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Nell'ideale della ragazza acerba e maschietta l'inconscia nostalgia dell'Androgino primordiale

di Francesco Lamendola - 24/12/2008


 

Che cos'hanno in comune un romanzo di amore e avventura di Jack London e l’arcana saggezza della “coincidentia oppositorum” di Nicolò da Cusa, un arduo concetto filosofico secondo il quale la perfezione è nella totalità che integra e risolve in se stessa ogni differenziazione di genere, di specie, di spazio e tempo?
Nulla, forse; o forse qualcosa.
Nel romanzo «Adventure», del 1911, Jack London ci presenta un ritratto di fanciulla acerba e maschietta, ma deliziosamente attraente nella sua fresca spigliatezza di adolescente che ancora non si è aperta al mistero della piena femminilità.
Per renderla ancora più seducente attraverso la poetica dei contrasti, la adorna di un grande cappello da cow-boy: trovata addirittura profetica, visto il successo che una tale moda avrebbe acquistato più di mezzo secolo dopo (si pensi solo, nel cinema, al film “Urban Cowboy”, con una Debra Winger che indossa appunto un tale copricapo).
E non basta: le cinge in vita un cinturone con tanto di pistola di grosso calibro: un tipico simbolo del potere (e della violenza) maschile, che ne fa risaltare ancor di più la giovinezza e la tenera, ma solo apparente, fragilità femminile.
Quando poi ci informa che ella, fin da piccola, si cimenta nelle gare di nuoto sulle grandi onde dell’Oceano Pacifico; che cavalca come un ragazzo; che sa affrontare qualunque situazione con piglio deciso, compresa una banda di indigeni cannibali; che la pistola non la tiene solo per ornamento, ma la sa usare, come sa usare il fucile, dato che la caccia è uno dei suoi passatempi preferiti: allora il quadro del suo atletismo viriloide risulterà completo.

Ma ecco la descrizione di Joan, la protagonista femminile del romanzo di Jack London «Adenture», così come appare al protagonista maschile, il piantatore Sheldon, il quale - ovviamente - se ne innamora quasi subito («Avventura», traduzione italiana a cura dei Fratelli Melita Editori, La Spezia, 1988, pp. 25, 69-70, 124):

«La donna - una fanciulla, come la giudicò Sheldon - veniva avanti lungo la veranda verso di lui. I due uomini si fermarono in cima alla gradinata osservandolo curiosamente. La fanciulla era evidentemente irritata. I suoi occhi grigi sfavillavano e le sue labbra fremevano.. Egli pensò subito che doveva essere quel che si dice un carattere. Specialmente gli occhi lo colpirono. Non erano proprio grigi, anzi, non lo erano affatto. Erano grandi e spalancati e lo fissavano di sotto le sopracciglia lisce. Il suo viso faceva pensare ad un cammeo, tanto era stagliato con nitidezza.
Ma vi erano altre cose che lo colpivano nel suo aspetto: il cappellone da "cow-boy", le ciocche pesanti di capelli bruni, la rivoltella  Colt 38 a canna lunga, che pendeva nel fodero della sua cintura. […]
… egli le domandò di passargli la carne in conserva, non perché avesse proprio fame, ma per  ma per osservare più da vicino quelle dita sottili e forti, nude di gioielli e di braccialetti di metallo, e la curva dell'avambraccio, di cui appariva, sotto la manica, l'estremità che terminava  in un polso liscio e rotondo non ancora sfigurato dal reticolato delle vene che dimostrano che la giovinezza sta ormai passando: quelle dita brune, conciate che sembravano quelle di un ragazzo. Poi, improvvisamente, egli capì. Sì, era quello, egli aveva capito il segreto della seducente personalità di lei. Le dita abbronzate dal sole parlavano chiaro.
Non c'era da meravigliarsi che ella lo avesse così frequentemente esasperato. Egli aveva cercato di trattarla come una donna, quando invece non lo era ancora. Era una ragazzetta, una specie di maschietto, dalle dita abbronzate dal sole, che voleva imitare tutto ciò che fanno i ragazzi; ne aveva la corporatura, i muscoli, le piaceva nuotare, temprarsi in esercizi violenti di ogni genere; uno spirito ardito ma che non osava più oltre delle avventure dei ragazzi e che si divertiva con l'ostentare fucili, rivoltelle, cappelloni, e amicizia senza sesso con gli uomini.
Non sapeva perché, ma mentre rifletteva osservando, gli pareva di essere in chiesa, nella sua patria, ad ascoltare il canto dei ragazzi del coro. Ella gli ricordava i chierichetti o piuttosto la loro voce, senza sesso. Era donna nel corpo, ma con la mente non ancora evoluta. Non era mai stata esposta ad influenze che avessero maturato in lei il sesso. Non aveva conosciuto la madre. Von, suo padre, i servi indigeni, la rude vita isolana l'avevano formata. Cavalli e fucili erano stati i giocattoli, i campi e la caccia la sua palestra. Secondo quel che aveva raccontato, i giorni di collegio erano stati un esilio dedito allo studio e pieno di nostalgia per le cavalcate violente  e le partite di nuoto ad Hawai. Un'educazione da ragazzo insomma, ed una mentalità da ragazzo. Era questo che spiegava il suo odio alle sottane,  la sua ribellione contro tutto quello che era soltanto decentemente convenzionale. Un giorno o l'altro si sarebbe sviluppata, ma ora era ancora in via di sviluppo.  Non gi rimaneva che una cosa da fare: considerarla solamente un ragazzo  e non fare lo sbaglio di trattarla come una donna.
Egli si domandò se gli sarebbe piaciuta la sua figura di donna dopo che in lei  si fosse sviluppato il fiore della femminilità; e si domandò se gli era possibile amarla così come era, ed essere lui a destarla. […]
Egli rigirò la lettera, esaminando la calligrafia in modo che non era solito fare. - Com'è caratteristica, pensò, esaminando gli scarabocchi da ragazzetto , molto chiari, faticosamente chiari, ma da ragazzo.. La chiarezza dei caratteri gli fece ricordare i lineamenti di lei: le sopracciglia nettamente disegnate, il naso nitidamente cesellato, la chiarezza dello sguardo, le labbra dalla linea ferma e delicata, la gola né  esile né robusta, ma, pensò, ben proporzionata e perfettamente adattata a sorreggere un tale capolavoro. Guardò  a lungo il nome - Giovanna Lackland - un insieme di caratteri, di lettere comunissime che generava un sottile e inebriante incanto, che penetrò nel suo cervello, si attorcigliò nel suo processo mentale, finché tutto il suo essere in quel momento s'espanse d'amore per quella firma scarabocchiata. Pochi segni comunissimi, eppure gli facevano sentire una mancanza dolcemente dolorosa, che si manifestava in vaghi slanci spirituali ed in una smania deliziosa.  Giovanna Lackland! Ogni volta che guardava quella firma, rivedeva lei, , in mille momenti, in mille pose: dentro e fuori della burrasca schiumante che l'aveva fatta naufragare con il suo "schooner"; in barca diretta alla pesca; mentre usciva tutta gocciolante dal mare, la chioma grondante, i vestiti appiccicati, correndo verso la doccia d'acqua fresca; mentre metteva in fuga ottanta cannibali con una bottiglia vuota di clorodina;  o insegnava a Ornfin come si faceva il pane; o mentre appendeva il suo cappellone di paglia e la cartucciera con la rivoltella al solito chiodo della sola, parlando gravemente di come voleva guadagnarsi il focolare e la sella, chiacchierando puerilmente di romanticismo e di avventure, gli occhi scintillanti, il viso rosso e ardente di entusiasmo. Giovanna Lackland! Egli meditò a lungo su quel miracolo criptografico, fin quando tutti i segreti dell'amore gli apparvero chiari ed egli provò una forte simpatia per gli innamorati che incidono i loro nomi sugli alberi o li scrivono sulla sabbia della spiaggia.»

Ovviamente, la “spiegazione” più semplice, ma anche più banale, dell’esaltazione di un tale modello di ragazza-maschio (psicanalisti, sbizzarritevi!), risiede in una omosessualità latente da parte dell’Autore, che, in un tale tipo femminile, avrebbe trovato un compromesso accettabile fra le proprie pulsioni inconsce “proibite” e la donna come tradizionale oggetto del desiderio.
Tale è l’interpretazione, piuttosto ovvia, di Robert Barltrop, il quale vede nel ritratto di Joan una trasposizione della seconda moglie dello scrittore americano, Charmian Kittredge, la quale sapeva nuotare, cavalcare e perfino fare a pugni col marito, così come a lui piaceva; e che mai gli si presentò nelle vesti della “lamentosità” o della debolezza femminili, sempre per venie incontro agli espliciti desideri di lui.
In effetti, sarebbe difficile immaginare una confessione più ingenuamente eloquente  di quella contenuta nella frase, pensata da Sheldon (palese “alter ego” dello stesso Jack London) assorto nella contemplazione di Joan: «Egli si domandò se gli sarebbe piaciuta la sua figura di donna dopo che in lei  si fosse sviluppato il fiore della femminilità; e si domandò se gli era possibile amarla così come era, ed essere lui a destarla».
Secondo Robert Barltrop, nel suo libro «Jack London. L'uomo, lo scrittore, il ribelle» (titolo originale: «Jack London the Man, the Writer, the Rebel», London, Pluto Press, 1976; traduzione italiana di Nora Sigon, Milano, Gabriele Mazzotta Editore, 1978, pp. 105-106), Jack London era costituzionalmente incapace di amare le donne in quanto tali, per cui necessitava per forza di un sostituto dell’ideale compagno maschile: la donna-maschio, la ragazza asessuata capace di un’amicizia cameratesca, proprio come un uomo:

«Riusciva a capire l'amore come manifestazione simile e ad essergli fedele.  Ma quando l'amore assumeva forme più complesse, che richiedevano un coinvolgimento emotivo, Jack si sentiva escluso e disorientato ed arrivava a dichiarare  con rabbia che tutto era una illusione. Ci fu un altro elemento nella sua dedizione a Charmian; a Jack non piacevano le donne. In alcuni periodi  ebbe rapporti sessuali con uomini. Charmian  ne era al corrente; fece riferimento a una "anomalia dei suoi duri giorni della giovinezza".
In una lunga lettera introspettiva a Charmian durante i primi anni del matrimonio, Jack scrisse: "Ho avuto i rapporti più liberi, parecchie volte, con uno o due uomini e con una o due donne." Il suo desiderio per il grande Uomo-Compagno persisteva, e si manifestò più chiaramente nella sua amicizia con George Sterling. Ma la combinazione di un corpo forte e atletico e di una spiccata sessualità che trovò che trovò in Charmian sembrano aver soddisfatto le tendenze omosessuali che Jack senz'altro ebbe.»

Questa, però - come abbiamo sopra accennato - è la spiegazione più immediata e più facile, ma non necessariamente la più soddisfacente e la più profonda.
Infatti, l’ideale della ragazza acerba e “maschietta” ricorre, nell'immaginario maschile, in moltissime opere letterarie, pittoriche ed anche cinematografiche, a testimonianza di una perennità che vorremmo definire “archetipica” e che esorbita, in quanto tale, dal caso specifico del singolo autore che l’ha concepito e rappresentato.
In altri termini, sia che nell’inconscio di Jack London si agitassero i fantasmi di una sessualità omofila parzialmente repressa dalla censura de Super-Io, sia che le cose stessero altrimenti, la descrizione della ragazza-maschio che egli tratteggia nel romanzo «Adventure» travalica la situazione in esso descritta e attiene a una sfera dell’immaginario maschile che è universale e, a ben guardare, non solo di natura sessuale, poiché attinge a un mito antichissimo, quello dell’androgino primordiale quale espressione di totalità e completezza.
Qualcuno potrebbe obiettare che, fra il modello della "maschietta", seducente proprio perché acerba (divenuto addirittura un luogo comune nell'arte moderna, specialmente nel cinema) e il mito dell'androgino studiato da antropologi e storici delle religioni, il passo è un po' troppo lungo; e che stiamo gettando dei ponti fra rive che non possono incontrarsi, perché appartengono a piani di realtà del tutto diversi.
Noi non lo crediamo; e siamo propensi, al contrario, a ipotizzare che quelle rive non devono appartenere a due mondi del tutto diversi, se è vero - come è vero - che, "mutatis mutandis", i miti e i riti dell'immaginario collettivo traggono origine da un fondo comune (l'inconscio collettivo di junghiana memoria?) che è inscritto nella natura essenziale dell'uomo e che si esprime, volta a volta, in differenti contesti storici, assumendo evidentemente forme che appaiono diverse, ma che scaturiscono da una stessa matrice.
In altri termini, non sono i simboli archetipici a cambiare, ma la maniera che hanno i diversi contesti culturali di esprimerli; per cui il compito dell'antropologo dovrebbe essere, appunto, quello di riconoscere, dietro certe dissomiglianze esteriori, la comune origine di essi e la tendenza ad esprimersi attraverso variazioni estemporanee, le quali tuttavia non ne intaccano l'unità di fondo.
Ora, noi sappiamo che non è certo stato Platone ad "inventare" il mito dell'androgino primordiale, che era un essere umano perfetto proprio perché conteneva in sé tanto l'elemento maschile che quello femminile; ma che tale mito è antichissimo e investe un po' tutte le culture pre-cristiane; che penetra anche in ambito cristiano, mediante le varie forme dello gnosticismo (e se ne trovano tracce perfino nel Nuovo Testamento); che era parimenti diffuso presso innumerevoli popolazioni native, dall'Australia alle due Americhe, dall'Africa all'Asia.
Sia nelle religioni antiche (specialmente nei culti misterici), sia in quelle native e particolarmente in quelle sciamaniche (dalla Siberia al doppio continente americano), era largamente diffusa la credenza che non solo l'uomo primordiale, ma le stesse divinità fossero, in origine, androgine. Ciò accadeva prima della creazione del mondo; e fu solo in seguito ad essa che, ad esempio, nei "Veda" e nella cultura indiana antica sorse la differenziazione fra i "deva", ossia gli dei buoni, e gli "asura",  gli dei malvagi.
Proprio per ricostituire simbolicamente la perduta perfezione e l'unitarietà originaria, esistevano dei riti di androginazione che, in un certo senso, si possono considerare speculari e complementari a quelli di iniziazione. Con i riti di iniziazione, infatti, l'individuo entrava a far parte del mondo degli adulti, acquisendo una distinzione di genere - maschile e femminile - che, prima, non possedeva (i bambini, infatti, erano considerati asessuati). Viceversa, con i riti di androginazione si mirava a restituire l'individuo alla sua unità indifferenziata originaria, considerata una condizione assai più perfetta di quella realizzatasi sul piano dell'esistenza «storica».
Più precisamente, il rito di androginazione precedeva e integrava quello di iniziazione; nel senso che solo dopo aver ricostituito, simbolicamente, l'androginia originaria, era poi possibile entrare definitivamente e a pieno titolo nel genere maschile o in quello femminile. Presso certe tribù australiane, ad esempio, lo stregone incideva una piccola ferita nell'organo sessuale maschile dei ragazzi, in modo da simulare una vagina; dopo di che, la circoncisione sanzionava il definitivo ingresso nell'universo maschile. Il concetto sotteso a un tale rito è, evidentemente, che non si può divenire completamente maschi (o completamente femmine) se, prima, non si è fatta l'esperienza dell'unità originaria indifferenziata.
È ovvio che la distinzione di genere non valeva per lo sciamano il quale, specialmente in area siberiana, indossava sovente abiti femminili e giungeva a sposarsi con un uomo, per simboleggiare la ritrovata androginia primordiale quale strumento di accesso alla dimensione dei celesti e, in genere, della realtà soprannaturale. In un tale contesto culturale (così frequentemente frainteso ed equivocato dagli occidentali, che lo giudicavano dall'esterno in base alle proprie credenze e alle proprie norme etiche), l'ambiguità sessuale dello sciamano era vista come un attributo di piena armonia e di potenza magica e la sua bisessualità, non che un difetto, appariva come un segno distintivo della sua condizione privilegiata.
Uno studioso di grandissima statura, che si è occupato di tale problematica, è stato il romeno Mircea Eliade, uno dei più grandi antropologi e storici delle religioni del XX secolo, famoso soprattutto per i suoi studi sullo sciamanesimo e sulle tecniche dell'estasi.
Scriveva Mircea Elide nel libro «Mefistofele e l’Androgine» (titolo originale: «Mephistopheles et l’Androgyne», Paris, Gallimard, 1962; traduzione italiana di Enrico Pinto, Roma, Edizioni Mediterranee, 1971, pp. 89-90, 94-99):

«”Séraphita” è senza dubbio il più affascinante dei romanzi fantastici di Balzac. Non certo a causa delle teorie di Swedenborg di cui è imbevuto, ma perché Balzac è riuscito a illuminare con la luce dell’arte un tema fondamentale dell’antropologia arcaica: l’androgino considerato come l’immagine esemplare dell’uomo perfetto. Si noti il quadro e il soggetto del romanzo. In un castello al limite del villaggio di Jarvis, vicino allo Stromfjord, viveva un essere strano, bello, di una bellezza mutevole e malinconica. Come alcuni personaggi di Balzac, egli sembrava nascondesse  un terribile “segreto”, un “mistero” impenetrabile. Ma questa volta non si tratta più di un “segreto” simile a quello di Vautrin. Il personaggio di “Séraphita” non è un uomo consumato dal proprio destino e in conflitto con la società. È un essere qualitativamente diverso dal resto dei mortali e il suo “mistero” si collega non a certi episodi tenebrosi del suo passato, ma alla  stessa struttura della sua esistenza. Infatti il misterioso personaggio ama Minna e ne è rimato: ella lo vede come un uomo, Séraphitus;  ma egli è amato anche da Wilfred, agli occhi del quale egli è donna, Séraphita.
Questo perfetto androgino era nato da genitori che erano stati discepoli di Swedenborg. Benché non fosse mai uscito dal suo fiordo, non avesse letto alcun libro, parlato con alcun sapiente, né praticato alcuna arte, Séraphitus-Séraphita dava prova di un’erudizione considerevole e le sue facoltà mentali superavano quelle degli altri mortali. Balzac descrive con patetica ingenuità le qualità di questo androgino, la sua vita solitaria, le sue estasi contemplative. Tutto questo basandosi evidentemente sulle dottrine di Swedenborg, poiché il romanzo fu scritto soprattutto per illustrare4 e commentare le teorie swedenborghiane sull’uomo perfetto. Ma l’androgino di Balzac appartiene ben poco alla terra. La sua vita spirituale è tutta rivolta verso il cielo. Séraphitus-Séraphita vive solo per purificarsi e per amare. Benché Balzac non lo dica espressamente, si comprende che Séraphitus-Séraphita non può abbandonare la terra prima di aver conosciuto l’amore. Può darsi che si tratti dell’ultima, più preziosa perfezione: amare realmente e congiuntamente due esseri di sesso diverso. Amore serafico evidentemente, ma non per questo amore astratto, impersonale. L’androgino di Balzac ama due persone ben distinte; resta dunque nel mondo concreto, nella vita. Qui, su questa terra, non è un angelo: è un uomo perfetto, cioè un “essere totale”. […]… nei suoi “Dialoghi d’Amore”, Leone Ebreo aveva tentato di riallacciare il mito dell’androgino di Platone alla tradizione biblica della caduta, interpretata come una dicotomia dell’Uomo Primordiale. Una dottrina diversa, ma parimenti centrata sull’unità primitiva dell’essere umano, era stata sostenuta da Scoto Eriugena, che peraltro si era ispirato a Massimo il Confessore. Per Eriugena, la divisione dei sessi faceva parte di un processo cosmico. La divisione delle Sostanze era cominciata in Dio be si era sviluppata progressivamente fino a raggiungere la natura dell’essere umano, che così fu differenziata in maschio e femmina. Per questo la riunione delle Sostanze deve cominciare nell’uomo ed essere realizzata di nuovo su tutti i piani dell’essere, incluso quello divino. In Dio non esiste più divisione, poiché egli è il Tutto e l’Uno. Per Scoto Eriugena, la divisione dei sessi fu una conseguenza del peccato, ma avrà termine con la riunificazione dell’uomo, a cui seguirà la riunione escatologica del mondo terrestre con il Paradiso. Il Cristo avrebbe anticipato questa reintegrazione finale. Scoto Eriugena cita Massimo il Confessore, secondo cui il Cristo avrebbe riunito i due sessi nella sua natura, perché, risuscitando, non era più “né maschio, né femmina, benché fosse nato e morto maschio”.
Ricordiamo anche che diversi “Midrashim” presentarono Adamo come androgino. Secondo il “Bereshit rabba”, “Adamo ed Eva erano stati creati schiena contro schiena, uniti per le spalle; poi Dio li separò con un colpo di ascia dividendoli in due. Altri sono di diverso parere: il primo uomo (Adamo) era maschio nella parte destra e femmina nella parte sinistra; ma Dio lo divise in due metà. Però furono soprattutto alcune sette gnostiche cristiane a dare all’idea dell’androgino un posto eminente nelle loro dottrine. Secondo le notizie tramandate da Sant’Ippolito, Simon Mago chiamava lo spirito primordiale “arsenothelys”, “maschio-femmina”. Del pari i Nasseni concepivano l’Uomo celeste, Adamas, come un “arsenothelys”. L’Adamo terrestre non era che l’immagine dell’archetipo celeste: ance lui era quindi androgino. Dato che gli uomini discendono da Adamo, l’”arsenothelys” esiste virtualmente in ogni uomo e la perfezione spirituale consisterebbe proprio nel ritrovare in sé questa androginia. Lo Spirito supremo, il Logos, era anch’esso androgino. E la reintegrazione finale, “tanto delle realtà spirituali quanto di quelle animali e materiali, avrà luogo in un uomo, in Gesù figlio di Maria” (“Refutatio”, V, 6). Secondo i Nasseni, il dramma cosmico si articola in tre fasi: 1) il Logos preesistente come totalità divina e universale; 2) la caduta, avente per risultato la frammentazione della Creazione è la sofferenza; 3) l’arrivo del Salvatore, che reintegrerà nella loro unità gli infiniti frammenti che attualmente costituiscono l’Universo. Per i Nasseni, l’androginia  solo un grandioso processo di totalizzazione cosmica.
Nell’”Epistola di Eugnosto il Beato” , dela quale sono stati recentemente scoperti a Khenoboskion due manoscritti, il Padre genera da solo un essere umano androgino.” Questo figlio  il Padre primo generatore, il Figlio dell’Uomo, chiamato anche ‘Adamo della Luce (…) Egli si riunisce con la sua Sophia e produce una grande luce androgina che nel suo nome maschile è il Salvatore, creatore di tutte le cose, e nel suo nome femminile e Sophia, la generatrice di tutto, chiamata anche Pistis. Da queste due entità vengono generate sei altre coppie di spiriti androgini che a loro volta producono prima 72, poi 360 altre entità”. Come si vede, si tratta di uno sviluppo che comincia con un Padre androgino e che si ripete a livelli sempre più bassi (più lontani dal “Centro” dove si trova il Padre autogeneratore).
L’androginia è parimenti attestata nel “Vangelo di Tommaso”, che, pur non essendo propriamente un’opera gnostica, attesta l’atmosfera mistica del cristianesimo nascente. Rimaneggiata e reinterpretata, questa opera fu peraltro abbastanza popolare fra i primi gnostici; la traduzione in dialetto saidico figurava nella biblioteca gnostica di Khenoboskion. Nel “Vangelo di Tommaso”, Gesù, volgendosi ai suoi discepoli, Gesù dice loro: “Quando dei due voi farete uno; quando farete il dentro come il fuori e il fuori come il dentro, e l’alto come il basso; quando farete del maschio e della femmina un solo essere, sì che il maschio non sia più maschio e la femmina non sia più femmina, solo allora voi entrerete nel Regno”. In un altro “logion” (n. 108, ed. Puech; n. 103 Grant), Gesù dice: “Quando voi farete in modo che i due siano uno, voi diventerete i figli dell’Uomo e se voi direte: ‘Montagna, spostati!’, essa si sposterà” (Doresse, II, p. 109, n. 110). L’espressione “diventare uno” ricorre altre tre volte (log. 4 Puech; 3 Grant; 10 Grant; 11 Puech; 24 Grant; 23 Puech). Il Doresse fa alcuni raffronti col Nuovo Testamento (“Giovanni XVII, 11; XX, 23; “Romani”, XII, 4-5; “Corinzi”, XII, 27, ecc.) Ma soprattutto un passo dell’”Epistola ai Galati” (III, 28) è importante: “Non vi è più né Ebreo n Greco, né schiavo né uomo libero, né maschio né femmina; poiché voi tutti non siete che uno nel Cristo Gesù”. È l’unità della creazione all’inizio, prima della creazione di Eva, quando l’”uomo” non era né maschio né femmina (Grant, p. 144). Secondo il “Vangelo di Filippo” (codice X di Khenoboskion), la separazione dei sessi – la creazione di Eva separata dal corpo di Adamo - è stata l’inizio della morte. “Il Cristo  venuto per ristabilire ciò che  stato così (separato) all’inizio e per unire di nuovo i due. A coloro che sono morti perché erano stati divisi, renderà la vita riunendoli!” (Doresse, II, p. 157).
Altri testi contengono passaggi simili sulla riunione dei sessi quali sindrome del Regno. “Interrogato da qualcuno su quando verrà il Regno, il Signore stesso rispose: ‘Quando i due saranno uno, il fuori come il dentro e il maschio con la femmina né maschio né femmina’” (“II Epistola di Clemente", cit. Doresse, II, 157). La citazione contenuta nell’”Epistola di Clemente” deriva probabilmente dal “Vangelo secondo gli Egizi” d cui Clemente d’Alessandria ci ha conservato questo passaggio: “Avendo chiesto Salomé quando sarebbero state conosciute le cose di cui egli parlava, il Signore disse: ‘Quando calpesterete la veste della vergogna e quando i due diventeranno uno, e il maschio con la femmina non sarà né maschio né femmina’” (“Stromates”, III, 13, 92; Doresse II; 158).
(…) Si sa che le fonti dello gnosticismo sono assai diverse; accanto alla Gnosi ebraica, alle speculazioni sull’Adamo primordiale e sulla Sophia, troviamo l’apporto di dottrine neo-platoniche e neo-pitagoriche e influenze orientali, soprattutto iraniche. Ma, come abbiamo visto or ora, San Paolo e il Vangelo di Giovanni annoveravano già l’androginia fra le caratteristiche della perfezione spirituale. Infatti, divenire “maschio” e “femmina” o non essere “né maschio né femmina”, sono espressioni plastiche attraverso le quali il linguaggio cerca d descrivere la “metánoia”, la “conversione”, il rovesciamento totale dei valori. È tanto paradossale essere “maschio e femmina” quanto ritornare bambino, nascere di nuovo o passare dalla “porta stretta”.
Evidentemente concezioni simili ebbero corso anche in Grecia. Nel “Convito” (189E-193D), Platone descrive l’uomo primordiale come un essere bisessuale a forma sferica. Ciò che interessa la nostra ricerca, è il fatto che, tanto nella speculazione metafisica di Platone quanto nella teologia di un Filone di Alessandria; presso i teosofi neoplatonici e neopitagorici come presso gli ermetismi che si proclamavano seguaci di Ermete Trismegisto o di Pimandro, o presso molto gnostici cristiani, la perfezione umana era immaginata come un’unità non scissa. D’altronde questo non era che un riflesso della perfezione divina, del Tutto-Uno. Nel “Discorso perfetto”, Ermete Trismegisto rivela ad Asclepio che “Dio non ha un nome o, piuttosto, li ha tutti, poiché è insieme Uno e Tutto. Infinitamente ricco della fecondità dei due sessi, egli genera sempre tutto ciò che si propone di creare.”
“Che cosa dici? Dio possiede i due sessi, o Trismegisto?”. “Sì, Asclepio, e non solo Dio, ma tutti gli esseri animali e vegetali” (“Corpus Hermeticum”, II, 20).
Questa idea della bisessualità universale, conseguenza necessaria dell’idea della bisessualità divina in quanto modello e principio di ogni esistenza, può illuminare tutta la nostra ricerca, perché, in fondo, in una concezione simile è implicita l’idea che la perfezione, quindi l’Essere, consiste in fondo in una unità-totalità. Tutto ciò che è in senso eminente deve essere totale, il che comporta la “coincidentia oppositorum” a tutti i livelli e in ogni contesto. Qusta coincidenza si verifica tanto nell’androginia degli dèi quanto nei riti di androginazione simbolica, oltre che nele cosmogonie che spiegano i mondo partendo da un Uovo cosmogonico o da una totalità primordiale in forma di sfera. Si incontrano idee, simboli e riti del genere non solamente nel mondo mediterraneo e dell’antico Medio Oriente, ma anche in numerose culture esotiche e arcaiche. Una diffusione simile può spiegarsi solo col fatto che questi miti presentavano un’immagine soddisfacente della divinità, o della realtà ultima, quale totalità indivisa, o spingevano, nel contempo, l’uomo ad avvicinarsi a questa plenitudine attraverso riti o tecniche mistiche di reintegrazione.»

A conclusione di questo discorso possiamo, anzi, dobbiamo ricordare che il mito dell'androgino e i relativi riti di androginazione sono collegati per molti aspetti con un altro mito primordiale e con un altro simbolo sacro della Tradizione: quello dell'Albero Cosmico.
Infatti, la preservazione dell'Albero Cosmico è la condizione di ordine e di equilibrio che consente all'universo di sussistere, evitando di precipitare nel caos  e nella dissoluzione dell'indeterminatezza; indeterminatezza che, però - come abbiamo visto - precede, storicamente e ontologicamente, l'origine e il divenire delle cose, compresa la distinzione dei generi maschile e femminile.
In altri termini, la realtà primordiale - Dio, se così vogliamo esprimerci, anteriormente alla creazione - è l'assolutamente indifferenziato; con la creazione, subentra la determinatezza, che è un attributo necessario della realtà materiale; ma l'universo tende al reintegro nella realtà originaria, nell'Uno indifferenziato dal quale tutto proviene e al quale tutto anela a rientrare.
Considerato in questa ottica, il mito moderno della ragazza acerba e maschietta, dotata di qualità atletiche (come nel romanzo citato di Jack London) e, perciò, a stento distinguibile da un ragazzo, sia nell'aspetto fisico che nelle prestazioni sportive, ci appare come qualche cosa di più di una semplice sublimazione di tendenze omosessuali presenti nel maschio.
Se ci è lecito concludere tirando in ballo anche Jung, diremmo che il processo di individuazione, culminante col reintegro nel Sé di tutte le parti distinte della personalità, compreso l'"animus" (l'elemento maschile presente nella donna) e l'"anima" (l'elemento femminile presente nell'uomo), tende a confermare - crediamo - la tesi qui esposta: che, cioè, il vagheggiamento di un certo modello femminile, apparentemente asessuato ma, in realtà, carico di seduzione erotica,  non sia altro che la spia di una inconscia nostalgia verso quella completezza originaria che, appunto, nel mito platonico dell'androgino trova la sua espressione letteraria più celebrata e persuasiva.