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I contro il target

di Mario Grossi - 22/12/2008

 


 

 

Ci sono molti libri che, prima di decollare, hanno bisogno di un tempo lungo di rullaggio sulla pista, ma che poi, preso il volo, ti restituiscono tutto quello che ti hanno tolto nel tempo d’attesa.

 

 

È questo il caso di Contro il target di Remo Bassetti pubblicato da Bollati Boringhieri quest’anno che inizia con una descrizione didascalica del significato di target, per proseguire con due esempi target_fondo-magazinescontati, per poi regalarci conclusioni che costituiscono un vero e proprio fuoco d’artificio finale e che sono il vero motivo per cui voglio raccomandarvi questo “saggio a metà”.

 

 

L’inizio ingannatore è di quelli intriganti «Il target e l’incesto non sono tanto differenti. Se è vero, come pensava Lévi-Strauss, che il tabù dell’incesto ha natura culturale e nasce perché le unioni tra consanguinei impediscono l’allargamento dei gruppi sociali, occorrerebbe oggi anche un tabù del target, visto che tale meccanismo, di origine aziendale, mira al congelamento e alla cristallizzazione dei gruppi sociali esistenti».

 

 

Il target, termine mutuato dal linguaggio militare che sta per bersaglio, è il campione umano che l’azienda prende in considerazione per la vendita di un prodotto. La logica del marketing vuole che l’impresa proceda in via preliminare a dividere idealmente le persone in categorie.

 

 

Le aziende tendono, per facilitare la produzione e la commercializzazione di un qualsiasi bene o servizio, a suddividere le persone in categorie fittizie cui indirizzare i loro messaggi e le merci da acquistare. Quando un individuo o gruppo di persone è stato fissato in un target è compito delle aziende cristallizzare questa situazione per evitare che un soggetto cambi, provocando una difficoltà alla produzione che è stata pensata e progettata nelle sue forme e soprattutto nelle sue quantità in via preliminare e prefissata. Per cui il target, che inizialmente serviva per conoscere il mercato ed indirizzare gli sforzi aziendali, si trasforma in una sorta di gabbia con sbarre invisibili per il consumatore. Lo sforzo attuale è tutto concentrato in questo tentativo: incatenare gli individui ad un acquisto di tipo coatto. Per fare questo le società tentano di lusingare il consumatore inchiodandolo ad una scelta che confermi ogni volta quella precedente.

 

 

«La divisione in target contiene una pressione uniformante non meno insidiosa della spinta conformistica della massa sull’individuo isolato. Il target, che teoricamente differenzia rispetto alla generalità, è anche il rifiuto dell’inclassificabile e del trasversale. È una prevedibilità ordinata, cioè il contrario della vita.»

 

 

Lo studio del target, quale base dell’agire, ha da tempo travalicato i confini del marketing d’impresa. Così nella politica, al tradizionale compito del partito di orientare la comprensione (cercare di indirizzare le persone a un’ideologia attraverso la persuasione) è subentrato quello di comprendere l’orientamento (carpire gli umori delle persone, per farne l’indirizzo della propria azione politica). Nell’editoria i principali quotidiani si sono costruiti un pubblico su misura, che riconfermano continuamente nelle opinioni che già possiede.

 

 

Appare sempre più evidente che la nozione di consumo si è affermata come ideologia totalizzante, Pensiero Unico. E la costruzione dell’identità ormai avviene internamente al consumo.

 

 

Costruzione dell’identità cui si rivolge quello che viene definito marketing esperienziale. Non si comprano più le scarpe per tenere i piedi all’asciutto, ma per sentirsi, a seconda dei casi, virile, femminile, rude, diverso, giovane. L’acquisto di un paio di scarpe è diventato un’esperienza emotiva. E questa esperienza emotiva si risolve alla fin fine nella propria autorealizzazione. Il venditore allora racconta una storia che conferma la visione del mondo che il destinatario-consumatore già possiede. Esistono tanti tipi di storie quanti sono i target. Lo spot commerciale dunque, già da tempo, ha smesso di esaltare espressamente la qualità del prodotto, preferendo rappresentare i simboli e lo stile di vita cui si allude. Al consumatore si chiede di completare la storia con l’acquisto.

 

 

Ciò che è in gioco, pertanto, è la percezione che di sé ha il consumatore. E ai vari target quello che viene offerto è il continuare ad essere quello che si è, confermare con l’acquisto la propria stabile identità.

 

 

È a questo punto che l’autore descrive due esempi di targettizzazione rivelatori della situazione odierna pescandoli dal mondo della politica e da quello dell’editoria.

 

 

Nella politica appare paradigmatico l’esempio di un partito come Forza Italia, la cui priorità non era quella di attuare un programma politico definito. Dopo Tangentopoli e l’eclissi della Prima Repubblica si era creato all’improvviso un vuoto e Berlusconi lo voleva occupare, presidiarlo. Nasceva così una nuova formula strutturale: la politica non è più l’attuazione di un programma politico, ma è il presidio di uno spazio sociale, che, guarda caso, corrisponde al segmento di mercato dell’economia (il target).

 

 

Fino a quel momento la politica aveva avuto come scopo quello di orientare la comprensione. A partire da una visione del mondo, un partito cercava di conquistare adepti alla causa. La rivoluzione culturale della politica moderna è il capovolgimento di tale assioma, ora al partito spetta di comprendere l’orientamento.

 

 

Insomma, il moderno scopo della politica sembra essere quello di persuadere le persone delle opinioni che già posseggono. Lo scopo è confermare non convincere, attraverso un partito/azienda, marketing oriented, sensibile alle richieste dell’elettore/consumatore.

 

 

Stesse considerazioni, prendendo ad esempio il mondo dell’editoria, possono essere fatte per il quotidiano La Repubblica che a partire dagli anni novanta cominciò un profondo processo di trasformazione, omologante da un lato, targettizzato dall’altro, diventando una specie di club, consapevole delle preferenze dei suoi lettori, teso a non scuoterli dalla loro pigrizia e a rassicurarli sul loro primato morale ed intellettuale. La Repubblica ha coccolato i suoi lettori, che vogliono sentirsi intelligenti rilevando che il giornalista gli ha espresso l’opinione che lui già possedeva.

 

 

Tutto questo spiega che la targettizzazione della società ha ormai permeato tutti gli ambiti e ha prodotto come risultato un’ingessatura globale da cui bisogna liberarsi.

 

 

Bisogna insomma cercare di detargettizzare la società ricorrendo a due strumenti ancora liberi dalla schiavitù del target: il link e la metropolitana.

 

 

Il link è il collegamento che da un sito Internet consente di passare a un sito diverso. In genere i link sono affini al contenuto del sito che li contiene. Ma se si comincia a girovagare passando da un sito all’altro si arriverà attraverso i link anche a siti opposti come contenuti a quello di partenza. Questo saltabeccare assomiglia molto a quel gioco della Settimana Enigmistica “il Bersaglio” che si risolve partendo da una parola e concatenando logicamente tutte le altre fino a quella posta al centro. I risultati sono sorprendenti e dimostrano quanto si possa andare lontano con semplici correlazioni. Detto di sfuggita il gioco della Settimana Enigmistica ha molte affinità con il target che viene associato visivamente proprio ad un bersaglio.

 

 

Insomma il link è una ramificazione ingovernabile, un anarchismo benefico che ci permette di spaziare. È un motore randomico di curiosità varie. Uno strumento contro la stasi, il blocco, l’immobilismo del mondo targettizzato.

 

 

La metropolitana attrae utenti senza distinzione di ceto. La sua estetica è fatta di stratificazioni in apparenza inconciliabili. Mette insieme punk, impiegati, studenti, massaie, professionisti. Tutti insieme appassionatamente pigiati in vagoni a classe unica. Mischiatevi, unitevi, superate le vostre classi sociali, liberatevi dal target sembra dire la carrozza affollata e sudaticcia. La metropolitana collega poi le lontane periferie con il centro. Permette al coatto di turno di mischiarsi alla folla dei salottieri fighettoni del centro. Insomma rende più difficoltosa la ghettizzazione.

 

 

Così chi pensa che il principio del target sia una sciagura si troverà ad auspicare che il link e la metropolitana si sviluppino esponenzialmente.

 

 

Ma «perché la detargettizzazione abbia un significato più profondo è necessario che il link e la metropolitana divengano metafore dell’organizzazione sociale. Bisogna linkizzare e metropolitanizzare la nostra laser-target_fondo-magazinevita. Linkizzare vuol dire che la comunicazione volta ad orientare l’individuo deve essere accompagnata da una segnaletica d’uscita che conduce ad orientamenti differenti. Metropolitanizzare significa che i gruppi vengano indotti a confondersi, incrociarsi, mischiarsi».

 

 

Detto questo l’autore, a titolo d’esempio, ipotizza alcune leggi detargettizzanti, che costituiscono il senso (anche se un po’ straniato) del saggio. Ne elenco alcune come dessert.

 

 

Detargettizzazione dei giornali. In ogni quotidiano va inserita una pagina con commenti di senso opposto all’orientamento del quotidiano stesso. Come dire che ne “La Repubblica” il lettore si troverà una pagina intera di “Libero” e viceversa. Questa pagina è un link, una possibile via d’uscita dall’asfittico e ripetitivo clima del quotidiano.

 

 

Detargettizzazione della merce. Ogni impresa dovrebbe avere l’obbligo di erogare un contributo compensativo, da utilizzarsi per temperare il perseguimento del suo intento di separazione sociale. Per esempio il produttore di un’auto di lusso dovrebbe promuovere una pubblicità che inviti all’uso del treno o della bicicletta, da divulgarsi sugli stessi spazi utilizzati per pubblicizzare l’attività principale. Questa pubblicità compensativa potrebbe essere definita scompaginante, perché introduce richiami trasversali all’interno del target. Si configurerebbe come una vera e propria tassa sul target.

 

 

Detargettizzazione del brand. I prodotti firmati che devono costare molto perchè sono diventati degli status symbol dovrebbero essere affiancati dal mercato del falso. Poche cose sono scompaginanti come il falso ed è per questo che una decisa azione di detargettizzazione sociale deve passare per una sua riabilitazione anche legale. Costituire delle zone franche in cui vendere liberamente i falsi dovrebbe essere ammesso. La legalizzazione, anche parziale, del falso annichilirebbe il potere del brand.

 

 

Detargettizzazione dell’ìinfanzia. La scuola privata funge da targetizzatore e tende ad assecondare supinamente la domanda pedagogica dei genitori. È pertanto fondamentale che la frequenza scolastica avvenga, per tutto il ciclo elementare all’interno della scuola pubblica. Alla scuola privata dovrebbe essere imposto uno spazio gestito dalla scuola pubblica, in funzione di link. Ma per non creare scuole pubbliche differenziate nella qualità, per effetto delle differenze di quartiere e di ceto, gli istituti dovrebbero mescolare la popolazione, collocando gli studenti borghesi accanto a quelli dei ceti popolari. Una scuola di periferia deve definirsi tale solo per la sua collocazione geografica e non perché rappresenta un campione umano già destinato alla marginalità.

 

 

L’autore però, nel suo elenco, dimentica forse la prima e più importante legge da mettere in atto. Bisognerebbe detargettizzare le imprese del sistema capitalistico, immettendo nei consigli di amministrazione una buona rappresentanza di lavoratori dipendenti ed imponendo una partecipazione agli utili da parte degli stessi. Solo così si potrà poi procedere con ulteriori tappe verso la decolonizzazione sociale dal target e dalle sue catene omologanti. Ma questo, forse, sarebbe stato chiedere troppo.

 

 

 

 

 


 

 

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