenziale, a cui eravamo tanto abituati, subentra una temporalità diversa, simultanea.
Oggi si legge un libro come si guarda un video e si naviga in internet come si sfoglia un giornale.
Tutto ciò produce degli effetti collaterali a cascata, specie sotto il profilo linguistico. Dal punto di vista stilistico il ritmo della lettura è ora sincopato, saltellante, irrequieto, in linea con l’orizzonte sensoriale dell’internauta – lettore – spettatore, mentre dal punto di vista contenutistico si accentuano gli aspetti drammatici, spettacolari e morbosi degli eventi. La comparsa delle “emergenze”, che poi diventano croniche – immigrazione, pedofilia, criminalità straniera, sicurezza ecc. – è in questo senso perfettamente funzionale all’attuale modello di vita occidentale: esse infatti da una parte soddisfano il morboso guardonismo del cittadino medio e dall’altra giustificano la presenza di un apparato poliziesco perennemente in crescita ma percepito come rassicurante al cospetto di eventi vissuti come catastrofici e incombenti.
L’illusione della neutralità informativa, che il mondo della comunicazione vanta come finalità suprema verso cui tendere, viene allora precocemente abortita sull’altare dell’audience che tutto esige e tollera – sensazioni forti, situazioni scabrose – meno che sobrietà ed equidistanza.
A proposito tuttavia del potere che l’opinione pubblica avrebbe nel determinare certe scelte e nell’indirizzare certe decisioni, occorre rilevare come la tanto decantata interattività cittadino – mass media, simboleggiata da sondaggi in tempo reale, forum su internet, sms, mail, lungi dal rafforzare lo spirito democratico, si riveli al contrario marginale e ininfluente al cospetto del sistema economico – politico e delle sue dinamiche.
Solo a titolo esemplificativo: la politica estera della più grande superpotenza del globo (Stati Uniti) è stata negli ultimi anni condizionata e indirizzata da teorie elaborate in pensatoi, riviste e giornali, a bassissima tiratura e a scarsissima vendita. Contemporaneamente, affermate e prestigiose testate giornalistiche a grande diffusione, ospitando posizioni e interventi contrari a quelli “ufficiali”, spesso su pressione e gradimento dell’opinione pubblica, mostravano tutta la propria impotenza quando si trattava di incidere sulla realtà degli avvenimenti, alla pari del “popolo di internet” e dei suoi irrilevanti blog.
Ecco perché la riflessione e l’approfondimento, sospinti ai margini ed espunti dal circuito massmediatico principale, diventano appannaggio di minoranze elitarie concorrendo quindi a quella polarizzazione della nostra società che rappresenta la cifra distintiva di una cultura sostanzialmente antidemocratica. 
Anche la presunta carica emancipatrice della cosiddetta “cybercultura” e del suo idioma “nomade”, de – territorializzato per definizione, si rivela un bluff perché adombra il miraggio di un protagonismo fittizio, proiezione irreale di quella testualità informatica dove immagine, parola e suono superano i preesistenti e obsoleti steccati comunicativi in direzione di un impoverente linguaggio globale e di massa. Lungi dall’intaccare i capisaldi della civiltà dominante, la cybercultura partecipa alla costruzione della lingua unica dal momento che, pur contestandone i presupposti, utilizza quegli stessi strumenti tecno – informatici che mutano i percorsi mentali dell’individuo, indirizzandolo così verso il tanto aborrito linguaggio unificato.
Questo  codice linguistico mondiale, in quanto tale, deve tuttavia contenere al proprio interno un corpus comunicativo estremamente asfittico e facilmente accessibile ai più affinché possa davvero essere manducato e digerito senza inutili complicazioni di sorta.
Ma la standardizzazione del linguaggio precede la massificazione dei gusti, delle opinioni, delle scelte.
Già nel 1928 Charles K. Ogden tentò di manipolare e semplificare il linguaggio – nel suo caso inventando il cosiddetto “Basic English” – teorizzando la soppressione dei verbi dal vocabolario, il ricorso sistematico alle abbreviazioni e la riduzione dei termini più complessi in termini più semplici, onde pervenire a concetti base indefiniti e veri.
D’altro canto organizzazioni e sistemi politici totalitaristi come il Minculpop, la Gestapo e il Comintern fecero esperimenti simili dimostrando un’acuta sensibilità per il controllo e la manipolazione del linguaggio.
Come aveva ben intuito George Orwell nel suo “1984”, ogni regime totalitario favorisce e promuove l’indigenza lessicale poiché essa è senza alcun dubbio il miglior stabilizzatore sociale.
Ma la lingua è un prodotto culturale specifico, figlia e specchio delle operazioni mentali di individui che appartengono a una determinata civiltà e in quanto tale molto difficilmente può essere sottoposta ad operazioni di smembramento e assemblaggio all’interno di formule comunicative “altre”.
L’idea di creare un codice linguistico unificato, asettico, neutro, tradisce l’illusione di poter giungere ad una lingua pura, perfetta, ma “la storia delle lingue perfette – come ammette anche Umberto Eco – è la storia di un’utopia e di una serie di fallimenti”.