L’Europa che non vogliamo e lo spettro Bolkestein
di Luigi Tedeschi - 19/02/2006
Fonte: Italicum
Si dice che l’Europa non esista, che essa sia solo un mercato ma non uno Stato, che sia priva di una politica comune e viva sotto tutela statunitense. L’attuale Europa si identifica con la UE, è stata concepita come un’area economica parte integrante del villaggio globale, che a colpi di direttive liberiste debba essere omologata gradualmente al capitalismo americano. Pertanto l’Europa esiste quale monstrum economico imposto da un totalitarismo ideologico liberista teso a sradicare ciò che rimane delle culture e delle identità delle nazioni. Parlare di Europa dei popoli è un non senso, poiché la politica della UE persegue finalità opposte. La direttiva Bolkestein ne è un esempio eclatante.
La normativa
La ratio della direttiva Bolkestein, adottata dalla Commissione europea il 13/01/2004 ha lo scopo di eliminare le barriere degli Stati UE alla libera circolazione dei servizi e quindi vuole consentire il libero accesso delle imprese nei Paesi membri. La normativa non contiene discriminazioni tra i servizi, sia essi di pubblica utilità (sanità e istruzione) o meno.
- L’art. 2 definisce come servizio “qualsiasi attività economica non salariata… che consiste nel fornire una prestazione dietro un corrispettivo economico”. Il criterio economico presiede dunque alla definizione di ogni attività di servizio.
- L’art. 9 prevede attività soggette a regime dei autorizzazione, ma gli Stati debbono verificare che tale regime non sia discriminatorio e che tali riserve siano giustificate da “motivi imperativi di interesse generale” indispensabili per gli obbiettivi da conseguire.
- L’art. 15 inoltre prevede che gli Stati membri inoltrino rapporti alla Commissione, la quale giudicherà se tali autorizzazioni siano compatibili con il diritto comunitario o vadano soppresse. Le leggi degli Stati in merito ai pubblici servizi sarebbero quindi subordinate alle delibere della UE. La privatizzazione diverrebbe allora la norma e il servizio pubblico l’eccezione.
- L’art. 16 stabilisce il principio del paese d’origine. I prestatori di un servizio infatti, ovunque svolgano la propria attività, sarebbero soggetti alle norme del paese d’origine, che è responsabile della loro applicazione. E’ inoltre fatto obbligo agli Stati membri di non restringere “la libera circolazione dei servizi forniti da un prestatore in un altro Stato membro”.
- L’art. 24 non impone obblighi di registrazione né di conservare documenti sociali nello Stato membro di distacco.
Occorre precisare che destinatarie della direttiva sono le imprese di servizi (manodopera indiretta), ma non la produzione (manodopera diretta). Tuttavia il terziario costituisce il 70% del Pil europeo.
Rileviamo una “singolare” incoerenza in questa direttiva: mentre per quanto concerne le autorizzazioni per attività di pubblico interesse le norme degli Stati devono essere abrogate in virtù della prevalenza su di esse della normativa europea, relativamente alla tutela del lavoro e dei diritti sindacali rimangano in vigore le legislazioni dei singoli Stati, in conformità del principio del paese d’origine. E’evidente l’intenzione di favorire quei Paesi le cui legislazioni hanno minori tutele e offrono maggiore flessibilità del lavoro.
La direttiva Bolkestein è stata elaborata a seguito della consultazione di 10.000 imprese europee, ma nessun sindacato, Ong, o altra organizzazione è stata interpellata. Tale direttiva è stata emanata allo scopo di ridurre vincoli burocratici che ledano la libera concorrenza negli Stati UE; ciò avviene in conformità ai principi stabiliti dal WTO nell’ambito dell’accordo generale sul commercio dei servizi (Gats). La UE quindi, nell’istituire il libero mercato dei servizi europeo, diviene un laboratorio di sperimentazione di economia liberista che,una volta attuati tali principi al suo interno, acquisti nell’ambito mondiale un peso tale da pretenderne la loro applicazione a livello globale. Non riusciamo comunque ad immaginarci un’Europa che imponga agli USA leggi liberiste che pongano fine ai protezionismi americani.
Con la prevalenza della legislazione del paese d’origine, verrebbe abrogato di fatto nella UE il principio della armonizzazione fra le normative degli Stati, già assurto a cardine fondamentale delle istituzioni comunitarie. L’Europa, già artefice dello stato sociale, divenuto parte integrante della propria identità culturale, diverrebbe “stato guida” della globalizzazione neocapitalista. Del resto nell’evoluzione dell’Europa recente, la direttiva Bolkestein è perfettamente coerente con le precedenti direttive riguardo alla libera circolazione dei capitali, dei beni, dei cittadini.
Le contestazioni
Pur essendo favorevoli alla direttiva la maggioranza degli Stati, non mancano contestazioni, anche violente. La Commissione europea non può apportare modifiche, salvo ritirare la direttiva, qualora il testo venisse stravolto nei suoi presupposti nel processo co-decisionale. Il Consiglio europeo e il Parlamento hanno invece il potere di emendarla o abrogarla. Allo stato dei fatti, la Commissione Ambiente ha chiesto l’abrogazione l’abrogazione del principio del paese d’origine ed una nuova direttiva che definisca i servizi di interesse generale. La Commissione Lavoro e Industria si è espressa invece favorevolmente. Nella Commissione Mercato Interno si è fatta esplicita richiesta di sostituire il principio del paese d’origine con quello del reciproco riconoscimento e ristabilire quindi l’armonizzazione delle normative. Tali pronunciamenti hanno però solo valore di pareri interni, poiché sarà il Parlamento europeo a decidere. Pareri contrari sono stati espressi dai governi tedesco e francese, mentre la maggioranza dei 25 (specie i Paesi dell’est), sono favorevoli. Varie mobilitazioni sindacali hanno avuto luogo nei mesi scorsi, ma non è stata elaborata una strategia comune a livello europeo. Il NO francese ed olandese alla costituzione europea, rappresentano fattori che rafforzano l’avversione della opinione pubblica europea verso la direttiva. L’avvento della presidenza inglese alla UE (favorevole “senza se o ma” alla Bolkestein), contribuirà ad accelerare l’iter di approvazione della direttiva al Parlamento europeo. Il governo italiano, pur essendo genericamente favorevole, è rimasto sostanzialmente estraneo alla problematica. Rileviamo, comunque, che la direttiva Bolkestein fu promulgata nel periodo in cui Prodi era presidente della Commissione europea. I sindacati non furono consultati, ma è anche vero che essi non presero alcuna iniziativa perché la UE ascoltasse le loro ragioni. Non risulta peraltro che la Bolkestein sia attualmente oggetto di grande dibattito nei media e nella base popolare.
In realtà tutte le contestazioni sono destinare a non sortire effetti di rilievo, qualora non si pervenga ad una nozione unitaria europea di servizio pubblico generale, che prescinda da concetti di natura esclusivamente economica e quindi dalla loro commercializzazione. Infatti, i servizi di interesse generale (sanità, istruzione etc…), sono intimamente legati ai diritti della persona e come tali indisponibili, in quanto diritti universali riconosciuti.
La ratio e gli effetti della Bolkestein
La ratio della Bolkestein è legata alla esigenza di rimuovere gli ostacoli amministrativi e burocratici che impediscono l’espansione in Europa del commercio dei servizi. Gli alti costi sostenuti dalle imprese europee per ad altri Paesi UE, derivano dalla eterogeneità delle regolamentazioni dei singoli Stati che divengono, nell’ottica della Bolkestein, fattori che determinano il sottodimensionamento degli investimenti nel settore, che potrebbe, secondo i sostenitori della direttiva, aumentare le proprie potenzialità di sviluppo del 30 / 40%. Il settore dei servizi, soffrirebbe di mancanza di innovazione proprio perché le barriere normative impediscono lo svilupparsi della concorrenza. Esso è uno dei fattori di crescita nei Paesi avanzati e nel suo scarso sviluppo risiederebbero le cause dei differenziali negativi della crescita europea (con diretta incidenza sui livelli occupazionali) nei confronti degli USA.
Riguardo alla occupazione gli effetti della Bolkestein sono facilmente prevedibili. La liberalizzazione dei servizi, accentuerebbe la delocalizzazione delle imprese verso Stati in cui i diritti sociali godono di minor protezione sia salariale che nell’abito della previdenza e della sicurezza. E’facilmente ipotizzabile che grandi gruppi dei Paesi avanzati creino nuove imprese nei Paesi dell’est, delocalizzando la propria attività per poi “riallocarla” in Europa occidentale impiegando la manodopera orientale a basso costo. I lavoratori dei Paesi di destinazione subirebbero quindi drastici tagli occupazionali e, sul piano dei diritti sociali, si verificherebbero gravi fenomeni di dumping sociale, dal momento che i lavoratori dell’impresa estera sarebbero soggetti alle normative dei Paesi di origine. Certo verrebbero di fatto abrogati principi costituzionali fondamentali quali l’uguaglianza, quelli legati alla tutela del lavoro, oltre ad essere vanificata la contrattazione collettiva. In Italia si assisterebbe ad una ulteriore privatizzazione del rapporto di lavoro, materia in cui la “legge Biagi” sulla flessibilità ha introdotto già rilevanti deroghe (accodi tra sindacati dei lavoratori e degli imprenditori o pattuizioni individuali), alla normativa statuale ed alla contrattazione collettiva.
Anche in tema di ambiente, le conseguenze sarebbero rilevanti, dato che sarebbe generalizzato in tutta la UE il principio del silenzio – assenso.
In realtà lo scopo della Bolkestein è quello di rendere l’Europa, già refrattaria alle direttive del FMI inerenti la riduzione della spesa pubblica e il passaggio dallo “stato sociale” allo “stato minimo” liberista, omogenea al modello globale neocapitalista, attraverso direttive UE coattive, che prescindono dal consenso politico. Infatti, la problematica del welfare è ovunque materia di politica economica e sociale che necessita del consenso, mentre la direttiva Bolkestein viene imposta dalla Commissione europea, che non è un organo elettivo.
La UE ha realizzato un’unificazione monetaria, che tuttavia non comporta né l’unità politica né l’armonizzazione delle politiche economiche. Non a caso il potere d’acquisto dell’euro rimane diverso da Paese a paese. Pertanto, i livelli dei prezzi, in un mercato libero interno, comporterebbero concorrenza selvaggia nei servizi. Ciò non contribuirebbe certo a rafforzare lo sviluppo dell’economia europea per affrontare la concorrenza asiatica. L’Europa sarebbe dilaniata dalla concorrenza interna, con conseguente ulteriore calo dei consumi dovuto all’estendersi della sottoccupazione e disoccupazione interna.
Gli Stati inoltre sarebbero di fatto inibiti a varare norme a difesa del lavoro e dell’occupazione, dato che la pressione della concorrenza selvaggia indurrebbe le imprese a delocalizzarsi in Paesi a basso costo del lavoro.
La Bolkestein si inquadra nella strategia di un capitalismo europeo che, pressato dalla concorrenza internazionale tende ad omologarsi a quello di oltreoceano, comprimendo al minimo il costo del lavoro, unico fattore di produzione su cui può incidere, data la subalternità dell’Europa alla economia finanziaria americana, alle fluttuazioni del dollaro, ai rincari del greggio e delle materie prime.
La liberalizzazione voluta dalla Bolkestein non contribuirebbe di certo, una volta eliminate le barriere normative, a creare un nuovo mercato aperto e all’emersione di nuovi soggetti economici. Anzi, la concorrenza selvaggia porterebbe a nuovi regimi di monopolio. La globalizzazione liberista genera con il monopolio il suo opposto. Infatti solo i soggetti già predominanti possono sopravvivere nel libero mercato ed estendere la propria influenza, dopo aver fagocitato eventuali concorrenti.
Il capitalismo europeo non è dunque un fattore innovativo della società, ma semmai una elite tesa alla propria autoconsevazione. Esso infatti impone regole dirigiste assai più coattive di qualunque normativa statale di stampo protezionistico. E’ comunque costatabile la scarsa adattabilità dell’Europa al modello neocapitalista, al quale sembra però destinata a soccombere proprio per mancanza di autostima e fiducia nella sua capacità di confrontarsi e scontrarsi con un occidente a cui è estranea.