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Il mistero del Male è essenzialmente il mistero della sua trasformazione nel Bene

di Francesco Lamendola - 03/01/2009

 


Da sempre, gli spiriti più seri e pensosi sono rimasti attoniti e quasi sgomenti di fronte al problema del Male, specialmente del male che colpisce gli innocenti.
I filosofi antichi hanno creduto di esorcizzarlo sostenendo che solo la malvagità e l'ingiustizia costituiscono il male, pertanto la virtù è sempre premio a se stessa: tale, ad esempio, la posizione di Platone. In genere, tuttavia, non si sono presi la briga di vedere cosa ne pensassero gli individui concreti, non necessariamente esperti di filosofia, investiti dalla violenza del male; né, tanto meno, cosa ne pensavano i bambini e gli animali esposti agli effetti del male.
Alla sofferenza degli innocenti, dei bambini e degli animali non hanno pensato i filosofi, ma alcuni poeti: da Virgilio a Manzoni e Pascoli; e vi hanno dedicato alcune tra le pagine più belle della loro produzione letteraria.
Poi è arrivata l'ondata dei misticismi pseudo-orientali che, facendo leva su quanto seminato dalle ultime generazioni di filosofi relativisti, hanno cercato di persuaderci che il Bene e il Male, in se stessi, non esistono, ma che sono le due facce complementari e necessarie di un'unica realtà. Semplificazione eccessiva che, nelle religioni e nelle filosofie autenticamente orientali, come l'induismo e il buddhismo (e non nei loro ibridi rimaneggiamenti ad uso e consumo di un pubblico occidentale di gusto New Age) trova ben altra articolazione e, soprattutto, la necessaria distinzione fra il piano dell'Assoluto e quello del relativo.
Certo che, sul piano dell'Assoluto, il Bene e il Male non si presentano così nettamente separati e contrapposti, come lo sono in quello del relativo; al punto che, per dirla con Sant'Agostino, il male in sé, forse, non esiste neppure, ma è solo carenza di Bene. Noi, però, esseri umani in carne e ossa, non viviamo sul piano dell'Assoluto, per quanto la nostra anima vi aspiri ardentemente; e, nel mondo del relativo in cui viviamo immersi, il male è Male e il bene è Bene; ed il male che colpisce gli innocenti, i bambini e gli animali appare come una sfida particolarmente angosciosa al nostro senso della giustizia ed al nostro bisogno di capire, almeno in modo parziale.
Non parliamo qui, evidentemente, del male puramente fisico, quale ci si presenta sotto le forme della malattia, degli sconvolgimenti tellurici e atmosferici, degli incidenti fortuiti. Un bambino che, giocando, insegue il pallone e finisce sotto una macchina, oppure cade nel fiume e annega, costituisce un evento tragico e inaccettabile per i suoi genitori; ma, in se stesso, non è di natura tale da mettere in crisi la concezione di un mondo ordinato e rivolto al Bene.
Neppure un bambino che muore in guerra, sepolto dalle macerie della propria casa colpita dalle bombe nemiche, mette in crisi realmente una tale concezione, benché costituisca un evento terribile e straziante per i suoi genitori e per chiunque possieda un minimo grado di sensibilità. Non la mette in crisi perché le guerre non sono opera di un destino cieco e inarrestabile; sono opera delle forze umane: scelte diverse da parte dei governi, atteggiamenti diversi da parte dell'opinione pubblica potrebbero impedirle, farle cessare, renderle inutili.
È già accaduto e continuerà ad accadere: quante guerre sono state scongiurate dalla buona volontà e dal senso della misura di persone responsabili, benché ci si trovasse in presenza di oggettivi fattori di contrasto internazionale, anche gravi; e quante, viceversa, che apparivano evitabili o, addirittura, decisamente prive di motivazioni oggettive, sono state scatenate, unicamente per la sete di potere di pochi individui spregevoli, tutti tesi a perseguire tenebrosi disegni che non potevano essere resi di dominio pubblico?
Ma c'è un altro genere di male, che ci riempie di orrore e di sgomento e che appare suscettibile di mettere in crisi la nostra credenza in un mondo provvidenzialmente ordinato: ed è il male assolutamente gratuito, il male fine a se stesso, il male che si compiace di sé e che si accanisce di preferenza sui più deboli e indifesi.
Prendiamo il caso di un bambino torturato, violentato e ucciso da un bruto: chi mai potrà spiegare a quei genitori che quel male è frutto di elementi naturali, come la psicologia distorta dell'assassino, e di carenze e omissioni sociali, quali la distrazione e l'indifferenza generalizzata - dai massimi ai minimi livelli - per le esigenze fondamentali di ciascuno, a cominciare, appunto, dai più deboli e dai più esposti, non solo in senso fisico, ma anche psicologico?
Infatti, proseguendo nella crudeltà di queste riflessioni: chi mai potrà spiegare ai genitori di quell'assassino sadico e pedofilo, forse affetto da gravissimi disturbi della personalità, che giustizia è stata fatta, quando il loro congiunto sia stato soppresso in un locale speciale delle carceri di Stato, presenti un giudice e, magari, i parenti della vittima, per godersi lo spettacolo di quella seconda uccisione?
Non vogliamo di certo mettere il carnefice e la vittima sullo stesso piano; vogliamo soltanto ricordare che c'è un grande, talvolta pauroso mistero nelle pieghe del cuore umano; un mistero così profondo del Male e del Bene, che la nostra mente stenta a farsene un'idea, per quanto vaga e approssimativa.

A questo punto, forse, la prima cosa importante da fare è operare una distinzione preliminare fra la sofferenza e il Male.
Il male morale si presenta necessariamente sotto forma di sofferenza; ma la sofferenza, di per sé, non è necessariamente un male morale. Al contrario - e ciò potrebbe suonare come scandalo agli orecchi di certi moralisti zuccherosi, che non guardano all'uomo quale egli è, ma quale vorrebbero che fosse - la sofferenza è sovente occasione di Bene; e, più precisamente, di scoperta del vero Bene e di "conversione" (non necessariamente nel senso teologico della parola) dalla realtà del peccato a quella della Grazia.
Certo, lo ripetiamo: è un grandissimo mistero; un mistero per alcuni aspetti addirittura inquietante, torturante, sconvolgente - e ben lo sapeva un altro gradissimo scrittore, Fëdor Dostojevskij, che vi ha dedicato gran parte della propria riflessione; ma appunto perché tale, non possiamo pretendere di comprenderlo, e tanto meno di spiegarlo, secondo le nostre umane, terrene, limitate e imperfette categorie logiche e morali, a partire da quelle di Male e di Bene.
Per noi - ed è indicazione del fatto che l'utilitarismo non è soltanto una specifica corrente filosofica del pensiero occidentale moderno, ma una costante di fondo dell'animo umano - il bene è ciò che produce piacere, il male ciò che causa dolore. Ebbene, questo schema non si applica ad una riflessione sul mistero del Male che vada al di là del dato immediato e che tenti (si badi: che tenti) di accostarsi, «con timore e tremore» - direbbe Kierkegaard - a un qualcosa che è troppo più grande della nostra facoltà di comprendere e spiegare.
Il fatto è che non bisogna confondere il piano del finito e del contingente da quello dell'Infinito e del Necessario; ma non bisogna neppure dimenticare che la persona umana vive nel punto d'intersezione delle due dimensioni.
Dunque: l'essere umano, dotato del bene incommensurabile della libertà, possiede per ciò stesso anche la mirabile facoltà di trasformare il Male in Bene, mediante una assunzione di consapevolezza che gli consente di non giudicare soltanto "buone" quelle cose che gli recano piacere, né soltanto "cattive" quelle che gli procurano sofferenza. E, di fatto, è noto che si dà il caso di persone ciniche, egoiste ed insensibili le quali, in seguito all'esperienza di una grave malattia o alla perdita di una persona cara, hanno rivisto e trasformato radicalmente il proprio atteggiamento nei confronti della realtà, diventando benevole, compassionevoli e generose.
Tutto questo è possibile, si dirà; anzi, è stato più volte constatato: ma come la mettiamo con le vittime innocenti? Con i bambini che hanno subito crudeli violenze e, magari, sono stati uccisi in circostanze tali che né loro, né i loro cari, hanno potuto aggrapparsi alla benché minima occasione di conforto e, tanto meno, di trasformazione del male in bene?
È un mistero certo; e, tuttavia, anche qui dobbiamo anzitutto notare - per sgombrare il campo da possibili equivoci - che le umane categorie di ciò che è "bene" e di ciò che è "male" sono terribilmente imprecise, soggettive e mutevoli.
Si sa che una situazione di piacere può degenerare in una situazione di acuto dolore e sofferenza in maniera repentina; e che, a volte, la distanza fra l'una è l'altra è talmente breve e quasi impercettibile, da rendere dubbiosi sulla realtà del confine stesso che le separa.
Se siamo torturati dalla sete, bere diventa una fonte di estremo piacere per il nostro organismo: ma quanto piccolo è il passo che separa questo piacere da una terribile tortura, come ben sapevano quei raffinati aguzzini di Pinochet, i quali costringevano le loro vittime a ingurgitare, con l'imbuto, quantità intollerabili di acqua. Non parliamo poi dei rapporti sessuali, ove il confine tra il piacere e il dolore è talmente sottile - complice una certa componente di sadismo e masochismo presente in ogni essere umano - da rendere assai problematico il voler fissare un criterio di distinzione generale.
Perfino nel caso delle torture fisiche e morali inflitte da un essere umano ad un altro, del resto, quel confine appare a volte labile ed elusivo, come bene ha illustrato il film di Liliana Cavani «Il portiere di notte» e come dimostrano numerosi casi di persone - in genere di sesso femminile -, rapite e sequestrate a lungo, a fini di riscatto, da altre persone - in genere di sesso maschile -, nei quali è venuto a formarsi un torbido ma potente legame di dipendenza e perfino di attrazione tra le prime e le seconde, a dispetto di ogni evidenza della reciproca situazione "oggettiva".
 Oppure si pensi al bel film di Gillo Pontecorvo, «Kapò», che bene illustra come (a parte alcune inverosimiglianze e forzature ideologiche) un sistema concentrazionario non potrebbe reggersi se non vi fosse una segreta disponibilità a collaborare con esso, da parte di alcune vittime designate,  nel ruolo di zelanti aguzzini dei propri ex compagni di sventura.
Tuttavia, non vogliamo dilungarci su tali aspetti della questione, che potrebbero apparire marginali (anche se tali non sono) e dare l'impressione di voler aggirare il nodo fondamentale del problema che ci eravamo posti. Il nodo, infatti, si può formulare in questi termini: quando non c'è più rimedio al male, perché la morte toglie ogni possibilità - anche solo teorica - di trasmutazione del dolore in un valore morale positivo; quando ci si trova davanti alla morte di un innocente, evento irreparabile per eccellenza, che fine fanno questo genere di argomentazioni?
Ebbene: sia pure con tutte le cautele del caso (e, in particolare, ribadendo ancora una volta la impossibilità ontologica, per l'essere umano, di spiegare tutto il mistero del Male), è pur necessario affrontare di petto tale nodo centrale e dire chiaro e tondo che l'idea della morte elaborata dalla nostra società è troppo limitata e imperfetta per consentirci di valutarne serenamente tutta la portata esistenziale e tutte le possibili implicazioni di natura etica.
Per dirla in termini estremamente semplici: la nostra società ha elaborato la convinzione che la morte sia il male supremo, la sciagura irreparabile; ma si tratta di un punto di vista prevalentemente emotivo, che non trova riscontro né nella stragrande maggioranza delle altre culture, né nella nostra stessa cultura, prima che vi attecchisse il germe della modernità, fondata sull'idea della storia (e della vita umana) come progresso dalle tenebre dell'ignoranza e della superstizione verso la luce della ragione e della felicità.
Forse la nostra cultura, dominata dai miti dello scientismo, è pervenuta a questa visione totalmente negativa della morte per il semplice fatto che, dopo aver teorizzato, anzi, affermato con estrema decisione, che il mondo è nato dal caso e che l'uomo è l'ultimo evento casuale di una lunga catena di eventi altrettanto casuali, essa si è trovata impossibilitata, poi, ad esorcizzare le logiche e inevitabili conseguenze di un tale approccio materialistico: che la morte, cioè, non ha alcun senso, così come non ha alcun senso la vita; così come non ha alcun senso il fatto che il mondo esista; che noi esistiamo, che noi soffriamo, speriamo e ci interroghiamo.
Solo nella prospettiva di un mondo casuale, privo di senso e, in ultima analisi, assurdo - come vanno ripetendo, da Pirandello a Sartre, i "maîtres à penser" della modernità - la morte appare come l'evento terrorizzante per eccellenza: perché chiude, col suggello del nulla eterno, quel nulla temporale che è il fenomeno vita.
Se, invece, si pensa - come ogni cultura uamana ha sempre creduto, fino all'avvento della modernità - che il mondo è il frutto di un disegno provvidenziale divino, che noi non possiamo comprendere appieno, ma nel quale possiamo aver piena fiducia - ecco che la morte appare come un momento di passaggio, certo inquietante e misterioso, ma di per sé non catastrofico e non irreparabile, di quel disegno complessivo.
Per cui, tornando al nostro assunto iniziale, bisogna pur dire che quella morte che, a noi, appare come la sciagura suprema e l'evento irreparabile per antonomasia, in una prospettiva spiritualistica non è affatto tale; e che, quindi - ma senza con ciò cadere in una aberrante glorificazione del male - anche la morte dell'innocente può avere un significato diverso da quello che a noi, immersi nella prospettiva del finito, appare.
Non si tratta, pertanto, di sdrammatizzare la morte - che, da un punto di vista umano, non può non apparire come un passaggio sommamente angoscioso -, ma di entrare nell'ordine di idee che tutto ciò che, in una prospettiva immanente, appare o può apparire casuale, assurdo, ingiusto - a cominciare dal male, materiale e morale -, in una prospettiva trascendente si presenta sotto una luce completamente diversa: ossia come parte di un armonioso disegno complessivo, di cui noi possiamo scorgere solo qualche isolato frammento.
Non ci nascondiamo che è precisamente questo aspetto del problema del male, ciò che ha permesso a tanti intellettuali rivoluzionari di definire le religioni come l'oppio dei popoli: ed è un'accusa tremenda, quasi un marchio d'infamia, che stenta a scomparire.
Si dice, ad esempio: sì, la civiltà indiana è altamente spirituale; ma non ha saputo portare ai suoi membri un minimo di giustizia sociale, anz,i si è retta su sistemi immensamente ingiusti, come quello delle caste: dunque, è evidente che la religione costituisce un fattore di ritardo e di impedimento all'instaurazione del regno della felicità in terra.
Ci si dimentica di aggiungere che le rivoluzioni hanno prodotto tali e tanti sistemi politici e sociali regressivi, da far emergere sempre più l'intuizione di Simone Weil, secondo la quale non le religioni, ma le rivoluzioni dovrebbero essere considerate l'oppio dei popoli…
Peraltro, il punto è sempre lo stesso: coloro i quali denigrano una visione spirituale della vita perché, secondo loro, viene sfruttata dalla casta sacerdotale e, in genere, dalle classi egemoni, per opprimere il popolo, lo fanno a partire di una idea di felicità terrena, e perfino di giustizia, che è tutta occidentale e tutta moderna e, pertanto, non coincide affatto con la Felicità e la Giustizia in quanto tali, ma solo con l'idea che di esse si sono formati l'illuminismo, l'utilitarismo e il positivismo: idea per lo meno discutibile.
Sotto sotto, c'è sempre la convinzione, implicita o esplicita, che il mondo della democrazia, del libero mercato, della tecnologia  e dello scientismo sia intrinsecamente superiore a tutte le altre visioni della realtà; che i suoi difetti non siano né possano essere strutturali, ma solo accidentali; che, viceversa, i difetti degli altri sistemi di vita siano intollerabili e meritevoli di essere banditi al più presto da una umanità che voglia dirsi "civile".
Le guerre mondiali, i campi di sterminio, la bomba atomica, lo sconvolgimento climatico, le crisi finanziarie che gettano sulla strada milioni di lavoratori e che polverizzano i risparmi di milioni di pensionati: sono tutti incidenti di percorso, all'interno di una visione del mondo sostanzialmente buona e sana; anzi, dell'unica visione del mondo meritevole di sopravvivere e di imporsi su tutte le altre, portando ai quattro angoli del globo la sua "buona novella"…
Secondo questa visione del mondo, il male può essere abolito facendogli la guerra (magari a parole): guerra alla malattia, guerra all'ignoranza, guerra alla povertà, eccetera eccetera. E gli strumenti della sicura vittoria sono la ragione, la tecnica, le macchine.
Secondo questa prospettiva, non c'è bisogno che gli uomini si sforzino di trasformare il male in bene; il male non va trasformato, va distrutto: e a farlo ci penseranno i nostri strumenti tecnologici.
Questa, sì, è una negazione del mistero del Male; e, come sempre avviene quando si nega un mistero che pure ci interroga, la soluzione che ci viene proposta sarebbe quella di ficcare la testa nella sabbia per non vedere, per non sentire…