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Home / Articoli / Fino a che punto è giusto che gli adulti subiscano la dittatura dei bambini?

Fino a che punto è giusto che gli adulti subiscano la dittatura dei bambini?

di Francesco Lamendola - 05/01/2009


 

Alice Miller, analista a Zurigo e autrice di articoli e libri su quelli che lei definisce «il dramma dell'infanzia e i pericoli che si nascondono nei principi educativi», scrive, nel suo studio «Il dramma del bambino dotato», all'inizio del capitolo intitolato: «La mortificazione del bambino, il disprezzo della debolezza e le loro conseguenze» (titolo originale: «Das Drama des begabten Kindes und die Suchen nach dem wahren Selbst», Frankfurt, Suhrkamp, 1979; traduzione italiana di Elena Franchetti, Torino, Paolo Boringhieri editore, 1982, 1983, pp. 91-94):

«Durante un periodo di vacanza in cui stavo riflettendo sul tema del "disprezzo" e andavo rileggendo vecchi appunti suggeritimi da alcune sedute analitiche, mi capitò di vivere con particolare intensità una scena banale che senza la sensibilizzazione suddetta mi sarebbe probabilmente passata inosservata; una scena senza alcun avvenimento spettacolare, come ne succedono tutti i giorni. Poiché mi consente di illustrare senza rischio di indiscrezione alcune opinioni che ho acquisito nel corso del mio lavoro analitico, me ne servirò come introduzione a quest'ultimo saggio.
Durante una passeggiata, davanti a me camminava una giovane coppia, tutti e due di corporatura robusta, con un bambino di circa due anni che piagnucolava. Di solito osserviamo situazioni del genere con gli occhi dell'adulto; io cercherò invece di darne una descrizione basata sull'esperienza del bambino. I due si erano comprati un gelato al vicino chiosco e lo leccavano con gusto. Anche il piccolo avrebbe voluto avere i suo gelato. La madre gli diceva amorevolmente: "Su, dà un morsino al mio; uno tutt'intero per te è troppo". Ma non era questo che il bambino voleva; tendeva la mano verso il gelato e subito la madre allontanava la propria. Il bambino allora piangeva disperatamente. La situazione si ripeteva col padre: "andiamo, topolino - diceva il padre con tenerezza - prendine un po' dal mio". "No, no", diceva il bambino; faceva anche qualche passo per tentare di distrarsi, ma subito tornava indietro e guardava pieno di invidia e di tristezza su in alto, verso i due grandi che si godevano, soddisfatti e solidali, il loro gelato. Ripetutamente uno dei due gli offriva un assaggio, la piccola mano del bambino si protendeva ad afferrare l'intero gelato e quella dell'adulto si ritirava a col suo tesoro. Più il bambino piangeva, più i genitori si divertivano. Ridevano moltissimo e certo pensavano che così avrebbero fatto ridere anche il bambino: "Ma via - dicevano - quanto la fai lunga per una tale stupidaggine". Il bambino aveva provato anche a sedersi per terra voltando la schiena ai genitori e buttando dei sassolini dietro di sé in direzione della madre; ma poi si era alzato improvvisamente e ora guardava preoccupato, temendo che i suoi genitori fossero scomparsi. Ed ecco, finito il suo gelato, il padre regala al bambino l'asticella ben ripulita e riprende la  passeggiata. Il bambino prova a leccare il bastoncino di legno con evidente aspettativa, lo guarda, lo getta via, cerca di raccattarlo, ci rinuncia; un singhiozzo profondo, in cui c'è tutta la sua solitudine e la sua delusione, scuote il suo piccolo corpo. Alla fine si mette a trotterellare tranquillo dietro i suoi genitori.

Direi che non c'è dubbio: il bambino non era stata frustrato nella sua "pulsione orale" - più d'una volta gli era stato offerto del gelato dai suoi genitori - bensì nei suoi bisogni narcisistici.  Non si era compreso che egli voleva il gelato in mano come gli altri; di più: si era riso si era riso del suo desiderio, ci si era presi gioco del suo bisogno. Eccolo lì davanti ai due giganti orgogliosi della loro fermezza, che si spalleggiano l'un l'altro; lui, invece,  tutto solo col suo dolore. Coi suoi gesti, per quanto espressivi - non sa ancora parlare, evidentemente sa solo dire "no" - non arriva a farsi intendere. Il bambino non ha difensori.
Ci si può chiedere la ragione di una tale mancanza di empatia in questi genitori. Come mai a nessuno dei due era venuto in mente di finire ala svelta il suo gelato o, ancora meglio, di buttarne via la metà per dare al bambino qualcosa di più dell'asticella, e cioè anche un po' del suo contorno commestibile? Come mai tutti e due non avevano trovato nulla di meglio che mettersi a ridere? Perché si mostravano tanto indifferenti a una disperazione così evidente? Non erano genitori freddi o cattivi, anzi il padre si era rivolto al bambino con una particolare tenerezza; eppure, perlomeno in quel momento, mostravano scarsa empatia. Possiamo spiegare l'enigma solo sensibilizzandoci alla loro stessa debolezza: considerandoli bambini insicuri che avevano finalmente trovato un essere più debole di loro col quale sentirsi forti. Non c'è bambino che non abbia fatto esperienza di adulti che si prendevano gioco, per esempio, della sua paura., dicendogli: "Ma di cos'hai paura, di una simile sciocchezza?": Il bambino si sente umiliato, disprezzato per non aver saputo distinguere ciò che è pericoloso da ciò che non lo è; e alla prossima occasione trasmetterà questo sentimenti a un altro bambino più piccolo di lui. Esperienze del genere possono comprendere un'amplissima gamma di sfumature; ciò che le accomuna è la paura del bambino debole e impotente da un lato e, dall'altro, il senso di forza che l'adulto attinge in questa debolezza; un senso di forza che si nutre anche della possibilità di manipolare la paura dell'altro, mentre non può fare altrettanto con la propria.
Non c'è da dubitare, dunque, che tra una ventina d'anni - ma forse anche prima - magari approfittando dei fratellini più piccoli - il nostro ragazzino reciterà di nuovo la scena del gelato, solo che questa volta sarà lui il padrone della situazione, mentre il piccolo essere debole, invidioso, impotente, sarà l'altro; ma non sarà più necessario che egli lo porti dentro di sé, potrà finalmente staccarsene e porlo al di fuori..
Il disprezzo per il più piccolo e il più debole costituisce quindi la migliore difesa contro l'emergere dei propri sentimenti d'impotenza; è l'espressione della debolezza scissa. Il forte che conosce la propria debolezza perché l'ha vissuta, non ha bisogno di esibire la propria forza col disprezzo.»

L'effetto che produce in noi la lettura di questo brano di prosa è quello di rafforzare una nostra antica convinzione: che, cioè, quando si è dominati da un'idea fissa, si finisce per leggere ogni evento della nostra esperienza come una conferma dell'onnipresenza di quella idea, trasformandola nella formulazione di una legge universale.
Alice Miller era ossessionata dall'idea del disprezzo, dai suoi meccanismo, dalla sua genesi: e ha interpretato la scena del gelato come una conferma lampante della sua particolare interpretazione di tale genesi.
Sfidiamo qualunque lettore non prevenuto a trovare, nella scena sopra descritta - per quanto l'autrice ce l'abbia presentata in maniera tutt'altro che oggettiva, nonostante voglia dare l'impressione di  essersi sforzata di farlo - la benché minima traccia di disprezzo da parte di quei due genitori nei confronti del loro figlioletto.
Benché la Miller ce li presenti in modo tale da renderli il più possibile antipatici - dicendo, ad esempio, che erano di corporatura robusta, un modo ipocrita per dire che era grassi, in un mondo che coltiva l'ideale del fisico asciutto fino a far sentire le persone in sovrappeso come brutte e indesiderabili; oppure col particolare che essi "si godevano il loro gelato soddisfatti e solidali", in modo da presentarli non solo come poco sensibili, ma anche come ingordi -, perfino lei deve ammettere che:
1) la madre parlava al bambino "amorevolmente", mentre gli offriva di leccare il proprio gelato;
2) il padre gli parlava "con tenerezza", gli si era anzi rivolto "con particolare tenerezza";
3) ripetutamente uno dei due gli offriva un assaggio;
4) il bambino tirava sassolini contro la madre, volgendole la schiena, ma non viene detto che questa lo abbia per ciò sgridato, rimproverato e, meno ancora, che lo abbia punito;
5) alla fine, il bambino "si mette a trotterellare tranquillo dietro i genitori".
Si mette a trotterellare, cioè a correre di buona lena, e per di più "tranquillo", ossia completamente rasserenato, come se non fosse successo proprio niente di particolarmente traumatico o straziante o ingiusto.
Viene allora da pensare che tutta la tragedia psicologica e affettiva sottesa dall'interpretazione della Miller non sia esistita che nella sua immaginazione.
Ma c'è di più.
Ella ipotizza - anzi, formula una teoria come parte di una legge generale - che quei due genitori portassero in se stessi la ferita di analoghi soprusi da parte dei rispettivi genitori e che, non avendo saputo elaborare la propria sofferenza, abbiano riversato i propri complessi sulla loro creatura innocente e indifesa, disprezzando la sua debolezza, anzi disprezzandola in quanto creatura debole; e si avvale, per supportare tale interpretazione, del fatto che i due sembravano divertirsi moltissimo alla scena della disperazione del bimbo che chiedeva l'intero gelato, anche se è costretta ad aggiungere, contraddicendosi, che "certo così pensavano che avrebbero fatto ridere anche il bambino".
È evidente, a questo punto, la forzatura pseudo-psicologica della sua interpretazione: se quei due genitori pensavano, in buona fede, di sdrammatizzare la situazione, facendo ridere il loro bambino (che, da parte sua, li stava letteralmente tormentando in pubblico con ogni sorta di capricci), cade ogni possibilità che agissero per disprezzo di lui e della sua debolezza.
Ma è proprio qui che viene fuori la tipica, infallibile strategia della psicanalisi d'indirizzo freudiano: certo, quei due genitori agivano in buona fede, ma nel loro inconscio - ecco la formula magica, ecco l'abracadabra di quella forma di magia nera che è la psicanalisi, capace di zittire qualunque perplessità e di sgominare trionfalmente qualunque obiezione - erano animati precisamente da sentimenti di disprezzo: più esattamente, di disprezzo e mortificazione verso se stessi, verso il proprio io di quando erano stati bambini; ed ora trasferivano sul primo essere più debole, capitato loro a portato di mano, il bisogno di rivalsa lungamente accumulato.
Sarebbe inutile obiettare che, in questo modo, è possibile attribuire a chiunque qualunque cosa e che, con la formula magica dell'inconscio e dei traumi infantili rimossi, l'analista è in grado di trovare qualunque cosa egli lo desideri nella personalità di qualsiasi essere umano: Popper ha giù mostrato assai bene - e, secondo noi, in maniera definitiva - la caratteristica antiscientifica della  psicanalisi (e del marxismo) proprio per l'evidente impossibilità di "falsificarlo", ossia di contraddirlo.
Sospettiamo, nella Miller, la cattiva razza di quegli assistenti sociali che, sulla base di cervellotiche deduzioni, hanno una temibile facilità nel far ammonire genitori "inadempienti" dal braccio secolare dello Stato o, addirittura, di far togliere loro la patria potestà, magari sulla base di denunce formulate dagli stessi bambini, ma totalmente prive di riscontri oggettivi. Certo non ci sogniamo di negare che i maltrattamenti dell'infanzia esistano, così come esistono genitori distratti, irresponsabili, brutali; ma è pur vero che esistono genitori che sono stati trattati da criminali, interrogati, arrestati, processarti e anche condannat, sulla base di sospetti assolutamente inconsistenti; che sono stati disonorati, che hanno perso il lavoro, che sono stati abbandonati dal coniuge, in seguito ad accuse infamanti - ad esempio, di aver commesso abusi sessuali sui propri figli -  le quali, poi, si sono rivelate del tutto prive di fondamento.
Forse, se certe psicanaliste mettessero su famiglia e si dedicassero all'educazione dei propri figli, invece di spiare gli altri genitori, giudicarne con malevolenza ogni più piccolo comportamento e imputare loro l'accusa di insensibilità, mancanza di empatia, disprezzo della prole e perfino una certa qual forma (inconscia, naturalmente) di sadismo, come se si divertissero della paura o della disperazione degli inermi figlioletti, si accorgerebbero che quello del genitore non è un mestiere facile; che non conosce feste né domeniche; che è fatto anche di errori e di mancanze, ma che nessuno nasce genitore perfetto e nessuno impara ad essere migliore, se non attraverso insuccessi e fallimenti; e, soprattutto, che non è giusto né educativo correre dietro a tutti i capriccetti dei bambini piccoli, anche se supportati da strepiti e pianti.